Il videogioco intrattiene con l’interazione. L’intrattenimento (che non è sinonimico di divertimento) è la base, il minimo comune denominatore effettistico del videogioco.
Ma il videogioco è anche molto altro: comunicazione; istruzione; educazione e formazione.
Detroit: Become Humans: un gioco sulla metafisica dei mondi possibili
Un videogioco deve minimamente intrattenere attraverso l’interazione. Ed è tale, in quanto tale. Se poi un videogioco diverte, è “soltanto” un plus.
Quindi la “base” della “piramide” della funzione del videogame è data dall’intrattenimento.
Ed è bene ribadire che l’intrattenimento può (e talora deve) benissimo essere anche fine a sé stesso. Ovverosia servendo ad ammazzare il tempo con attività da cervello piatto. Se una persona guarda delle cosiddette trasmissioni trash (o gioca a videogiochi definiti tali), non è, perciò “inferiore” con chi si intrattiene quotidianamente con letture di Lev Tolstoj. Anche perché, e questa componente è spesso sottostimata, un individuo può fare l’una e l’altra cosa (si ricordi il “potere” della «e» congiunzione rispetto la «o»).
Precisato questo passo, ecco la componente altra. Perché scrivendo di videogiochi nella dimensione culturale lato sensu intesa, si deve scalare la montagna fino a raggiungerne la vetta.
Il videogioco comunica, istruisce, educa
Un videogioco che comunica qualcosa. Ma e, anzi, ancora di più, un videogioco che permette di comunicare e sviluppare la socialità, quanto più se in pieno restringimento sociale da pandemia. Come quando Fortnite ha garantito la prossimità diretta e vivida, ma a distanza, del virtuale e del digitale, con l’online gaming nella quarantena. Producendo una socialità differente, ma viva e non meno reale: per centinaia di milioni di persone.
Dopo la componente di intrattenimento e dopo quella comunicazionale vi è la componente istruttiva. Per cui il gamer attraverso il videogioco, mediante l’avatar controllato (e sovente immedesimato) dal mix di input-output mediato dal controller e dal retro-feedback visualizzato a schermo, impara qualcosa che prima semplicemente non sapeva. Ignorava.
Una nozione, un’architettura, un’usanza, una geografia o un fatto. Potendo fare ciò pure quei videogiochi senza alcuna finalità eminentemente istruttiva, ma che si compongono, vuoi di un registro più “alto”, della media meramente intrattenente; vuoi dei messaggi che trasmettono. Come quello che portò migliaia di appassionati nello scoprire per poi visitare in loco «la Monteriggioni di Assassin’s Creed II».
Il penultimo gradino è invece quello dell’educazione, qui veleggiando su livelli di complessità realizzativa molto elevata. Tant’è vero che tra i milioni di esperienze videoludiche, pochissime possono definirsi educative e ancora di meno sono quelle in grado di far leva sul divertimento. Se infatti l’interazione è la base del videogame, per educare si rende davvero necessario essere anche ingaggianti. Perché quando si vuole raggiungere una missione così alta, si deve essere anche convintamente alternativi o soddisfacentemente complementari all’educazione tradizionale. Non avendo senso concentrarsi in un videogioco educazionale che però, essendo noioso (magari persino più noioso di una lezione cattedratica), non venisse… Videogiocato. Creare un videogioco è un mestiere complesso e molto difficile, all’ennesima potenza lo sarà pertanto creare un videogame educazionale. In questo arduo livello conseguito, l’esempio massimo è l’ormai noto Minecraft: Education Edition.
Poi, poi c’è la vetta. Il gradino formativo. Per gamer formati nella vita, a tutto tondo. Formati, perché no, a usare il videogioco per creare nuove esperienze videoludiche e per citare un dixit di Barack Obama all’epoca presidente statunitense: non limitandosi a giocare ai videogiochi ma imparando a programmarli (tramutando persino una passione in un, pure redditizio, mestiere o impresa), magari essendo pure “belle” persone da un punto di vista professionale e personale (quest’ultimo inciso l’ha aggiunto lo scrivente).
