Illustrando i modi che assume la tecnopolitica nell’odierno contesto digitalizzato, si delineano delle costanti: comunità di utenti passivi che si aggregano intorno alle attività di chi possiede i mezzi per costruirsi in quanto utente attivo, secondo proporzioni rintracciabili in maniera costante.
Venticinque anni fa veniva pubblicato il seminale saggio “Tecnopolitica. La democrazia e le nuove tecnologie della comunicazione” di Stefano Rodotà. Lungi dall’essere semplicemente un trattato sulla democrazia diretta permessa dalle tecnologie elettroniche di comunicazione – o “iperdemocrazia” – il saggio si presenta come una riflessione sul modo in cui la tecnica influisce sulla politica e su come le trasformazioni della prima accompagnino, influiscano e si intreccino con le trasformazioni della seconda.
Il testo mostrava come l’evoluzione delle TIC mettesse in crisi alcune dicotomie soggiacenti alla pratica democratica, come quella tra vita pubblica e vita privata e, allo stesso tempo, presentava alcune riflessioni di interesse estetico su molteplici dimensioni della vita politica, compresa quella semiotica: “Mentre si insegue l’utopia della democrazia diretta, non stanno piuttosto emergendo le forme della democrazia plebiscitaria? L’immagine non concentra bruscamente quel che ieri apparteneva a piani e momenti diversi, riducendo ad un’unica cifra quel che veniva espresso da un programma, da un insieme di legami sociali, da complesse procedure di selezione e d’investitura, e, certamente, pure dalla personalità di un candidato, di un leader? E proprio la forza totalizzante dell’immagine, sovrastando il logos, la parola, che aveva sempre accompagnato la vicenda della democrazia occidentale, non sta provocando una integrale ‘mutation cathodique’ della retorica politica?” (Rodotà 1997: 15-16) [1]
I due fronti della tecnopolitica
La scienza politica, la sociologia e la filosofia inquadrano in molte maniere il rapporto tra tecnica e politica: gli Science and Technology Studies, la semiotica degli oggetti e altre discipline critiche mostrano da anni come gli strumenti tecnici non siano solo un riflesso delle condizioni politiche abitanti il loro contesto di produzione, ma come essi stessi siano degli attori sociali agenti e significanti quanto gli attori umani – degli attori intrinsecamente politici.
Non si vuole perciò portare avanti alcun tipo di pretesa di esaustività nella trattazione di un rapporto così antico e profondamente co-implicato; nella direzione aperta da Rodotà però, si vuole provare a interrogare il presente panorama digitale attraverso la categoria della tecnopolitica.
Ai fini divulgativi del presente lavoro, si distinguerà in maniera preliminare tra due sensi possibili del campo della tecnopolitica: un polo istituzionale, che si concentra più sul funzionamento tecnico della vita pubblica mediata da tecnologie, su come si partecipi in maniera mediata alla comunità democratica e un polo più tradizionalmente comunicativo, riguardante la presenza di discorsi politici o legati al mondo della politica all’interno dell’ecosistema digitale.
Il fine del saggio è quello di tracciare le linee di un campo che tiene insieme soggetti e pratiche molto diverse – dalle dichiarazioni in ambito politico di personalità rilevanti all’interno di un dominio commerciale, alla possibilità di verificare la propria identità nell’interagire con la pubblica amministrazione – non per omologare esperienze eterogenee, ma per rimarcare la centralità di un’attività antica come l’umano stesso, il gesto tecnico. Questo gesto, che continua a essere erroneamente inteso in termini strettamente funzionalistici e computazionali, è invece un gesto profondamente semiotico, e proprio come la semiotica e la sociologia della traduzione illustrano da decenni, è un gesto significante: in quanto tale non solo trasmette significati ma agisce, come mediatore (Latour 1991) [2], ridefinendo i rapporti in cui si trova intessuto.
Polo istituzionale
A partire dai processi di digitalizzazione che hanno attraversato il mondo nella sua globalità (Floridi 2014) [3] emerge la possibilità per i cittadini e le cittadine di accedere digitalmente a documenti e servizi.
La cittadinanza digitale
All’interno del contesto italiano, La carta della cittadinanza digitale (Legge 124/2015) rappresenta una garanzia importante, poiché definisce l’accesso digitale in termini di diritto dei cittadini: “Al fine di garantire ai cittadini e alle imprese, anche attraverso l’utilizzo delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione, il diritto di accedere a tutti i dati, i documenti e i servizi di loro interesse in modalità digitale, nonché al fine di garantire la semplificazione nell’accesso ai servizi alla persona, riducendo la necessità dell’accesso fisico agli uffici pubblici”.
