Applicazioni tecnologiche, facilmente accessibili e fruibili su larga scala (ad esempio i filtri immagine della fotocamera di qualunque smartphone) consentono ormai non solo di correggere il mondo reale, ma di trasformare ciò che è vero in una immagine apparente, quindi falsa.
Si ritoccano dettagli, i contorni vengono ridefiniti, si sceglie l’intensità cromatica, si gioca con il contrasto luci/ombre, si eliminano difetti. I margini tra realtà e finzione si sgretolano, fondendosi, nell’illusione di un risultato che dell’originale porta forse solo la cifra dell’idea originaria.
Tale fenomeno interessa in modo particolare la realtà non tangibile, ovvero tutto ciò che nasce e si diffonde digitalmente. E’ la nuova dimensione del falso che si crea e si diffonde virtualmente.
Le nuove tecniche di alterazione della realtà complicano il processo di verificazione della riconducibilità del prodotto al suo autore. All’avanguardia tecnologica della falsificazione, dunque, si affianca, speculare, l’applicazione e la ricerca di strumenti per riconoscere i nuovi falsi e, d’altra parte, per tutelare la paternità della creazione.
Come cambia il concetto di vero e autentico: il fenomeno deep fake
Esempio rappresentativo del falso digitale è il dilagante fenomeno del cosiddetto deep fake, ovvero una particolare tecnica basata sull’applicazione dell’intelligenza artificiale, attraverso la quale si crea per lo più un filmato, che ritrae, riproducendola, una situazione inesistente nella realtà: il caso più comune è quello della sostituzione del volto di un soggetto con quello di un altro soggetto, imputando così a quest’ultimo atti ed azioni commessi da altri nella realtà.
E’ l’inquietante fenomeno della creazione virtuale di situazioni, anche animate, con protagonisti creati ad hoc attraverso la rielaborazione e combinazione di dati di soggetti reali.
Eppure il lato oscuro della verità esiste da molto tempo: è nota la storica querelle sullo scatto del Miliziano di Robert Capa (pseudonimo di Endre Erno Friedmann) in merito alla quale è ancora aperto il dibattito circa la presunta ipotesi di immagine costruita ad arte, con soggetto messo in posa per la foto[1].
Foto del miliziano ucciso nella guerra di Spagna
Il watermarking e il valore della firma nelle creazioni digitali
Come la paternità di un documento cartaceo è suggellata dall’apposizione della firma, così la paternità di qualunque tipologia di produzione artistica è garantita dall’impronta del suo autore.
Tracce della pratica della firma si rinvengono da sempre, nella storia dell’umanità, con particolare espansione nel primo Rinascimento con la spinta propulsiva alla creatività individuale.
Il grande artista A. Durer[2] rappresenta uno dei più antichi casi di tutela della propria identità artistica attraverso la firma. Conosciuto per l’abitudine apporre il suo marchio “AD” su qualunque tipo di produzione, dai capolavori stampati agli schizzi frettolosi, Dürer è stato un esempio delle battaglie giudiziarie, sia a Norimberga che a Venezia, per avere riconosciuta la paternità delle sue opere; battaglie vinte proprio grazie alla apposizione della sua firma[3].
Esempi del “logo” ideato da Albrecht Dürer da A.Santi
Nell’era digitale, la tutela della produzioni digitali audio visive, sia per garantirne l’originalità che per evitarne la duplicazione e diffusione non autorizzata, è affidata alla tecnica del watermarking digitale ovvero alla apposizione di una sorta di filigrana digitale, che consiste nell’inserimento, all’interno del file multimediale, di informazioni che possono essere successivamente estratte per acquisire indicazioni.
Le indicazioni inserite con il watermarking contrassegnano in modo permanente il documento, pur lasciandolo accessibile, e possono essere sia visibili per l’utente (ad esempio se applicate in sovrimpressione) oppure nascoste all’interno del file, come una steganografia.
L’applicazione del watermarking digitale risponde a diverse finalità, tra le quali, sicuramente quella di rendere visibile il legittimo proprietario dell’opera, dimostrare l’originalità e quindi la non contraffazione del documento/opera, evitare la distribuzione di copie non autorizzate, marcare caratteristiche specifiche del documento, tracciare il percorso di vendita.