Il videogioco in classe per accendere la discussione
Perché per sviluppare, per creare un videogioco, è necessario fare pressoché sempre un lavoro di squadra. Imparando poi un altro linguaggio, quello della programmazione. Perché tutti i videogiochi per essere realizzati hanno dietro una molteplicità di background e di culture, che vanno dalla semantica (con i colleghi e i superiori; con l’industry e con i publisher) come anche quella informatica, ingegneristica e al contempo pure artistica, da imparare. Potendolo apprendere, quindi, molto più facilmente e molto prima del college, anche nel, dal e col videogioco. Non tanto qui intendendolo come singolo titolo videoludico, ma del videogioco proprio come medium. Meglio, come essenza.
Ma anche per chi non avesse questa ambizione o semplicemente interesse, c’è una spiaggia che potrebbe fare per lui o per lei. Perché l’apprendimento col videogioco può discendere anche da un’esperienza dibattimentale: accendendo la discussione, non soltanto tecnica ma ad ampio respiro sulla singola opera o sul medium. Come? Impiegandoli durante le lezioni come riferimenti culturali, spiegando il concetto di un pensiero o a paradigma, avviando discussioni stile cineforum. Come, nella personale esperienza, ho voluto nel mio piccolo positivizzare porgendo l’attenzione delle nuove generazioni sull’associazionismo mafioso videogiocato.
Si può parlare della mafia con un videogame? Non è forse, la mafia, un fenomeno criminale tragico e ancora pervasivo da renderlo indegno “per fatturare”? Insomma: non è indicibile fare della violenza, intrattenimento? Senza considerare che, a monte di una pura teoria inquisitiva mossa dai precedenti quesiti, Mafia (il videogame, ovviamente PEGI 18+) è già da un ventennio una delle serie videoludiche che ha venduto milioni di copie?
“Mafia” in classe: usare l’appeal del male per spiegarlo
Rovesciando però lo schema: perché non utilizzare proprio questo “appeal” verso il “male”, per spiegarlo?
Ed ecco allora che, calandosi nei frame dei tre capitoli di Mafia, se ne è descritta l’unicità fenomenologico-criminale (quella vera); la differenza della mafiosità rispetto il gangsterismo; le analogie e le similitudini tra il giocato e il reale; il ruolo della figura femminile nella consorteria e nel videogame; l’evoluzione storico-mafiosa e persino il rapporto che essa ha con Dio e di come esso venga rappresentato… O, meglio videogiocato.
E queste sono solo alcune delle molte sfaccettature trattate, direttamente o indirettamente, visibilmente o relativamente, in quei videogame. Perché, come ebbi a scrivere proprio tra le pagine di Mafia e mafie: Cosa nostra e la dote vincente: «Il videogame è un linguaggio in grado di spiegare la complessità».
E spiegare la complessità attraverso il videogame permette di avere l’attenzione alternativa di un uditorio giovane, il più “soggiacente” alle fonti di distrazione di qualsiasi altra gioventù pregressa ma, proprio per questo, non certo menomata. Anzi.
Tutto ciò, quindi, non deve spaventare: perché è un’evoluzione, non un problema.
Del resto, chi sta scrivendo è lo stesso bambino ritratto col disegno in copertina dal proprio fratello maggiore oltre vent’anni fa. Lo stesso bambino divenuto ora adulto e che, appunto, adesso, propugna nel suo piccolo un utilizzo dei videogiochi “alternativo”. Per opere principalmente intrattenenti e commerciali ma impiegabili anche divulgativamente; scientificamente; scolasticamente; accademicamente e amatorialmente. Per veicolare altri, più alti messaggi contribuenti a definire la donna e l’uomo di domani (che, in veritatem, è già dell’oggi).
Ma, attenzione, i videogame non devono sostituire nulla: né nell’insegnamento (la parte cattedratica) né, per dire, nello sport. Il ragionamento basato sulle «o» è finito. Appartiene infatti a un mondo analogico, ora dovendo imperativamente ragionare di «e»: questo e quello, io e te, per un noi quale prima persona plurale erigente la società «onlife» del domani. Che è, anzi, quella che già stiamo vivendo.