Spesso però la cittadinanza digitale, più che in termini di un diritto da garantire, viene raccontata in termini di un aumento di potere che permetterebbe di superare i limiti di una burocratizzazione lenta, analogica e stantia, dando più libertà ai cittadini. Questo tipo di retorica non è affatto nuova: da tempo, infatti, si sottolinea che al passaggio dalla comunicazione unidirezionale a quella bidirezionale o interattiva corrisponderebbero quasi automaticamente il superamento della condizione di passività del cittadino-utente rispetto ai tradizionali programmi televisivi, e un approdo sicuro ai lidi della democrazia. (Rodotà 1997: 39-40)
L’idea di cittadinanza digitale come empowerment è collegata alla costruzione dell’utente come figura padrona delle proprie azioni, come attore mediale non più passivo ma attivo grazie alla tecnologia digitale (Jenkins 2006; Jenkins, Ford, Green 2013) [4]. D’altronde, l’intera idea di web 2.0, la famosa definizione di O’ Reily attraverso cui si è dato senso agli ultimi vent’anni di storia di internet, si fonda proprio sulla centralità della partecipazione del medium digitale che sovrascriverebbe la logica della pubblicazione dei media tradizionali (cfr. Gerbaudo 2019: 118) [5]
Ma l’azione all’interno del medium digitale è tutt’altro che libera: sia che si intenda l’interazione con l’interfaccia secondo un modello dialogico (Cosenza 2014) [6], sia che si adotti una prospettiva di interazione con un oggetto tecnico (Mattozzi 2006) [7], esistono dei limiti (Eco 1990) rispetto a ciò che un oggetto – in semiotica diremmo “testo” – digitale ci permette di fare.
Se si adotta una prospettiva semiotica, d’altronde, l’idea di partecipazione del lettore ai processi interpretativi mostra come questa categoria fosse centrale anche nei media tradizionali (Eco 1979) [8]: insomma, già il lettore, antesignano dell’utente, era partecipante, e se il digitale ha presentato un diverso assemblaggio delle deleghe all’interno del dispositivo mediale, questo è solo perché un certo design glielo ha permesso.
Indipendentemente dalla libertà creativa che l’oggetto ci permette, la catena di azioni che un oggetto tecnico instaura è rispondente di uno script (Akrich, Latour 1992) [9]. Affinché ci sia un empowerment dell’utente allora, bisognerà assicurarsi che la progettazione dell’oggetto preveda per quest’ultimo un certo grado di libertà, o che sia in grado di fornirgli le competenze necessarie al superamento di eventuali impasse che ne pregiudicano le azioni. Altrimenti, anche pratiche burocratiche semplici, un tempo svolte da attori umani specializzati, potrebbero trasformarsi in esperienze di inazione, o che minano il rapporto di fiducia con quella stessa istituzione inizialmente pensata per fornire dei servizi.
Identificare quindi nella moltiplicazione dei canali digitali una equivalente e spontanea moltiplicazione delle possibilità di accesso ai servizi è una mossa che semplifica la complessità dei rapporti sociotecnici esistenti, e che ne fornisce una versione edulcorata e semplificata. In termini echiani (Eco 1975), si direbbe una versione ideologica del discorso sulla tecnologia: “In realtà, ancora una volta non siamo di fronte a processi lineari, né ad effetti che si accompagnano quasi automaticamente al passaggio da una all’altra tecnologia. Se, ad esempio, si analizzano alcune sperimentazioni realizzate grazie alla televisione via cavo, ci si può avvedere del fatto che alla possibilità di risposta dei cittadini non corrisponderebbe necessariamente un aumento del loro potere. Si può ottenere, invece, una crescita sostanziale della legittimazione di chi ha il controllo del mezzo tecnico adoperato”. (Rodotà 1997: 40)
I partiti digitali
Un’altra figura della democrazia la cui forma è stata, in alcuni casi più di altri, rivoluzionata dalla digitalizzazione è la formazione sociale del partito. Lungi dall’aver rappresentato la fine del partito come istituzione sociale tradizionale, il digitale ha offerto nuove forme di organizzazione politica e di racconto delle identità politiche.
