Con la trasformazione delle aziende verso modelli maggiormente rispettosi dell’ambiente e degli aspetti sociali, è andato nel corso del tempo cambiando anche il profilo degli investitori.
Al profilo del venture capitalist aggressivo, a caccia di Unicorni in procinto di diventare Imperi, oggi si aggiunge quello dell’Impact Investor. L’investitore che scommette su progetti in linea con l’agenda di Sviluppo Sostenibile ONU e/o ad alto impatto ambientale e sociale.
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Dalla filantropia all’impact investing
Il mondo dell’impact investing ha una data di nascita simbolica nel 1990 con l’uscita del libro: “Impact Investing:Transforming How We Make Money While Making A Difference” dell’economista Jed Emerson. Ma è solo verso il 2005 che si comincia concretamente a parlare di impact investing come qualcosa di differente rispetto alla filantropia e al mondo delle donazioni/finanziamenti a fondo perduto. Queste soluzioni non hanno obiettivi di ritorno di investimento e non vengono erogate a progetti che mirano al profitto. L’impact investing al contrario ha due caratteristiche fondamentali: gli investitori sono alla ricerca di un profitto e di aziende profittevoli, ma investono soltanto in realtà che oltre ai risultati finanziari sono in grado di incidere positivamente sulla società, sull’ambiente e sulle persone.
Dal 2007 ad oggi il settore è esploso e si è trasformato in una disciplina con uno specifico profilo di rischio e di approccio al portafoglio. Il mondo delle Fondazioni rappresenta una delle principali fonti da cui gli Impact Investor attingono il proprio budget. Nel 2018 sono stati investiti più di 500 miliardi da investitori di impatto, che sulla base dei dati forniti da Global Impact Investing Network sono più di 1300 nel mondo. E stiamo parlando solo di Fondi di impact investing, ovvero Venture Capital che investono eticamente.
I sistemi per la misurazione dell’impatto sociale
Il passaggio dalla filantropia all’impact investing non è solo consistito con la ricerca di aziende profittevoli ma con impatto positivo, ma anche dalla creazione di sistemi per la misurazione dell’impatto sociale. Nel corso degli anni sono stati teorizzati vari metodi per misurare l’impatto. Il più diffuso è quello del SROI (social return on investment). Che sostanzialmente ricostruisce l’impatto positivo in termini di diminuzione di spesa sociale.
Facendo un esempio. Se un’azienda inventasse un tipo di sigaretta completamente non tossica. il SROI verrebbe misurato in termini di costi sociali della salute risparmiati (minore occupazione di posti letto, riduzioni costi ospedalieri per farmaci oncologici e via dicendo).
La trasformazione del capitalismo
È in corso una trasformazione del capitalismo. Dal modello “shareholders” – dove tutto è finalizzato al godimento degli azionisti – stiamo passando ad un modello “stakeholders” – dove tutte le persone che hanno a che fare con l’azienda vengono tenute in maggiore considerazione nelle scelte aziendali. I dipendenti, i clienti, i fornitori si aggiungono agli azionisti nell’elenco delle comunità di cui l’azienda deve avere cura. E poi a cascata bisogna considerare l’impatto ambientale e sociale dell’azienda.
Le Nazioni Unite negli anni scorso hanno sviluppato un programma articolato in 17 obiettivi di sviluppo sostenibile, rivolto in prima battuta proprio alle aziende. Il tema dell’impatto sociale e ambientale oggi è al centro dell’agenda programmatica di moltissime aziende, che si sono dotate di responsabili e team di responsabilità sociale (corporate social responsability).
Il calcolo del SROI non è ancora una scienza esatta, come il calcolo del più ordinario ROI. Eppure, secondo diversi autori diventerà uno standard a livello economico. Secondo il sociologo americano Bret Weinsten per creare un’economia ad alto impatto tutte le aziende dovrebbero venire misurate per l’impatto e ripagare la collettività per le “esternalità negative”.
Oggi questo viene fatto in maniera molto superficiale, con i carbon credit. Le aziende che emettono C02 possono comprare carbon credits, ovvero finanziare aziende e organizzazioni che stanno invece contribuendo a riforestazione e progetti che rigenerano il pianeta. Ma come esiste la traccia del carbonio, esistono una miriade di altre tracce (water footprint, social footprint, etc).
E oggi ancora più attuale è il tema del rischio di riduzione dei posti di lavoro per l’automazione. Oggi le grandi aziende con grandi potenze finanziarie possono permettersi di comprare crediti sociali di ogni genere e continuare allo stesso ad inquinare il pianeta e distruggere posti di lavoro. Questo non può durare a lungo. E soprattutto il marketplace dei credits non può essere delocalizzato. Il danno è locale e la rigenerazione delle risorse dovrebbe esserlo altrettanto.
L’ecosistema della sostenibilità in Italia
Il grande merito dell’impact investing è stato quello di aver fatto venire fuori queste tematiche e metodologie scientifiche per misurarle. Intorno all’impact investing è nato inoltre un ecosistema: acceleratori e incubatori impact, crowdfunding impact.
In Italia, l’ecosistema della sostenibilità è in crescita. Ci sono diversi fondi, come Oltre Impact, Opes Venture, Aimpact e svariati acceleratori che sostengono le startup ad impatto ai loro inizi come Impact Hub a Milano e The Social Fare a Torino.
Da questi fondi e acceleratori sono venute fuori alcune startup interessanti, tra cui Erbert, un nuovo tipo di supermercato focalizzato sulla salute, Sfera Agricola, un progetto di agricoltura idroponica. Per non parlare di realtà ormai consolidate come il Centro Santagostino.
Il mondo dell’Impact Investing è alla ricerca di ritorni di investimento più misurati degli investitori tradizionali. Ma si tratta comunque di fondi chiusi che al termine del periodo di vita del fondo devono restituire il denaro ai finanziatori con relativo interesse. Ci sono molte luci in questo modello, ma anche qualche ombra.
Conclusioni
La quantificazione dell’impatto nella logica del SROI tende a valorizzare progetti che hanno impatto sui costi sociali. Ma questo apre scenari non chiari sul confine tra diritti e costi. Gli spazi del pubblico e delle risorse di tutti non dovrebbero essere costi, ma beni comuni.
La stessa quantificazione implica l’idea che ogni bene comune sia in qualche modo soggetto ad un prezzo e non invece al tema dei diritti. Su questo tema il mondo dell’Impact Investing deve ancora trovare una strada chiara per mettere uno stop alla privatizzazione selvaggia di ogni spazio e risorsa pubblicata predicata dal mondo neoliberista e dai venture capital tradizionali