Una piccola, personale testimonianza
Non riesco a smorzare il personale entusiasmo quando anche l’Università se ne è resa partecipe, specificatamente nell’insegnamento di Teoria, Tecnica e Didattica dell’Attività Motoria, al III anno del Corso di Laurea magistrale a ciclo unico in Scienze della Formazione Primaria che si (pre)occupa nell’“insegnare ai futuri insegnanti ad insegnare”, tenendo il sottoscritto un seminario sull’argomento. Un chiudere il cerchio in quanto precedentemente, accolsi con partecipazione, l’invito delle autrici Manuela Valentini e Cristina Tonini Cardinali quando mi chiesero di stendere il capitolo dal titolo Il videogioco: il game del play nel III millennio per il libro Gioco, attività motoria, disabilità. Per una pedagogia del movimento (Anicia, 2021). Frutto letterario di un lavoro che per le Autrici è durato tre anni, accodandomi sul finire per apportare l’ottica della videoludica.
Avendo colto per tempo, le Autrici, l’impellente e la pressoché imprescindibile necessità di ormai parlare di videogame in maniera compiuta e diffusa, almeno per una prima battuta, nell’ambito della formazione, dell’attività motoria e della disabilità.
Del resto, questo stesso lungo articolo, è il tributo ideale che ho voluto rendere pubblico con una crasi pescante a più mani, a piene mani: da quel capitolo di libro dal seminario personalmente tenuto lo scorso autunno all’Università degli Studi di Urbino Carlo Bo e dallo speech della Prof.ssa Manuela Valentini nel Convegno Nazionale della Società Italiana di Pedagogia (SIPED) presso La formazione degli insegnanti. Problemi, prospettive e proposte per una scuola di qualità aperta a tutti e tutte, il 28 gennaio 2022 e dal titolo Tra exergame e videogiochi: strumenti comunicazionali e di apprendimento, per un e pluribus unum dalla prima persona singolare alla prima persona plurale.
Questo per voler dire che cosa?
Che la lezione in presenza, tradizionale, frontale, non è morta. Ma che essa risulti ormai una parte del tutto. Una parte fondante che già può essere integrata anche dal videogioco.
Vivendo, il docente di oggi, nell’arte dell’insegnamento che dipende dall’inventiva di lui medesimo.
Una cosa che già adesso i primi giovani insegnanti stanno mirabilmente per quanto diversamente fra loro, facendo, come gli encomiabili Andrea Peroni e Lorenza Saettone.
Quindi servendo, questo pezzo, per loro nell’insistere e per tutti gli altri educatori nello sprone a provare, nello sperimentare e nell’osare ancorché nel “piccolo” delle proprie scuole.
Due docenti, che non a caso si è voluto intervistare proprio in quel libro al fine di far conoscere la loro piccola grande impresa testimoniale, peraltro principiata per ambedue da under 30: il “Player 1” e la “Player 2”, come vengono lì soprannominati.
Il “Player 1” Andrea Peroni è tra i primi, per non dire il primo, in Italia, ad aver portato l’Assassin’s Creed Discovery Tour con tanto di console, in classe, dinanzi ad alunni della Scuola Primaria al fine di far scoprire loro i musei virtuali e vitali dell’Antico Egitto, dell’Antica Grecia e della cultura vichinga.
L’Assassin’s Creed Discovery Tour è infatti una versione sapientemente architettata da Ubisoft, precipuamente deputata all’istruzione e all’educazione dei giovanissimi, tra storia e geografia, di alcune delle civiltà e delle rispettive ambientazioni cui sono tratti alcuni capitoli del videogioco. Si noti che, collegandoci al discorso sul PEGI, l’insegnante, conoscitore ed esperto del mezzo (egli è pure un membro di rilievo della community d’appassionati di tecnologia e di videoludica UAGNA), portò non a caso in classe un’esperienza classificata PEGI 12+ (le versioni dell’Antica Grecia e dei vichinghi sono invece PEGI 7+) apparentemente “fuori target” rispetto l’uditorio di scolari ma che, proprio in base all’esperienza dell’insegnante e alla duttilità del PEGI (ricordiamolo, obbligatorio per l’immissione del videogame in Italia ma non già prescrittivo nel di suo rispetto), ha permesso di condurre un’(ancora) atipica per quanto significativa (persino memorabile) e significante lezione per tutti i piccoli discenti. Con anche responsività dei familiari: «Diversi genitori mi hanno ringraziato per l’attività, con i figli che ancora a distanza di giorni parlavano delle esperienze che avevano vissuto digitalmente: eravamo entrati nella tomba di Cheope senza muoverci dalle nostre sedie. Cosa potevano chiedere di più, del resto, per studiare la storia dell’Egitto?»
