“Una volta le aziende avevano dei canali one-to-many, dove rifugiarsi quando volevano far sapere al mondo alcune cose. Erano canali diretti, come il marketing, o intermediati da professionisti, come i media. Poi, per dare le risposte ai clienti, c’erano persone che rispondevano al telefono. Oggi, con i canali social non è più così, e occorre strutturarsi per dare subito risposte veloci e informate a clienti che esprimono i loro reclami (ma anche la loro soddisfazione) in luoghi ormai completamente pubblici”.
Così Manuela Kron (Nestlé) ha raccontato la transizione delle grandi aziende costrette a confrontarsi in una costante conversazione a due vie coi loro clienti, nel corso del panel su “New Marketing, Community & Social Caring”, svoltosi recentemente a Pisa, in occasione dell’Internet Festival.
Per me, che mi occupo di Social Caring per TIM, essere invitata a un dibattito così pertinente con le mie sfide quotidiane è stata una opportunità più unica che rara: sul palco dei relatori erano presenti, oltre a Manuela, persone che da tempo studiano il problema sul campo: come Daniele Chieffi (Unicredit), autore di diversi libri sull’argomento, e addirittura – graditissimo ospite a sorpresa – uno dei massimi guru di internet, un vero e proprio ideologo della rivoluzione digitale come Richard Stallman.
Sono passati ormai oltre 15 anni dal “ClueTrain Manifesto”, dove un manipolo di visionari tracciarono le linee delle nuove regole d’ingaggio con cui, grazie al web, chi commercializza prodotti e servizi avrebbero dovuto comunicare coi loro clienti. Non più una serie di messaggi approvati dal vertice aziendale, e imposti in modo spersonalizzato dall’alto, ma un costante dialogo tra clienti e le persone che lavorano in azienda, con tanto di nome e cognome. Una costante, trasparente conversazione tutt’altro che blindata, che avrebbe caratterizzato la nuova frontiera non solo dell’assistenza al cliente ma persino della co-creazione dei prodotti e dei servizi stessi.
Secondo Stallman alcuni segnali – come la progressiva desuetudine dei focus groups, un dialogo iperprotetto con dei microcampioni di utenti – confermano l’inesorabilità di questo passaggio. Ma quanto siamo vicini, nel 2013, a questa nuova frontiera? Secondo i partecipanti al dibattito, forse meno di quello che speravamo. Esiste, è vero, il fenomeno dell’ ”Empowered Consumer” (descritto da Josh Bernoff nel suo libro “Groundswell” ): un cliente in grado di prendere tutte le decisioni che impattano un brand (a cominciare dalla decisione d’acquisto) non solo da una pluralità di canali, ma addirittura creando lui stesso nuovi canali di confronto e di verifica con gli altri clienti. Alcuni mercati fortemente intermediati, come il turismo, risentono più di altri della presenza di piattaforme come TripAdvisor, che hanno in larghissima misura messo in crisi il ruolo dell’Agenzia di Viaggi. Ma anche sul web troppi fattori “inquinano” ancora la comunicazione commerciale per poter intravedere i primi bagliori di questa utopica “città del sole”.
In compenso, chi da sempre si occupa di risolvere i problemi dei clienti, in una conversazione a due vie come normalmente accade per il customer care, vede nell’utilizzo dei social media una opportunità piuttosto che una problematica. A patto di saperli usare, di rispettarne l’etichetta e assecondando l’uso che ne fanno gli utenti.
Telecom Italia è stata la prima azienda italiana a seguire l’evoluzione dei comportamenti dei propri clienti in una chiave alternativa ai call center tradizionale per la gestione del caring.
Già dal 2010 utilizziamo Facebook e Twitter per assicurare l’assistenza ai clienti secondo le modalità del social caring, caratterizzate dall’interazione diretta con gli stessi e dalla velocità ed efficacia di risposta. Negli ultimi tre anni la quota di richieste di assistenza attraverso i social network, anche per effetto della vorticosa crescita degli utenti registrati sugli stessi, ha portato Telecom Italia a posizionarsi – lo scorso mese di novembre – tra i 5 migliori brand su Facebook a livello mondiale in termini di numero di risposte di assistenza fornite.
E’ ovvio che per conseguire un risultato di questo tipo è necessario che l’azienda affronti coraggiosamente il cambiamento culturale necessario per rivoluzionare l’approccio di persone, processi e strumenti al proprio settore di caring.
Le persone coinvolte devono essere, competenti, professionali ed essere in grado di entrare in forte empatia coi loro interlocutori, grazie alle più avanzate tecniche di ascolto attivo. I processi devono essere rivisti in funzione dei canali diversi di interazione. Gli strumenti – in particolare quelli per il monitoraggio devono evolversi costantemente per garantire la massima efficacia ed efficienza.
Per questo, quando parliamo di investimento nel social caring, non si tratta solo di uno sforzo economico, ma soprattutto di un grande investimento culturale, senza peraltro mettere mai da parte l’unico vero asset non duplicabile di un caring d’eccellenza: l’attenzione al cliente, che prescinde dal luogo e dal contesto della relazione.