Il lavoro 4.0 impone una preparazione sempre più ampia nelle cosiddette materie STEM (science, technology, engineering and mathematics), fattore critico per le donne che sono, al momento, sottorappresentate in queste discipline. Al tempo stesso prevede criteri di flessibilità, ad esempio di orari e spazi, che invece vanno incontro alle necessità delle lavoratrici, e un’attitudine al lavoro di squadra che spesso caratterizza le competenze femminili.
Gli esperti sono tendenzialmente positivi sull’opportunità che Industria 4.0 può rappresentare per il superamento di un ostacolo proprio del mercato del lavoro italiano, l’alta disparità di genere (il livello di occupazione femminile in Italia è il più basso d’Europa, escludendo Malta, ricorda Paola Profeta, economista dell’università Bocconi e coordinatrice di Dondena Gender Initiative, che promuove la ricerca su economia di genere e leadership femminile). Nel Global Gender Gap Report del World Economic Forum, l’Italia è 82esima, nella seconda metà della classifica mondiale che conta 144 paesi, con dati molto bassi soprattutto nelle voci che riguardano la partecipazione alla vita economica (partecipazione al lavoro, disparità di salari, posizioni di leadership, professioni).
Partiamo da dati poco confortanti, insomma, proprio mentre andiamo incontro a profonde trasformazioni del mondo del lavoro, con previsioni a dir poco incerte sul futuro dei livelli occupazionali generali. In questo contesto, il rischio di acuire ulteriormente anche la frattura di genere esiste. Ed è da evitare per motivi che non hanno solo a che fare con principi di giustizia sociale, ma anche per la ricaduta economica. «Le donne sono più numerose degli uomini e hanno tassi di istruzione più alti», prosegue Profeta, quindi la bassa partecipazione al mondo del lavoro equivale a una perdita di lavoro qualificato. «Siamo un caso limite di esportazione di talenti, ai concorrenti noi regaliamo persone altamente qualificate, che sono costate alle famiglie e al contribuente molti quattrini in formazione» sottolinea Mario Parenti, presidente di Gammadonna, associazione che promuove l’imprenditoria femminile e giovanile. Insiste su questo punto anche Adriana Angelotti, ricercatrice del Politecnico di Milano ed ex presidente del Comitato unico di garanzia per le pari opportunità e benessere lavorativo, che ha messo in campo diverse iniziative per coinvolgere maggiormente le ragazze nello studio delle materie Stem. «Perdiamo metà dei cervelli a disposizione. Ragionando su base statistica, non è una scelta razionale».
Le donne non solo si laureano più frequentemente degli uomini, ma il gap si ripropone salendo ulteriormente nel livello di istruzione. «Ci sono più dottorate che dottorati». Poi, c’è un momento in cui le percentuali si invertono, con una forbice delle carriere che torna a vantaggio degli uomini. Succede dopo la fine degli studi, quando ci si sposta definitivamente nel mondo del lavoro. Anche all’interno delle stesse università, dove malgrado i numeri prima presentati, il numero dei docenti maschi è largamente superiore a quello delle donne.
Su un punto sono tutti d’accordo, in primis c’è un grosso ostacolo culturale. Le donne dedicano molto più tempo al lavoro di cura, anche quando lavorano. «E’ una differenza che non esiste in altri paesi europei», prosegue Profeta, così come c’è ancora una «divisione dei ruoli all’interno della famiglia, molto sbilanciata». Angelotti sottolinea come questa propensione femminile al lavoro di cura si riscontri anche nelle scelte delle ragazze che si iscrivono alle materie STEM. In realtà il gap fra uomini e donne esiste in particolare nelle materie tecniche, ovvero ingegneria e informatica, non nella facoltà più scientifiche, matematica e fisica, che hanno come sbocco l’insegnamento e vengono quindi scelte dalle ragazze. Anche a ingegneria, in realtà, la preponderanza maschile è molto meno evidente in alcune specializzazioni (biomedica, ambientale, edile), che evidentemente vanno più incontro alla cultura femminile. Stesso discorso per medicina, che comunque è una scienza dedicata agli altri. Tornando a ingegneria, i dipartimenti più tradizionali (meccanica, elettronica, aerospaziale), sono invece quelli a più alta presenza maschile.