La “Player 2” Lorenza Saettone (già una delle cinque personalità femminili italiane in ambito gaming cui si invitò nel seguire dalle e tra le nostre pagine), invece, portando il videogame per sviluppare in classe ragionamenti di filosofia e di storia nella Scuola secondaria di secondo grado. Per un avanguardismo tra i banchi imperniato di trial and error (tipici dei videogame), ed anche per i progetti più avanzati ed elaborati cui sta portando avanti. Con una visione che sta sviluppando e che le fece dire di essere «Molto, molto contenta [della reazione avuta per questo suo approccio da parte di colleghi, dei genitori e degli alunni]». Con tanto di chiosa ironica: «Se non altro [sono felice] nel non essere passata per una psicotica».
Scherzi a parte, quest’asserzione permette di svelare un’altra arcana consecuzione del fare disruptive o, più modestamente, coniugante innovazione e tradizione nel mondo del lavoro (ampiamente inteso) e dell’insegnamento (a ogni livello): l’adulazione subconscia dello status quo e la fatica implicata nel cambiamento del mettersi in gioco. Dalle difficoltà del fare, specie se in contesti non privilegiati o di piccole dimensioni. Dove il limite minore è quello tecnico-tecnologico (e di budget) ma quello più grosso è la scaturigine del fattore umano. Fatto di incomprensioni, di invidie, di critiche e, soprattutto, di silenti muri di gomma che prosciugano ogni entusiasmo.
Ma, comunque, mai annichilendosi. Ritenta, infatti è un mantra del videogame.
Minecraft: Education Edition
Si pensi a Minecraft: Education Edition. Minecraft originariamente nasce dall’idea e dalla programmazione, sostanzialmente, di una sola persona: Markus (“Notch”) Persson. Un trentenne svedese che, all’epoca, viveva ancora con la madre (un’evenienza “ostracizzata” dalla cultura scandinava, anche soltanto rispetto la prassi mediterranea), con un lavoro modesto come tanti che, colpito anche da gravi depressioni, ha trovato nell’escapismo del videogioco e specificatamente della sua programmazione (che sviluppava a margine della sua mansione lavorativa), quel ch’è poi stato il videogioco più venduto di sempre, che portò “Notch” a vendere il suo studio di sviluppo a Microsoft, nel 2014, per circa €2 miliardi.
Ebbene, dalle prime versioni di Minecraft rilasciate al pubblico, in virtù della grande inventiva generativa da quel videogame ed essendo giocato da un pubblico trasversale anche da innumerevoli insegnanti, gli stessi, coltene le opportunità, iniziarono a ritrovarsi in Rete al fine di scambiare le proprie impressioni parlandone fra loro per usarlo didatticamente. Lì, confrontandosi e aiutandosi, già all’alba delle primissime versioni veniva per la prima volta spontaneamente e amatorialmente introdotto l’uso di Minecraft negli istituti scolastici. Dando il là al primo prototipo di quel che poi verrà istituzionalizzato nell’ormai celebre Minecraft: Education Edition.
Proprio quel Minecraft: Education Edition che ha surrogato la didattica a distanza molto meglio di innumerevoli lezioni-teleconferenze nell’emergenza pandemica.
