Umurangi generation è un gioco per PC sviluppato nel 2020 nel quale viene simulata l’attività fotografica. Qui gli obiettivi sono rappresentati da cosa si deve immortalare e soprattutto come, regolando messa a fuoco, inquadratura, colori, anche in una sorta di “post produzione”. L’in-game photography è insomma sempre più rilevante nel panorama della video game culture, sia come scopo del game play, sia come piacere collaterale.
Illustrazione 1: Umuragi Generation
Il ruolo della fotografia nel game play
Già in passato sono comparsi titoli di videogiochi in cui lo scatto fotografico aveva un qualche ruolo nel game play, ma a differenza di Umurangi si trattava comunque sempre di aspetti collaterali.
Mi riferisco a Dead Rising, videogame sviluppati da Capcom a partire dal 2006. Come si può già intuire dal titolo, si tratta di una serie di videogame del genere “survival horror” a tema zombie. La particolarità è che il protagonista, Frank West, è un fotografo, pertanto oltre a sopravvivere evitando di essere “zombizzati”, sarà necessario fare scatti emozionanti per documentare gli eventi. Dal quarto capitolo è inoltre possibile includere se stessi nelle immagini. Le fotografie valgono punteggi in play. Gli scatti vengono, poi, raggruppati per generi a seconda che siano state colte scene gore, simpatiche, sexy, violente o sentimentali. Tuttavia l’obiettivo numero uno nel gioco resta quello di fuggire dagli zombie, usando ogni arma disponibile, comprese quelle più sciocche che, in questo caso, valgono solo ai fini di uno scatto divertente. Insomma, Dead Rising precorre le challenge sui social: pur di avere cuoricini, pur di tentare la viralità online si accetta il rischio di compiere atti al limite.
Illustrazione 2: Dead Rising 4, Screenshot Steam
L’immagine come arma
In Umurangi generation l’unica arma in nostro possesso è la fotocamera. È un’esagerazione paragonarla a una pistola? Pensiamo a quanti sono morti per il selfie perfetto preso sul ciglio di un tetto, o a quanti reporter sono stati uccisi per aver documentato la verità o a quante donne sono state rovinate perché un ex fidanzato ha reso pubblica un’immagine erotica privata. L’immagine, allora, è a tutti gli effetti un’arma in nostro possesso.
Nel videogame di Origame Digital ci muoviamo in una realtà futura, un’ambientazione fluorescente e fumettistica. La trama è quella di una science fiction e noi siamo un corriere di etnia maori, alle prese con diversi obiettivi fotografici. In questo caso l’ambiguità del termine è d’uopo: abbiamo in dotazione varie lenti, obiettivi, appunto, con cui dobbiamo scattare immagini di graffiti o di altri soggetti. Questi sono i goal che dobbiamo portare a termine.
Le Nazioni Unite, in questo contesto futuristico, avrebbero chiuso ogni città attraverso truppe stanziate ai margini, così da difendere gli abitanti da strani alieni dall’aspetto di meduse. L’unico spazio per noi accessibile è la città di Tauranga, collocata sulle coste della Nuova Zelanda. Ci muoviamo tra contesti apocalittici e decadenti, potendo cogliere nei manifesti e nelle street art il sentimento dei locali, stufi di essere bloccati nella città, anche per via di una epidemia in atto.
Il videogame termina con l’estinzione del genere umano. La generazione Umurangi del titolo è appunto l’ultima testimone della fine. A che pro scattare fotografie se non esisterà più chi potrà osservarle? Nei momenti di crisi si producono forse più fonti? Perché cerchiamo di alleviare il dolore attraverso la stessa qualità di sofferenza?
Il gioco diventa catarsi
Il successo dei giochi dipende spesso anche dall’ambiente esterno del gamer, dalle condizioni che ci troviamo a vivere e da come la trama riesca a farci riflettere e al tempo stesso allontanare dai nostri limiti reali, riprendendo quello che davvero avviene fuori dal gioco. In sostanza questa tendenza a cercare titoli che parlino di ciò che accade anche offline si può vedere come un meccanismo osmotico: con l’acqua si porta via l’acqua. Da questi ponti che i giochi instaurano con la nostra realtà si rende possibile quella catarsi di cui parlava Aristotele, una liberazione che gli analisti hanno poi ripreso in termini di cura personale e interpretazione dell’inconscio. Vedere rappresentata una tragedia esistenziale fa sì che anche lo spettatore possa riconoscersi nelle vicende simulate, liberandosi dell’energia sopita, dato che per l’inconscio non esiste differenza tra ciò che è reale e ciò che è immaginato. Non solo, attraverso l’arte si comprende che ogni individuo vive le stesse ombre. Questa consapevolezza fa in modo che sia possibile diluire la propria dose di sofferenza. Ecco dunque perché spesso cerchiamo nelle canzoni, nei videogame, nei film uno specchio di noi stessi. Ricerchiamo il “mal comune”. Come ha osservato anche Schopenhauer, l’arte tragica ha una funzione importante per sconfiggere, temporaneamente, il dolore. Quando riconosco nella trama la mia stessa tragedia mi rendo conto di quanto la vita sia sofferenza per tutti. Dividiamo, come se fosse un debito pubblico ripartito, il peso dello Spleen, facendolo diventare più gestibile e sopportabile, come una rateizzazione.
