In poco più di duecento anni, il genere umano ha attraversato tre grandi discontinuità tecnologiche, che hanno dato origine ad altrettante rivoluzioni industriali. La prima, sviluppatasi in Inghilterra alla fine del XVIII secolo, ha visto l’introduzione di macchinari che sfruttavano la forza del vapore e l’utilizzo del carbone (al posto di acqua, vento, lavoro animale) per innovare radicalmente l’industria tessile e metallurgica dell’epoca. La seconda, agli inizi del XIX secolo, ha visto la diffusione dell’energia elettrica e l’avvento dei concetti di standardizzazione e specializzazione del lavoro che hanno portato alla produzione di massa, il cui esempio paradigmatico rimane la Ford modello T. La terza, iniziata sul finire degli anni 60 del secolo scorso, ha visto l’introduzione dei primi dispositivi elettronici programmabili (PLC) a supporto dell’automazione dei mezzi di produzione e, di pari passo, l’avvento dei computer nella gestione delle fabbriche e nella progettazione di prodotto. Ciascuna di queste discontinuità ha cambiato profondamente non solo l’industria ma la società tutta, trasformando il concetto stesso di lavoro, generando nuovi equilibri nella creazione e ridistribuzione della ricchezza e portando, in definitiva, maggiore qualità della vita, un incremento del benessere, del livello di istruzione ed anche della partecipazione democratica.
Da alcuni anni a questa parte è maturata la consapevolezza che l’umanità stia entrando nella sua quarta discontinuità tecnologica, alla cui base vi sono internet (in tutte le sue accezioni, dai computer alle cose) e la trasformazione digitale. Mentre nel comparto terziario la digitalizzazione ha già avuto modo di mostrare il suo dirompente potenziale innovativo, il comparto secondario ha mostrato comprensibilmente dinamiche meno veloci, anche alla luce del più lungo ciclo di vita dei propri asset. I tempi sono però ora maturi per la quarta rivoluzione industriale: essa segna un’era in cui, grazie alle tecnologie digitali, le imprese industriali faranno un salto nella propria competitività ed efficienza grazie all’accresciuta capacità di interconnettere e far cooperare le proprie risorse (macchinari, persone, informazioni), siano esse interne alla Fabbrica oppure distribuite lungo la catena del valore.
Ma quali sono le chiavi di lettura di questa trasformazione, e quali paradigmi interpretativi si stanno affermando? L’industria Italiana può allinearsi ad essi, o dovrà sviluppare una sua lettura originale di questa trasformazione? L’Osservatorio Smart Manufacturing del Politecnico di Milano, nella sua seconda edizione, dedica a questo tema di grande rilevanza politica ed economica un filone di ricerca apposito, per capire le principali interpretazioni di questo fenomeno, e la loro applicabilità al contesto italiano. Tra le diverse letture, le più rilevanti sono senza dubbio quella tedesca (Industrie 4.0) e quella americana (Advanced Manufacturing).