Sia qui concessa una parentesi su Markus Persson. Perché dopo l’inaspettato per quanto incredibile successo di Minecraft, “Notch” cadde in disgrazia in virtù delle proprie intemperanze via social network, delle problematiche professionali (quando da un singolo successo ineguagliabile non si riesce, perché forse non si può, nel creare un altro “unicorno”, ogni lavoro produttivo consecutivo è percepito dal pubblico e dalla critica come un tonfo capitale) e delle turbolenze psichico-personali (anche dovute proprio alla celebrità), il creatore ebbe a ritirarsi dalla vita pubblica venendo poi letteralmente censurato dai tributi del videogame. Ciò ricordandoci, al netto di frasi infelici e talora apertamente contestabili ed esecrabili (così come talune condotte), che è spesso utile distinguere l’opera dal suo creatore e comunque rimembrare che, anche i grandi personaggi, siano non già santi bensì umani. Permanendo ricchi di errori (commessi e futuri), contraddizioni e negatività.
Il che non significa esimere dal “condannarli” o distanziarsene quando se ne presentasse l’appropriata occasione, ma non per questo sempre, consecutivamente e totalmente “eradicarli” tout court al loro storico (con)tributo. O “appiattirsi” alla presunta e cosiddetta cancel culture.
Tornando a Minecraft: Education Edition: è un “gioco da ragazzi” il portarlo così com’è, nelle classi di scuola, al fine di insegnarci?
No. Perché oltre al medium videoludico, bisogna conoscere il videogame specifico, in questo caso Minecraft nella sua precisa declinazione della versione Education Edition. Perché all’interno del media videogioco c’è un universo popolato da vari mondi (esempi ne sono i generi dei videogiochi), a loro volta composti da ecosistemi (i singoli videogame) che al loro interno presentano peculiarità e potenzialità uniche. Così come non fu un caso che il professor Andrea Peroni avesse studiato specificatamente l’Assassin’s Creed Discovery Tour personalizzandolo per il suo percorso formativo. Prolifica e d’aiuto, in tal senso, è oggi la bibliografia che coadiuva gli insegnanti: come da ultimo fa il libro curato da Andrea Benassi per Giunti Scuola e dal titolo A scuola con Minecraft. Progettare un mondo a cubetti, appunto redatto per aiutare al fine di insegnare mediante quello specifico software videoludico.
Da urbinate, in tema Minecraft, non si può che caldamente ricordare il progetto Raffaello in Minecraft realizzato dalla Galleria Nazionale delle Marche, da Maker Camp e da Microsoft con decine di scuole provenienti da tutt’Italia al fine di celebrare il Divino e la sua città natale, Urbino per l’appunto, quale gioiello rinascimentale sancito patrimonio dell’umanità UNESCO.
Insomma, la buona notizia è che tutti possono essere videogiocatori, la cattiva è che non tutti possono dire di conoscere il medium e ancora meno possono proficuamente portarlo come mezzo di insegnamento, diretto o indiretto, o almeno non con uno schiocco di dita se non assistito dalla curiosità di sapere, di sperimentare e di formarsi.
La conclusione è che i giochi del videogame sono aperti per chi volesse parteciparvi.
Parlare di videogiochi per apprendere qualcosa di al(t)ro
Parlando di videogiochi, a un certo punto, si deve menzionare il fenomeno degli streamer e più in generale dei content creator che, dall’avvento di YouTube prima e di Twitch.tv poi, ha cambiato per sempre la fruizione e la narrazione del videogame. Qui in particolare volendo menzionare chi, del videogame, in Italia, ne ha fatto una professione mediata di libero professionista e che ne fruisce professionalmente parlandone agli altri (soprattutto) attraverso l’uso dell’Internet. Con un occhio particolare, ancora in logica almeno istruttiva.
Il primo è il progetto Ludenz, che per dirla con le parole dei creatori (il cui front runner è Luigi Marrone), «è un progetto indipendente di cultura del videogioco che si muove attraverso contenuti convergenti fra una rivista cartacea e canali multimediali online. Un progetto di pratiche e di riflessioni creative focalizzato sulle relazioni e le intersezioni possibili tra l’essere umano-videogiocatore e gli universi digitali. Esso è un progetto senza periodicità [che crede] che la cultura della riflessione creativa, dell’analisi e della scrittura debba continuare a far sentire la propria voce in armonia con la trattazione video-orientata del ludus digitale». Il “collettivo” rifugge dal clickbait e dalle mere discettazioni prestazionali, per sposare una riflessione long-form, multidisciplinare e retrospettiva di un videogaming che si prenda sul serio, costituendosi a nicchia lievitante culturalmente.