Illustrazione 3: Umuragi Generation, last scene
Umuragi Generation non è un semplice scattare screenshot al game play. Il livello di bravura richiesto va dal niewbie al pro. Bisogna avere esperienza con lenti, photo editing, teleobiettivi, flash. La fotografia è centrale, la storia e l’azione passano in secondo piano. Inoltre, dover collezionare piccoli oggetti per scattare immagini secondo determinati canoni non è sempre un divertimento. Tuttavia il fatto che il videogame inviti a concentrarsi espressamente sulla grafica, prestando attenzione all’equilibrio della composizione, ai personaggi, alla forma è incentivare la presenza del gamer nel videogame e, di conseguenza, il flow, l’esperienza di gioco perfetta.
La “in game photography” diventa genere artistico a sé
Grazie a grafiche sempre più belle, giochi di luce stupefacenti e, soprattutto, grazie a hardware in grado di supportare tanta potenza di immagine non stupisce che ormai la “in game photography” sia genere artistico a sé. Quando non è un tool offerto dal gioco stesso, come in Umuragi Gereration e in Dead Rising, interviene lo stamp della tastiera e il foto ritocco successivo. Scattare screenshot ai videogame è una passione sempre più frequente, e una vera e propria arte: digitale su digitale. Su Stream non è un caso che sia presente la sezione “screenshots” per la community di giocatori. Se vi dicessi, però, che esiste anche il mestiere di fotografo di videogame? Petri Levälahti ottiene scatti emozionanti dai videogiochi a scopo commerciale. Lavora per l’EA DICE, una società svedese che sviluppa grafiche per videogame.
Il fotografo di videogame è visto un po’ come un turista digitale. Il suo fine è esplorare e documentare la grafica del gioco. Che il videogioco sia uno stimolo turistico è fatto già acclarato. Il fenomeno si chiama Game tourism. Ne ha parlato Fabio Viola, tra i maggiori esperti al mondo di gamification.
La bellezza dei luoghi ricreati dal gioco diventa un incentivo per trovare quanto esperito virtualmente anche offline. È così che lo screenshot nel gioco vuole spesso trovare un suo corrispettivo nel “vero”, nel “reale”. Dopo aver esplorato la simulazione si vuole dare prova dell’archetipo. Un po’ come il meccanismo descritto da Platone nei suoi dialoghi: si parte sempre dall’amore dei corpi per giungere, sempre grazie a Eros, all’amore per il bello in sé. L’amore sublimato. Così il videogame traghetta il gamer dalla virtualità alla concretezza dell’ambiente esterno. Il videogiocatore vuole trovare in quel mondo che è servito a modello per il videogame quanto ha già amato nella copia.
Mi riservo di virgolettare i termini vero e reale, dato che non credo ci sia una dicotomia tra i due poli: o è tutto virtuale o è tutto reale. Se gli exergame applicati alla riabilitazione clinica hanno effetto sull’esistenza del soggetto allora non sono meno reali di un farmaco. Vero è utile, pragmaticamente parlando. Così se un videogioco può indurre conseguenze offline (compresa la volontà di viaggiare) e benefiche, esso è vero quanto il bicchiere d’acqua che mi accingo a bere.
Conclusioni
Concludendo, se dicessi che la fotografia nei videogiochi è l’unica descrizione in grado di restituirci la verità?
Nell’esistere analogico ogni qual volta si cercasse di bloccare il divenire con una descrizione linguistica o iconica dell’esperienza non avremmo che menzogne. Il dipinto, la fotografia e l’asserzione non ci possono restituire la verità, ma una parvenza, giacché vivere è flusso ininterrotto e le copie non possono che essere stasi. La vita è flusso, movimento, prospettive che vengono unite in un’unità sostanziale forse inesistente. Il magma non può essere colto da nessuna descrizione; pertanto ogni fotografia non sarà mai realtà, non riprodurrà mai il divenire. La realtà della foto è l’osservatore che osserva lo scatto e non lo scatto in sé. Offline ogni scatto allontana dall’oggetto. Non è mai vera realtà quella che è riprodotta su pellicola.
Nel videogame, invece, la falsità è quella che emerge sullo schermo; la menzogna è il flusso e la verità è la stasi sottostante. Film e videogame sono possibili solo perché l’essere umano non può non vedere un movimento dalla rapida successione di immagini. La realtà filmica è statica, il movimento è solo una costruzione soggettiva, un’interpolazione dell’essere umano. Osserviamo solo foto statiche, frame che si susseguono in una certa quantità per ogni secondo. L’essere umano crede di vedere l’animazione, ma in realtà sono solo tanti screenshot in rapida successione. Ecco dunque che il fotografo di videogiochi è l’unico che riesca a restituirci la verità. Di più: lo screenshot in-game è la realtà: i suoi 01 sono gli stessi dell’oggetto che in quell’istante immortala. Il fotografo di videogiochi non fa altro che riconsegnarci uno dei frame su cui l’uomo, per com’è fatto, costruisce un flusso inesistente.