Spesso fatta collassare nella categoria di partito populista, il partito digitale è tuttavia una forma organizzativa le cui caratteristiche specifiche sono state studiate e raccolte da Paolo Gerbaudo (2019). Gerbaudo, dopo aver indicato come esempi di partito digitale il Movimento 5 Stelle, Podemos, La France Insoumise e Momentum, definisce: “Malgrado le differenze, questi diversi attori politici hanno evidenti punti di contatto. Essi si fanno portatori di una nuova politica, in cui un ruolo di primo piano è svolto dalla tecnologia digitale. Una politica che […] si professa più democratica, più aperta alla gente comune, più immediata, diretta, autentica e trasparente di quella tradizionale. Queste nuove formazioni intendono essere un antidoto alla mancanza di rappresentanza sostanziale che ha trasformato le istituzioni democratiche in uno strumento al servizio degli interessi personali di tecnocrati e politici. Reagendo alla sfiducia generalizzata nei confronti dei partiti tradizionali determinata dalla Grande recessione, essi promettono una nuova democrazia in grado di rispondere alle mutate condizioni sociali di questa era di crisi economica e di sviluppo tecnologico e culturale al contempo”. (Gerbaudo 2019: 10-11)
La categoria del populismo corrisponde con un tratto specifico del partito digitale, a sua volta correlato all’uso delle tecnologie digitali e, di conseguenza, a quell’idea di empowerment dell’utente che informa le versioni tecnoentusiaste della cittadinanza digitale. Si tratta della possibilità dell’immediatezza della tecnologia che avvicina non solo l’utente al sistema, ma anche il cittadino alle istituzioni, al corpo politico.
Questa evoluzione del racconto in cui è immerso il cittadino-utente avviene attraverso gli spazi della socialità digitale, ossia le piattaforme, che diventano – sia in senso istituzionale che in senso comunicativo – luoghi di costruzione del consenso tecnopolitico: “A questo scopo tali organizzazioni hanno usato in maniera molto innovativa canali social come Facebook, Twitter e YouTube e fortemente investito nella progettazione e nell’implementazione di strumenti decisionali online al fine di garantire una più diretta partecipazione dei cittadini alle decisioni politiche, dalla piattaforma Rousseau del Movimento 5 Stelle al portale Participa di Podemos e al software LiquidFeedback dei partiti pirata. Grazie a questi strumenti ci si prefigge l’obiettivo di risolvere la crisi della democrazia, partendo dall’organizzazione che ha tradizionalmente rivestito il ruolo di collegamento tra cittadino e stato: il partito politico”. (ibid.)
All’interno di queste formazioni la partecipazione, da mezzo per raggiungere un fine politico, diventa “un fine in sé e per sé. Nell’utopia partecipativa fini e mezzi coincidono. Ciò che conta, in questo contesto, non è tanto ciò che la politica può ottenere, ma come può realizzarlo” (ivi: 126). Secondo la ricostruzione del teorico, piuttosto che produrre un’effettiva uguaglianza – come promesso dalla loro retorica – queste organizzazioni fondate sulla partecipazione digitale producono un fondamentale squilibrio tra chi ha maggiore possibilità di impegnarsi e quella parte della comunità digitale che fruisce dei contenuti in maniera passiva (ibid.): il potere decisionale è schiacciato su quella parte di comunità che ha un maggiore accesso ai canali, creando l’illusione di un potere equamente distribuito quando in realtà è detenuto da una piccola percentuale di utenti.
Questo si distribuirebbe secondo la “regola 90-9-1” di Nielsen per cui: “Secondo questa regola il 90% di coloro che popolano le comunità online è costituito da utenti passivi […] destinatari o consumatori di informazioni prodotte da altri. C’è poi un 9% di partecipanti attivi e solo un 1% di costantemente attivi. Questa tendenza alla disuguaglianza della partecipazione è stata riscontrata in diverse comunità online”. (ivi: 127)
Polo comunicativo
La circolazione delle informazioni di stampo politico è stata per lungo tempo delegata ad agenzie di informazione appartenenti al panorama mediatico cosiddetto tradizionale.