Il secondo esempio, sicuramente questo più pop, è quel che si potrebbe meritoriamente dire essere l’intellettuale dei videogiochi Michele Poggi, in arte Sabaku no Maiku, che fa delle sue produzioni “senza tempo”, quelle che potrebbero essere definite tra le più importanti analisi non accademiche (ma con un tributo alla ricostruzione certosina delle fonti non seconda a queste ultime), del mondo dei videogiochi nostrano. Per ore di interventi che, ai suoi spettatori, permettono di apprendere ben al di là della bontà o meno di un acquisto videoludico. Ciò derivante anche per il solo suo parlare, di un forbito sopra la becera media, che ne hanno fatto un personaggio dal fedele, cospicuo, pubblico. Chi “segue” Sabaku no Maiku nelle sue lunghe analisi, impara non soltanto di cultura videoludica (che è già una grande cosa), ma apprende ad ampio spettro. Per una cultura, quella di Michele Poggi, che non rifugge ma nemmeno si limita al “pezzo di carta”, perché non laureato ma formatosi immergendosi e alimentandosi della personale, della passionale e della professionale curiosità: quella di un uomo avido di conoscenza. Genuina e a 360°.
Di stampo prettamente universitario è invece Matteo Bittanti, studioso e conoscitore critico del medium videoludico nonché professore alla Libera Università di Lingue e Comunicazione (IULM). A lui appartengono più articoli accademici; libri in traduzione (tra cui il bellissimo Capitalismo & Candy crash di Alfie Bown) e in curatela italiana (Game over. Critica della ragione videoludica; Fenomenologia di Grand Theft Auto; Machinima. Dal videogioco alla videoarte; Giochi video. Performance, spettacolo, streaming e Intermedialità. Videogiochi, cinema, televisione, fumetti), indirettamente o direttamente, vertenti sul medium: per un lavoro di “raccolta” e di diffusione nazionale del meglio della letteratura accademica su piazza internazionale.
Gli exergame
Un altro luogo comune di imperitura memoria del videogame è quello per cui esso richiami esclusivamente la sedentarietà. Un fondo di verità vi sarebbe, ma appunto, non così automaticamente onnicomprensivo.
Tra i tanti generi videoludici, infatti, ci sono gli exergame ossia videogiochi che prevedono il movimento di tutto o di parte del corpo umano, trasformando di fatto il gamer, in quanto tale, in controller. Corpo umano-controller in movimento garante di un intrattenimento cinetico nel salotto di casa.
Gli exergame sono un fenomeno e quasi un tormentone ciclico dell’industria del gaming: da Dance Dance Revolution in epoca sale giochi alla console Nintendo Wii degli anni Zero del Duemila (e quindi alla trafila di Wii Sport e Wii Fit), per poi passare alla fantasmagorica periferica Kinect di Xbox e quindi nuovamente divampare con il successo di Nintendo con Ring Fit Adventure per Switch, anche trascinato dal periodo pandemico. Essi conoscono alti incredibili (Wii fu la console casalinga più venduta della storia di Nintendo; Kinect è la periferica videoludica più venduta di sempre – con tanto di primato al Guinness World Record), per poi sparire in tonfo: tornando da dove erano venuti così velocemente come erano schizzati. Per avere quindi un periodo di stasi e ciclicamente tornare con un altro, nuovo e differente, successo.
Sono videogiochi mediamente più costosi degli altri (perché sovente necessitano di apparecchiatura appositamente studiate), ma il cui risvolto può certamente andare, anche fisicamente, ben oltre il solo intrattenimento: permettendo una tenuta cognitivo-corporea assimilabile anche a quella sportiva e comunque una forma fisica persino invidiabile. Non a caso soggetta a più studi scientifici, ciò comprovanti, nell’ultimo trentennio.