Il termine Industrie 4.0 (spesso nel più universale Industry 4.0) fu usato per la prima volta nel 2011 dalla National Academy of Science and Engineering (Acatech) ed individua un’iniziativa del governo Tedesco che ha l’obiettivo di definire e implementare una strategia di digitalizzazione della manifattura nazionale, da realizzarsi attraverso progetti di innovazione e quindi di trasferimento tecnologico, su un orizzonte di 10-15 anni, per consegnare all’industria manifatturiera tedesca la leadership nei successivi decenni. I tratti essenziali del programma sono:
Chiave di lettura tecnologica: al centro di Industrie 4.0 vi è il concetto di Cyber Physical System (CPS), ottenuto attraverso la sensorizzazione (Industrial IoT) dell’impianto (e del suo contesto operativo) e la costruzione di un “modello” che lo virtualizzi e consenta di monitorarlo, simularne il comportamento da solo o inseriti in un sistema più complesso per infine controllarlo in modo automatico verso determinati obiettivi. Ad esempio, una vettura con i suoi numerosi sensori, con un modello SW del veicolo della sua dinamica e con un programma elettronico di correzione della stabilità di marcia è un esempio di un CPS. Ugualmente presenti nella lettura Industrie 4.0, ma forse meno enfatizzate, sono le tecnologie che consentono una integrazione informativa tra gli attori della catena del valore;
Organizzazioni partecipanti: sfruttando la forza del proprio ecosistema di ricerca ed industriale, il programma tedesco coinvolge sia aziende fornitrici di automazione (Siemens, Bosch, Festo, etc., a loro volta grandi aziende manifatturiere), sia aziende ICT (SAP, ESG) sia i grandi nomi dell’industria automobilistica e di processo, nonché i centri di ricerca nazionali (Acatech, Fraunhofer Institute, etc.), senza dimenticare le principali associazioni industriali e sindacali del paese, attraverso una piattaforma di condivisione grazie a cui i risultati conseguiti nelle fasi di ricerca e sviluppo trovano rapido trasferimento nei contesti di effettivo utilizzo;
Governance e finanziamenti: Industrie 4.0 prevede un forte coordinamento centrale, affidato ad uno Steering Committee, responsabile di definire le strategie ed indirizzare i singoli gruppi di lavoro. Lo Steering Committee è poi supportato da uno Scientific Advisory Committee, con figure di spicco provenienti dal mondo accademico, manifatturiero ed IT e da un Governing Board, che supervisiona la definizione della strategia e le attività pubbliche (e.g. incontri con il policy maker ed i media (cfr. Figura allegata, se si può inserire). Secondo le informazioni pubblicamente accessibili, ad oggi il programma Industrie 4.0 ha ricevuto finanziamenti non inferiori a 200 mln di euro.
L’Advanced Manufacturing Partnership (AMP) nasce negli Stati Uniti nel 2011, a sugellare l’impegno dell’esecutivo Obama per la reindustrializzazione del paese. L‘AMP unisce, come già nel caso tedesco, imprese industriali, grandi nomi dell’ICT oltre a centri di ricerca e università, con l’obiettivo di innovare la manifattura per restituirle centralità dal punto di vista della capacità occupazionale, dal momento che i grandi campioni digitali americani hanno sì creato ricchezza e la nuova economia digitale, ma con riscontri più modesti sotto il profilo dei posti di lavoro. I tratti essenziali del programma americano sono:
Chiave di lettura tecnologica: la lettura americana è rivolta alla creazione di una “Smart Manufacturing Platform”: basata su un approccio standard e collaborativo, questa piattaforma consentirà di integrare dati e processi manifatturieri sia interni al singolo impianto (per analisi, misura e simulazione) sia esterni, così da consentire di integrare ed orchestrare i set processi di business di tutte le imprese coinvolte nella value chain. L’enfasi è quindi posta sull’integrazione tra sistemi, lasciando un poco in secondo piano le tecnologie che operano sul processo produttivo;
Organizzazioni partecipanti: anche gli Stati Uniti vantano un ecosistema industriale d’eccellenza, in termini di imprese fornitrici di tecnologia (GE, Rockwell Automation, Moog), ICT (Cisco, HP, Intel, IBM), sia in termini di aziende manifatturiere (P&G, Caterpillar, GM, etc.) e di centri di ricerca. Se tutto l’ecosistema è ugualmente interessato, nel caso americano l’enfasi è data alle grandi imprese ICT, per creare quella piattaforma, in teoria aperta ed interoperabile tra le varie industrie, che consenta davvero di rendere tangibile l’integrazione tra risorse fisiche ed informative alla base della quarta rivoluzione industriale;
Governance e finanziamenti: rispetto al caso tedesco, l’approccio statunitense vede una presenza molto meno forte del governo centrale. Così nel 2013 l’AMP ha creato diversi Manufacturing Innovation Institutes (MIIs) che, basati su partnership pubblico-private, sono quelli che poi lavorano su specifici temi di sviluppo e trasferimento tecnologico. Il modus operandi americano lascia maggiore spazio anche ad iniziative ancillari, come la Smart Manufacturing Leadership Coalition (SMLC). Secondo le informazioni pubblicamente accessibili, il governo federale USA ha contributo con circa 70 mln di dollari, a cui si aggiunge però una forte capacità di raccolta locale e di autofinanziamento: ad esempio, il Digital Manufacturing and Design Innovation Institute (DMDII), uno dei numerosi MIIs, ha raccolto da solo oltre 200 mln di dollari.