Il nesso tra watermarking digitale e firma autografa
Con l’occhio del grafologo attento a decodificare i segni grafici anche in considerazione dell’evoluzione della firma cartacea a quella grafometrica, ci chiediamo se sia possibile rintracciare una costante, un fil rouge tra il watermarking e l’aspetto simbolico della firma su carta o opera artistica.
Innanzitutto l’apposizione del watermarking può essere sia visibile (come una sorta di vero e proprio timbro), sia invisibile e per l’aspetto esteriore del watermarking può essere adottato anche un logo (analogamente a ciò che avviene su qualunque tipo di supporto cartaceo o artistico) o finanche la rappresentazione grafica della firma autografa, contenente informazioni cifrate, garantite dal funzionamento delle chiavi asimmetriche di cifratura, ove la chiave pubblica viene utilizzata per la sola verifica dell’integrità del documento e la chiave privata segreta è utilizzata per l’inserimento del codice di watermarking.
Nel caso del watermarking visibile anche la scelta della posizione sull’opera può rispondere al gusto tipico dell’autore ed assumere valenza simbolica propria; ad esempio, potrebbe essere apposto in posizione centrale e ben visibile, oppure in posizione strategica e con visibilità meno marcata.
Ma vi è di più. Il digital watermarking affonda le proprie radici negli studi steganografici.
La steganografia permette di incapsulare un messaggio segreto, quale potrebbe essere un copyright o un numero seriale, in un cosiddetto messaggio di copertura. L’inserimento di tali informazioni viene parametrizzato da una chiave, senza la conoscenza della quale è difficile rimuovere o riconoscere il materiale incapsulato. Effettuato l’inserimento, il messaggio ottenuto viene inviato a destinazione.
Con la tecnica steganografia il documento è soltanto una maschera, quindi senza valore, mentre quello che vale è il messaggio nascosto al suo interno.
Con il digital watermark, invece, il processo è inverso poiché il messaggio nascosto non ha valore in sé, poiché funge solo da protezione, mentre il documento è il vero portatore di valore.
Con la cifratura del watermarking è possibile inserire anche informazioni ulteriori relative al documento/opera o prodotto da tutelare e anche tale pratica ricalca una prassi già caratteristica di alcuni artisti; si tratta delle c.d. iscrizioni, utilizzate per tenere traccia di tempo, luogo e mezzo della produzione.
Ben Nicholson, pittore britannico, ad esempio, usava segnare una grande quantità di informazioni sul retro delle sue tavole; non solo firmava, titolava e datava le sue opere, ma apponeva elenchi di colori usati e gli indirizzi ove avrebbe inviato il lavoro.
Lucio Fontana nei suoi originali “tagli” (concetto spaziale), sul retro spesso segnava di pugno osservazioni e frasi che avevano senso solo per lui.
Il valore identificativo dell’impronta
Con l’intelligenza artificiale mutano le tecniche di protezione del prodotto artistico e/o intellettuale di matrice digitale, ma rimane inalterata l’esigenza dell’uomo di imprimere la propria impronta in ciò che costituisce esternazione e manifestazione di se stesso.
Attraverso l’uso della firma non si stabilisce una semplice relazione di riferibilità e/o appartenenza tra prodotto e autore, ma si instaura una relazione di identificazione.
L’opera non è solo un prodotto, ma diviene propagazione ed esternazione di sé, poiché non semplicemente ci appartiene, ma è essa stessa noi.
Analogamente con la scelta del watermarking digitale permane e si riflette l’impronta dell’autore poiché, nello stile formale della filigrana visibile, nell’aspetto dimensionale e spaziale può essere considerato anch’esso un’autobiografia grafica.
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- Articolo on line de “Il Sole 24ore” del 28.03.2015; articolo on line de “Il Tempo” del 21.07.2009; articolo on line de “ Il Corriere Della Sera BLOG” – La nostra storia, “ la foto del miliziano di Robert Capa non è un falso”, di Dino Messina, 24 ottobre 2013. ↑
- Norimberga, 21 maggio 1471 – Norimberga, 6 aprile 1528) ↑
- Cfr M.O. Avvisati, “L’importanza del firmare un’opera”. ↑