Un fattore negativo degli exergame in generale, è quello di potersi presto tramutare da inediti, innovativi ed effervescenti a monotone ripetizioni di un loop digitale infinito davanti a uno schermo, oltretutto senza l’eterogeneità, l’imprevedibilità ambientale e sociale di un ambito sportivo. Una testimonianza empirica di questo trend, la si può portare osservando criticamente a ritroso quel che accadde con Wii per chi si fece irretire, a suo tempo, dal fenomeno Nintendo: durante la prima settimana ogni componente della famiglia monopolizzava il piccolo parallelepipedo per poi lasciarlo sotto cumuli di polvere neanche un mese dopo, mentre ancora oggi tutti si gioca con il “classico” pad stretto tra le mani.
Perché? In quanto l’impegno e lo sforzo complessivo che richiedeva Wii era certamente, mediamente, più alto dello stravaccarsi sul divano, ma anche per le intrinsecamente “limitate” scelte fornite dal motion controller rispetto le possibilità della vita all’aria aperta (e, di contraltare, dalle combinazioni mano-controller).
Gli exergame sono ancora massicciamente usati come integrazione dell’attività motoria per soggetti con disabilità (fisica e psichica), temporanea o permanente, all’interno di ospedali, in centri di recupero fisioterapico nonché nelle case di riposo.
Una cosa molto importante da evidenziare è che exergame non significano eSport: essendo due concetti diversi. È possibile per un exergame divenire anche un eSport ma un eSport può annoverare anche un qualsiasi altro genere di videogiochi. L’eSport è il videogiocare a livelli professionistici divenendo, teoricamente, a tutti gli effetti uno sportivo. L’exergame è semplicemente un genere videoludico che prevede l’uso della motricità del gamer come parte integrante del gameplay.
La curiosità degli eSport è l’attuale limbo cui si trovano. Sono una sorta di sport sui generis, perché essendo il proprio ambiente di competizione un software inventivo e originale (scritto da migliaia di ingegneri che lavorano sotto il cappello di case distributrici quotate in borsa), non potrebbe esistere senza l’intricata normativa sulle proprietà intellettuali. Caratteristica genomicamente commerciale che ha fatto virare di 180° il timone dell’industry nell’arco di pochi, di questi ultimissimi anni: perché se prima le software house e i publisher “spingevano” per un riconoscimento formale come sport anche con il Comitato olimpico internazionale, da qualche tempo, le stesse multinazionali si sono cooptate in lobby al fine precipuo di creare loro stesse qualcosa di distintivo e diverso dal “classico” sport tradizionale, ciò proprio per non sottostare alla “normativa” sportiva ritenuta più stringente e limitante rispetto il diritto commerciale.
I serious game
I serious game, letteralmente videogiochi seri, almeno sulla carta, sono la quintessenza dell’educazione e della formazione coi videogame.
Perché per lo più formalmente, però? In quanto il loro più grande e principale difetto è che spesso a crearli sono entità istituzionali o accademiche senza know-how di tipo prettamente (video)ludico e quindi improntando la loro attenzione nella sola “seriosità” senza intrattenimento. Producendo così videogiochi magari anche molto profondi ma non interessanti, ergo non videogiocati. Come ricorda l’italianissimo Gioventù ribelle, prototipo mai uscito perché abortito dopo una prima release pubblica suscitante l’ira e il dileggio degli appassionati e quindi della stampa (anche generalista): inizialmente teorizzato come tributo istituzionale ai centocinquant’anni dell’Unità d’Italia, lo scopo neanche troppo velato di galvanizzare al Risorgimento le nuove generazioni, si sgonfiò in un mare di ironie di quegli stessi giovani a cui era rivolto.
Una “best practice” è invece quella del Pentagono quando sviluppò e fece uscire gratuitamente in Rete il titolo America’s Army, non a caso PEGI 16+ (ovverosia consigliato a un pubblico di minorenni, ancorché il PEGI non valga negli Stati Uniti d’America ciò fa comprendere l’idea generale del progetto in virtù del target potenziale), con il preciso scopo di far balenare nell’ordine delle idee degli adolescenti americani, quello di arruolarsi all’esito del diploma superiore. Certo, quest’esperimento non essendo il risolutore dell’irroramento alla leva militare ex post 11 settembre 2001, ma è tutt’oggi un case study.