Come evidente, pur sempre parlando di quarta rivoluzione industriale e pur con molte similitudini di fondo, questi due paradigmi differiscono sensibilmente nella chiave di lettura tecnologica, negli attori alla guida della trasformazione e nel modello di governance. Differenze analoghe, pur senza la rilevanza dei casi tedesco e americano, possono essere ravvisate nelle iniziative promosse negli scorsi anni dal Regno Unito (Catapult), dalla Francia (Industrie du Futur), dalla Danimarca (MADE), dall’Olanda (Smart Industry) e dalla Svezia (Produktion 2030), a testimonianza della centralità di cui il tema della reindustrializzazione gode in tutto il vecchio continente, e al tempo stesso della necessità di reinterpretare la quarta rivoluzione alla luce delle caratteristiche del proprio tessuto industriale.
All’Italia, seconda manifattura d’Europa e tra le prime dieci al mondo, manca ancora un programma governativo nazionale: una grave mancanza a cui, a breve, dovrebbe essere posto rimedio. Nell’attesa, viene da chiedersi quali dovranno essere i tratti distintivi dell’approccio italiano: a quale delle due interpretazioni si potrà avvinare maggiormente la lettura italiana, a quella tedesca o a quella americana?
Una risposta complessa, che dovrà necessariamente discendere da una valutazione attenta dei punti di forza e di debolezza del nostro tessuto industriale, delle sue caratteristiche dimensionali ed anche territoriali, dalla disamina dalle capacità del nostro management e dalla analisi delle eccellenze dell’ecosistema nazionale (imprese industriali, produttori di macchinari, enti di ricerca). Ad evidenza, il tessuto manifatturiero italiano ha alcuni tratti simili a quello tedesco (produzione di macchinari, automotive, aeronautica, home appliances, dispositivi medicali ed altri prodotti ad alta complessità, come il settore nautico), dove l’enfasi andrà posta sui temi dei CPS e dell’Internet delle cose, soprattutto nella fusione tra prodotto e processo di produzione esteso (beginning of life, middle of life, end of life). Al tempo stesso, altri settori come quello della moda e arredamento, della componentistica e della meccanica in generale si caratterizzano per distretti e filiere molto articolate, in cui la competitività nasce dalla capacità di governo e di integrazione, da parte dei soggetti capofiliera, delle aziende della propria catena del valore, una tematica per molti versi più vicina alla lettura americana dell’ Advanced Manufacturing.
Quale che sia il programma Italiano, su due aspetti non ci potrà e dovrà essere alcuna differenza rispetto ai programmi “capostipite” (quello tedesco e quello americano). Il primo di questi è l’ammontare di finanziamenti pubblici stanziati, davvero ingenti nei due casi (anche solo nei numeri pubblicamente dichiarati, forse non la totalità) ed inseriti in un piano di lavoro pluriennale che include cicli di sviluppo e trasferimento. L’Italia non potrà fare la quarta rivoluzione industriale “a saldo zero”: sono troppi anni che il nostro Paese non investe in innovazione, ed i risultati in termini di incremento della produttività sono sotto gli occhi di tutti.
Il secondo aspetto, anch’esso del tutto comune ai programmi tedesco e americano, è saper approfittare del programma (e della discontinuità epocale rappresentata dalla quarta rivoluzione industriale) per creare una forte campagna di “marketing”, interno ed esterno, della capacità manifatturiera del nostro paese, del suo tradizionale “made in Italy”, e del nuovo “digitally” made in Italy. “Industry 4.0” e “Advanced Manufacturing” sono prima di tutto “marchi commerciali” dei rispettivi paesi: anche l’Italia (nella forma, oltre che nella sostanza) dovrà creare il suo.
Fonte: Acatech – Recommendations for implementing the strategic initiative INDUSTRIE 4.0