Il political influencing
Giornali e riviste culturali prima, salotti televisivi di infotainment e telegiornali dopo, vi erano alcuni punti di riferimento in un panorama bene o male stabile che dettavano delle agende di priorità informativa. All’interno di quella condizione di sovrapproduzione culturale tramite media digitali che il teorico dei media Jay David Bolter chiama “plenitudine digitale” (2019) [10] si creano invece delle nicchie che non sono più determinate solo dalla vecchia agenda setting, ma si tratta di vere e proprie “comunità di gusto”, in cui le piattaforme, grazie anche a quegli attori non-umani che chiamiamo algoritmi, aggregano contenuti e utenti intorno a valori identitari e nuclei “tematici”.
Anche in questo panorama mediatico digitalizzato, per quanto si caratterizzi come un contesto più dinamico, esistono delle figure di riferimento. L’influencer è infatti figura centrale rispetto agli ambienti mediali digitali per eccellenza, le piattaforme. Questa figura è definita dall’enciclopedia Treccani – che riconosce il neologismo nel Vocabolario del 2017 – come: “Personaggio di successo, popolare nei social network e in generale molto seguìto dai media, che è in grado di influire sui comportamenti e sulle scelte di un determinato pubblico”.
È interessante notare come la definizione dell’enciclopedia online faccia immediatamente seguire un riferimento al teorico del partito digitale italiano per antonomasia: “[Gianroberto Casaleggio, nda] Pragmatico, teorizza il ruolo fondamentale degli influencer in Rete, quel 10% di utenti consapevoli che forma le opinioni del restante 90%. Assieme al figlio Davide e ad altri collaboratori ha creato ‘lo Staff’ a cui le sedi locali del MoVimento si rivolgono per consigli e corsi di formazione e inoltrano documenti”. (Repubblica, 27 maggio 2012, p. 16, Politica interna).
La definizione arriva quindi a coincidere con quella indicata da Gerbaudo quando sottolinea il profondo disequilibrio fondante la disuguaglianza di partecipazione nelle comunità digitali. Se si ritorna al concetto della tecnopolitica e alla sua capacità di ridefinire gli spazi e i modi della partecipazione alla vita democratica, e lo si cala all’interno del contesto digitalizzato, si può quindi iniziare a vedere in quale nuova maniera marketing e politica – il cui sodalizio era già stato sancito nel 1994 – si sovrappongano: il termine influencer nasce infatti all’interno di contesti commerciali, per la promozione di prodotti attraverso un discorso basato sulla condivisione di esperienze fortemente personali. Il modello influencer si basa sulla costruzione di un racconto della vita quotidiana del personaggio-influencer, all’interno del quale si fa valere l’efficacia o il valore dei prodotti da promuovere.
La problematicità della categoria di influencer all’interno di discorsi prettamente politici è stata affrontata da Stefano Feltri all’interno di diversi pezzi di opinione prima, in un volume edito da Einaudi nel 2022 poi: Il partito degli influencer. Perché il potere dei social network è una sfida alla democrazia. [11]
Il saggio mira a problematizzarne il ruolo politico. Se chi scrive ha già posto in precedenza l’attenzione sulla problematica del ruolo politico dell’influencer in contesti di caos informativo, il lavoro di Feltri offre invece una visione a 360 gradi sull’effettiva collocazione di queste figure all’interno della vita pubblica. Un esempio efficace è quello che porta a riflettere sulle leggi che regolano la par condicio all’interno dello spazio mediatico “tradizionale”, e alle garanzie istituite per difendere il pluralismo informativo in quella sede. All’interno dello spazio digitale invece esistono delle zone d’ombra che permettono agli influencer di promuovere messaggi politici al di fuori di ogni garanzia di pluralismo, rendendo le loro operazioni di influenza non direttamente regolabili.
Se si considera quindi la possibilità di un political influencer, si ha una figura che incarna lo squilibrio già osservato nella tecnopolitica digitale: “L’utopia dell’’uno vale uno’ anche sui social si trasforma molto rapidamente nel suo opposto: uno vale tutti, o quasi, La valanga della condivisione genera un mercato con milioni, anzi miliardi, di account quasi irrilevanti, pochi leader con molti follower. Finché questi influencer con milioni di follower si dedicano soltanto a promuovere marchi di moda o cosmetici, i rischi sono contenuti, ma più si avvicinano alla politica o a temi sensibili, maggiori sono le conseguenze dello squilibrio di influenza”. (Feltri 2022: 10)
Feltri si dedica all’analisi di diverse esperienze di sovrapposizione dell’attività di influencing e della politica, sottolineando come non sia sempre facile rivelarne la loro effettiva efficacia all’interno della vittoria o sconfitta di candidati. Ma soprattutto riflette sulla trasparenza di questa attività di influenza, sul fatto che si tratti di un’operazione di manipolazione o di convincimento (ivi: 131-sgg) e sulla legittimità delle dinamiche che ne permettono la messa in essere.