L’uovo di Colombo con i serious game sarebbe quello di trovare una partnership e giuste per quanto diversificate figure professionali, in grado di capire il linguaggio degli altri universi al fine di fare limare le differenze per estirpare le contrapposizioni di formae mentis agli antipodi (come potrebbe essere tra mondo della: ricerca pura, istruzione, accademia, comunità dei gamer e dell’industry), per creare, da un altrimenti coacervo inestricabile, la ricetta del perfetto serious game.
Cosa molto, molto difficile.
Dei tanti serious game oggi esistenti quasi nessuno è davvero videogiocato: non perché non si voglia apprendere coi videogame, ma perché sono spesso pure più noiosi di una lezione frontale.
Videogiochi: tra limite e potenzialità, secondo l’OMS
A partire dal 2019, a chiare lettere, l’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) ha pubblicamente reso annoverabile la dipendenza dei videogiochi come una fonte scaturigine di malattie. Questo perché i videogame sono uno “strumento” e come ogni “arnese” può essere abusato, sino a derivare una dipendenza.
Il che è vero e giusto, essendo sotteso a processo lungo e serio di un consesso scientifico che, consecutivo a lungo dibattito interno, muove la scienza un passettino più in là. Oggi si parla anche di prime forme di cura dalla dipendenza dai videogiochi.
In questo scenario, si cala la provocazione, citando l’acqua. L’H₂O è vitale per gli esseri viventi, tant’è vero che la si impiega nei riscontri di ricerca sugli altri pianeti. Ma, attenzione, perché per un eccesso di acqua in circolo nel corpo umano (e non ci si riferisce all’annegamento), si può morire. Bevendo “semplicemente” troppa acqua in un ristretto intervallo temporale, infatti, si può incorrere nel cosiddetto avvelenamento da acqua che diluisce eccessivamente il sangue fino a portare dapprima al coma e poi alla morte. È il troppo che stroppia. Inoltre, il contesto fa, sempre, testo. Infatti, sempre l’OMS nella primavera 2020 (quindi esattamente un anno dopo la prima “declaratoria”), con miliardi di individui chiusi in casa per il lockdown, elogiò i videogame come utile terapia per la quarantena.
Ma attenzione, perché questa seconda asserzione non è in contraddizione e non va a smentire quella precedente: assieme, le due, coesistono e sono parimenti vere. Bisogna “solo” interpretare correttamente quando si è dinanzi l’una situazione (meno spesso di quanto si pensi, ma comunque interessando milioni di persone nel mondo a fronte di 3 miliardi di gamer) o davanti all’altra (sia nella contingenza pandemica sia nell’ordinaria vita quotidiana).
Questa gioventù è guasta fino al midollo
Ma, forse, anche il lettore di questo lungo articolo, arrivato fino a qui, si chiederà se tutto questo sia davvero necessario. E positivo.
Forse, ancora, legittimamente, lo stesso lettore si domanderà se davvero i videogame non siano una “scusa” di adulti mai realmente cresciuti.
E chissà che, almeno una volta, il lettore non si sia chiesto se davvero non si vivesse meglio in quei “cari vecchi tempi passati”. Di quell’insegnamento rigidamente impostato, con addirittura le bacchette sbattute sulle dita. Chissà se, almeno una volta, durante questa lettura non fosse balenato al lettore che, effettivamente, forse, «questa gioventù è guasta fino al midollo», essendo «cattiva, irreligiosa e pigra. Non [potendo mai essere] come la gioventù di una volta».
Così fosse, bene. Cioè male o, meglio, peccato. Perché il virgolettato or ora menzionato non è altro che un rinvenimento su di un antico testo d’argilla babilonese, di oltre tremila (3.000) anni fa.
E parlando per frasi fatte, quindi: nulla di nuovo sotto il sole.
Peggio di un vecchio giovane c’è solo un giovane vecchio. E quando persino noi, attuali avanguardie, un giorno, si arriverà a proferire quelle parole, si avrà perso. Ma, come insegnano proprio i videogame, per chi vorrà, ci sarà sempre un’altra partita da giocare. Il grande gioco della vita. The Game.