La Legge di Bilancio ha preso piano piano forma e per l’Impresa 4.0 non sembrano cambiare di molto le misure in essa contenute. Il superammortamento e l’iperammortamento sono stati trasformati in credito d’imposta, mentre rimane la fumosa figura dell’innovation manager di cui le imprese potranno usufruire tramite voucher. Nelle strategie del governo c’è ancora qualche strascico di innovazione, ma la grande assente nel quadro Italia rimane la formazione del capitale umano.
Il vulnus della formazione
A testimonianza di ciò vi sono due elementi. Il primo, sempre contenuto nella Legge di Bilancio, è il credito d’imposta per la formazione che rimane nel perimetro dell’Impresa 4.0. Il bonus viene prorogato di un anno e la cifra stanziata per coprirlo è di circa 150 milioni. Al di là del dibattito sull’entità della misura, il problema è che rimane una finanziamento a pioggia. Tale strategia può funzionare per gli investimenti fissi come i macchinari, in particolar modo se il mercato è stagnante e necessita di uno stimolo per sbloccarsi. Nel caso della creazione di competenze e della formazione, dare la possibilità alle imprese di pescare da un fondo o di beneficiare di un credito d’imposta potrebbe non essere altrettanto efficace.
Il secondo elemento è il Fondo nazionale per l’innovazione. Il governo, soprattutto il Movimento 5 Stelle e Davide Casaleggio, ha fortemente spinto verso la creazione di un ente pubblico investitore con l’obiettivo di far crescere un ecosistema di startup all’altezza degli altri Paesi europei. Il modello cui Di Maio e Casaleggio hanno sempre guardato è quello francese dove, fin dall’inizio della legislatura, Macron ha potenziato gli investimenti pubblici nelle startup. Anche in questo caso la dotazione è significativa, 1 miliardo di euro, con le quali finanziare la nascita di nuove promettenti realtà innovative.
Gli interventi e le misure politiche del governo rischiano, così, di non avere alcun impatto sulle competenze digitali e 4.0. Anche il Piano Calenda del 2016, che prevedeva super e iperammortamento, ebbe un impatto significativo sugli investimenti fissi, ma si dimostrò del tutto inefficace sul piano del capitale umano. I dati dimostrano che la percentuale di competenze ICT e digitali nelle imprese non mutarono affatto. Al contrario, è aumentato il numero di aziende che dichiara di cercare personale qualificato per posizioni ad alto tasso di digital skill, ma incontra difficoltà nel reperire queste figure sul mercato occupazionale.
D’altronde, anche il recente Referto sull’informatica pubblica pubblicato dalla Corte dei Conti ha individuato perfettamente il vulnus del sistema italiano. Nell’edizione 2019 viene ribadito quanto constatato per gli anni precedenti ossia “si lamenta il fatto che “l’Italia manca ancora di una strategia globale dedicata alle competenze digitali, lacuna che penalizza quei settori della popolazione, come gli anziani e le persone inattive, che non vengono fatti oggetto di altre iniziative in materia”.
L’Italia e gli investimenti in competenze digitali
L’indice DESI, pubblicato con cadenza annuale dalla Commissione Europea, evidenzia anno dopo anno la scarsa propensione del nostro paese a investire nelle competenze digitali. Inoltre, testimonia come tra l’evoluzione dei processi produttivi e l’educazione degli individui (a tutti i livelli) rimanga un importante gap ben lungi dall’essere colmato ai ritmi attuali. Nel 2018, alla voce Capitale Umano, l’Italia è retrocessa addirittura di un posto. Dal report emerge soprattutto la mancanza di informazioni circa il possesso delle competenze digitali. Il dato è fermo al 2016. Il numero di specialisti in ambito di tecnologie dell’informazione e della comunicazione è rimasto inalterato. Segno che tutti i piani e le strategie varate fino ad oggi sono stati inefficaci e che il sistema italiano non è in grado di produrre a sufficienza le skill richieste dal nuovo tessuto produttivo o comunque non riesce a trattenerle al suo interno.
Più specificamente si prendano i numeri riferiti alle imprese che dovrebbero essere i primi beneficiari delle misure nelle varie Leggi di Bilancio. Nel 2017 e 2018 solamente l’11% delle piccole imprese (0-49 addetti) aveva avviato percorsi di formazione ICT al proprio interno, mentre di quelle medie il numero varia a seconda dell’anno tra il 27-25%. Le grandi aziende invece segnalano performance migliori: 52%. Sotto questo profilo l’Italia rimane ultima in Europa se comparata alle economie di maggiori dimensioni quali Germania, Francia, Spagna e Regno Unito.
Se, dunque, tra gli obiettivi del legislatore vi è stato quello di fornire stimoli alla creazione delle competenze digitali, possiamo dire che si tratta di un tentativo fallimentare. Sempre le statistiche raccolte dall’Istat evidenziano come dopo il Piano Industria 4.0 e Impresa 4.0 nelle imprese non sia aumentato il numero di addetti ICT. Al contrario, nel caso di quelle medie e grandi il trend è stato negativo.
Gli errori della strategia Industria 4.0
Quali gli errori della strategia Industria 4.0? Tra i maggiori si può annoverare sicuramente quello di aver incanalato le risorse verso la sola acquisizione di beni strumentali e gli investimenti fissi (specialmente macchinari automatizzati). In un primo momento si è rivelata una misura necessaria per contribuire all’ammodernamento dei processi produttivi. Nel medio periodo, però, sono emersi i limiti dell’unidirezionalità dell’azione governativa. È necessario anche annoverare la carenza di continuità e stabilità politica tra le cause principali del mancato sviluppo della strategia nazionale 4.0. Il susseguirsi di governi e ministri in pochi anni, con obiettivi ed esigenze diversi (si legga la fusione ad un solo ministero dello Sviluppo Economico e del Lavoro), ha penalizzato l’impostazione data inizialmente dal Governo Renzi che prevedeva una prima fase dedicata agli investimenti fissi ed una seconda alla creazione dei Competence Center. Questi ultimi sono stati sacrificati e ad oggi ne sono stati inaugurati pochi, con scarsi fondi e funzionamento incerto.
Una strategia nazionale deve avere ampio respiro. In particolar modo quando si tratta di lavorare sulle competenze e sulla formazione di centinaia di migliaia di studenti e lavoratori. Continuare a puntare solamente sulla domanda di beni, senza guardare all’offerta di lavoro creerà ancora più squilibrio nell’ecosistema produttivo. Con conseguenze negative sul piano dell’innovazione stessa oltreché per la produttività che necessità sì di capitali, ma anche di forza lavoro qualificata. Il ruolo della politica è mettere gli attori economici nelle condizioni migliori per operare e creare innovazione. In questo modo si sta ottenendo il risultato contrario e nel lungo periodo ne vedremo le conseguenze.