Identity politics o individualizzazione della politica?
L’analisi condotta da Feltri sul ruolo degli influencer all’interno delle piattaforme digitali ci permette di arrivare all’ultimo degli ultimi modi della tecnopolitica digitale che si vuole qui prendere in considerazione. Al di là dell’effettiva misurabilità della capacità di influenza immediata di un contenuto su un utente, e rimanendo molto cauto sull’attribuzione di responsabilità di influenza da parte delle piattaforme, Feltri individua “due forze all’opera” (ivi: 138) nella mediazione digitale delle opinioni politiche: quella dell’influencer in quanto produttore di contenuti e quella della piattaforma che gerarchizza attraverso gli algoritmi di personalizzazione i contenuti che gli utenti finali incontreranno. Ed è proprio questa capacità di personalizzazione che gli influencer cavalcano, costruendo comunità intorno alla propria identità pubblica.
“Vivere la propria vita pubblica digitale – ammesso che abbia ancora senso fingere che ci sia una distinzione con quella ‘reale’ – in una bolla completamente personalizzata ha un suo fascino, ma anche effetti collaterali che già abbiamo misurato in questi anni: significa non essere mai esposti a idee diverse da quelle che risultano più confortevoli, accedere sempre allo stesso tipo di contenuti e ai medesimi linguaggi”. (ivi: 177)
La personalizzazione dei contenuti, la creazione di comunità a partire da presupposti identitari e scelte di navigazione: questi sono i concetti alla base delle comunità di gusto che regolerebbero la circolazione dei contenuti nella plenitudine digitale secondo Bolter.
Per quest’ultimo, l’utente dell’ecosistema mediale odierno è messo di fronte ad un flusso costante di produzione di contenuti, e per potervi partecipare deve mettere in atto una serie di meccanismi di filtraggio compreso quello identitario. L’esperienza del flusso è un’esperienza di godimento della passività, che si contrappone all’esperienza mediale della catarsi che presuppone un’identificazione attiva con una storia. Flusso e catarsi, più che gli estremi di una dicotomia, diventano così due poli di uno spettro in cui si può ritrovare la produzione culturale della plenitudine mediale: dai prodotti narrativi, ai videogiochi, finanche all’attività politica degli utenti delle piattaforme.
Così, flusso e catarsi servono a Bolter per spiegare in che maniera si declina nello spazio digitale la politica dell’identità: “La forma di politica dell’identità perfezionata da Trump differisce sotto importanti aspetti dalla concezione che ne ha la sinistra. Per quest’ultima, la politica dell’identità è una variazione della politica tradizionale, basata su una lettura particolare della storia – soprattutto la storia delle questioni razziali e di genere e dell’oppressione e marginalizzazione sistematiche delle donne e delle persone non bianche. La politica dell’identità è una raccolta di storie tragiche o di ingiustizia con un orizzonte di futuro trionfo; è estremamente catartica, ed esige che ciascuno trovi il proprio posto in quella raccolta”. (Bolter 2019: 295-296)
Questa descrizione dell’identity politics è al centro della cultura digitale nelle comunità “woke”, secondo la divisione istituzionalizzatasi nel fenomeno delle culture wars che vedevano polarizzarsi e scontrarsi online visioni molto diverse del mondo. L’identity politics però, secondo la Stanford Encyclopedia of Philosophy, ha una radice storica ben precisa che la caratterizza come sistema di valori consolidato all’interno di una tradizione politica.