Sia Profeta sia Angelotti sottolineano come in realtà la situazione stia cambiando, anche grazie alla sensibilizzazione che avviene all’interno delle stesse università. Al Politecnico di Milano, «abbiamo portato avanti anche progetti per presentare modelli al femminile, ovvero figure di donne di successo nelle professioni ingegneristiche o di design. L’obiettivo è quello di fornire esempi in cui riconoscersi», perché esiste anche un problema di modelli al maschile. Qui, c’è una sfida anche per la stampa. L’Osservatorio di Pavia e l’associazione di giornaliste GI.U.Li.A, per stimolare il mondo dell’informazione a riconoscere l’apporto delle donne anche nelle materia STEM, ha lanciato l’iniziativa 100esperte, una banca dati online che raccoglie esperte proprio nei settori STEM, da intervistare o interpellare per arricchire il dibattito politico. Claudia Torlasco, presidente di Aidda (associazione imprenditrici e donne dirigenti d’azienda), ricorda un’iniziativa per stimolare le giovani studentesse a fare studi di ingegneria, attraverso azioni informative nelle scuole ed esempi sul campo (nel caso specifico, nelle officine di riparazione delle FS a Vicenza), che negli anni scorsi ha avuto molto successo. Secondo Angelotti, per affrontare adeguatamente il nodo culturale bisognerebbe però iniziare prima, già quando la studentessa deve scegliere le scuole superiori. E, insiste Mario Parenti, anche le famiglie devono giocare un ruolo importante. Il presidente di Gammadonna inserisce anche un altro elemento, parlando di STEAM, cioè aggiungendo alle materie scientifiche e tecnologiche le arti, ovvero l’apertura mentale delle materie umanistiche.
Industria 4.0, secondo il parere di tutti gli esperti interpellati, può rappresentare un’ottima occasione per ridurre il gender gap nel mondo del lavoro italiano. Secondo Parenti, le donne sono meno minacciate dalle tecnologie anche perché spesso hanno quelle “soft skill” che diventano sempre più ricercate nel mondo 4.0. Ad esempio hanno maggior competenze relazionali. E’ un punto su cui si sofferma anche Angelotti, che propone un distinguo: «le specificità dell’approccio femminile, i modi di essere mediamente ascrivibili al genere femminile dal mio punto di vista sono culturali, sociali. Non sono cristallizzati. E probabilmente sono anche già cambiati o in fase di cambiamento». Per esempio nella comunicazione le donne hanno un approccio più paritario, affettivo, mentre un uomo tende a una comunicazione di ruolo, assertiva. Studiare queste differenze serve a decodificare linguaggi e comportamenti, e a trarne le conseguenze: «una comunicazione empatica fra colleghi serve a lavorare meglio». Parenti sottolinea un effetto positivo sul gioco di squadra di una maggior presenza femminile nei luoghi di lavoro, non necessariamente perché le donne hanno una maggior propensione al gioco di squadra, ma perché «la squadra fatta di uomini e di donne funziona meglio». Profeta aggiunge nuovi elementi: «una leadership bilanciata è positiva per le performance aziendali, si allargano le prospettive, ci sono attitudini che si controbilanciano». Anche grazie alle caratteristiche di una leadership al femminile, che è multitasking, meno conflittuale, meno aggressiva, presenta una minor propensione al rischio e mentre è più orientata all’analisi delle caratteristiche. Considerazione molto simile da parte di Parenti: «la squadra mista è più affidabile perché la componente maschile è più spregiudicata, e tende ad assumere rischi più alti, mentre il concorso della donna mitigare questa propensione al rischio eccessiva».
I cambiamenti in atto, e che si prevedono, nel mondo del lavoro 4.0, possono a loro volta contribuire a superare gli ostacoli che spesso spingono le donne a rinunciare alla carriera. Lo smart working, sottolinea Profeta, aumenta la flessibilità del lavoro in termini di spazio e uso del tempo, e questo è vantaggioso per tutti, ma soprattutto per la donna, che può più facilmente conciliare lavoro e vita privata. Ma su questa strada bisogna fare molti passi avanti, insiste la docente: servizi pubblici, sgravi fiscali, asili nido. Un salto culturale, che porti a parlare non più di conciliazione, ma di condivisione. «Dovrebbe essere un tema più affrontato anche a livello legislativo. Ad esempio, potenziando i congedi di paternità per gli uomini».
Qui, si registrano posizioni diverse. Torlasco, ad esempio, ricorda che AIDDA propone di abolire l’obbligo della maternità per le lavoratrici «preferiamo che sia una scelta della donna. Una persona con un ruolo rilevante in azienda rischia di essere penalizzata dall’obbligo di stare a casa cinque mesi. Potrebbe avere voglia di non assentarsi per l’intero periodo». Certo, si tratta di una proposta maggiormente appetibile per donne con un ruolo rilevante. L’imprenditrice non lo ritiene un passo indietro rispetto a un diritto, insistendo sul fatto che la legge dovrebbe lasciare libertà di scelta, salvaguardando quindi il diritto di chi decide di andare in maternità, diritto che non viene meno. Non è d’accordo Angelotti: «l’obbligo è una tutela, trasformarlo in un diritto può significare sottoporre la donna a pressioni da parte del datore di lavoro. Perché invece non rendiamo obbligatorio il congedo di paternità? Si tratta di un lavoro culturale che va nella direzione di condividere il lavoro di cura». Una posizione, come si vede, molto simile a quella di Profeta. La quale insiste in particolare sulla necessità di prendere l’argomento più sul serio da parte delle istituzioni e anche delle imprese, che dovrebbero mettere il tema della condivisione in cima alla propria agenda.