La differenza identificata da Bolter tra questa esperienza catartica e quella del flusso è che in quest’ultimo le narrazioni storiche possono essere completamente ribaltate, e l’esperienza di identificazione attiva della catarsi trasformata in un’attività di auto-definizione permessa proprio dalle piattaforme social: “È importante sottolineare però che la politica dell’identità di Trump non è esplicitamente imperniata sulla questione etnica o sulla storia, quanto piuttosto sull’individuo, e più precisamente un singolo individuo: Trump stesso. Trump […] mostra con l’esempio come sia possibile crearsi una certa immagine politica […] tramite lo stesso processo autodefinitorio che ha determinato il successo di Facebook presso due miliardi di persone. Trump è riuscito a riunire in sé la dimensione personale a quella politica dei social media. […] è facile, per un qualsiasi utente di Facebook e Twitter, fondere l’identità sociale, quella politica e quella personale.” (Bolter 2019: 297)
Da cornice discorsiva che tiene insieme esperienze di comunità, la politica diventa così un dramma delle identità, dove la costruzione identitaria dell’utente si costruisce sul modello di quella dell’influencer. La teoria di Bolter diventa più chiara se si comprende come per il teorico l’identità online sia una costruzione prettamente semiotica che contribuisce alle tecniche utilizzate dagli utenti per gestire e partecipare alla plenitudine digitale: “Sui social media, tutte queste forme di identità sono composte di frammenti, testi e immagini potenziali, passioni e idiosincrasie spesso intense. A facilitare il compito a Trump sono state le modalità con cui i social media come Facebook, insieme ai motori di ricerca come Google, definiscono l’identità online dei loro utenti e li targettizzano di conseguenza. […] Gli utenti, chiaramente, desiderano e necessitano di modi per navigare e gestire tutto il materiale disponibile. Vogliono i filtri – sia quelli stabiliti da loro sia quelli forniti dagli algoritmi. […] L’insieme di queste decisioni contribuisce a definire la comunità alla quale appartengono”. (ivi: 297-298)
L’identità, come costruzione semiotica, non deriva più da una storia precedente ai soggetti, non è un prodotto della comunità necessario a dare senso ad esperienze di vita tramite l’identificazione. Al contrario, delle esperienze di vita fortemente idiosincratiche divengono il mezzo attraverso cui costruire delle comunità, selezionando delle possibilità da uno sfondo caotico – la plenitudine, il flusso – al fine di potervici ritagliare un posto. In questa versione dell’identity politics, non conta più trovare un posto nella storia, ma trovare un posto all’interno di nuove comunità costruite su identità ormai idiosincratiche e in balia dell’attività politica degli influencer: “Zuckerberg e il suo team pensavano che i loro algoritmi avrebbero facilitato il flusso perfetto di informazione che gli utenti di Facebook desideravano. Per loro era assolutamente sensato che un certo profilo online dovesse rispecchiare sia le comunità a cui l’utente aspirava ad appartenere sia le informazioni necessarie per sostenere la partecipazione a quelle comunità. Non si sono resi conto che questo meccanismo si attagliava perfettamente alla politica del flusso […] in un ambiente di questo tipo, l’identità può sempre essere chiamata in causa – da Trump, dagli hacker russi e da molti altri gruppi con finalità politiche – per una politica identitaria di un certo tipo. Il gesto in apparenza apolitico di riempire il proprio profilo Facebook, di visitare un sito web o fare acquisti online può attirarci dentro la nuova politica del flusso”. (300-301)
Mochi: “La politica del digitale sia al servizio di una società migliore”
Conclusioni
Distinguendo tra un senso più stretto, legato alla dimensione istituzionale della politica, e un senso più ampio, legato alle capacità comunicative delle tecnologie digitali, si è cercato di trattare della politica come quello spazio di relazioni che si tesse tra gli individui e le loro comunità.
Intorno al polo istituzionale si sono così individuate la cittadinanza digitale come diritto garantito all’individuo, e il partito digitale come nuova forma di aggregazione della comunità. Intorno al polo comunicativo si sono invece individuate la figura dell’influencer, personalità di spicco delle piattaforme digitali, e la politica dell’identità come strategia discorsiva che sfrutta le dinamiche di produzione di senso delle piattaforme per costruire delle comunità politicamente rilevanti.
Ciò che tiene insieme questi modi non vuole essere un atteggiamento tecno-apocalittico, o eccessivamente critico rispetto alle possibilità di aggregazione offerte dalle tecnologie digitali. Ciò che sembra emergere tuttavia è che dietro alle retoriche della connettività, dell’empowerment, dell’uguaglianza, della partecipazione, si nascondano invece i rischi di una personalizzazione e individualizzazione esponenziale della politica. Se quest’ultima vuole essere un modo di stare insieme, un’arte e una tecnica di gestione del potere orientate al benessere di una comunità, bisogna essere vigili e attenti rispetto a come si costruiscono queste comunità. I modi identificati fin qui mostrano delle costanti: comunità di utenti passivi che si aggregano intorno alle attività di chi possiede i mezzi per costruirsi in quanto utente attivo, secondo proporzioni rintracciabili in maniera costante.
La responsabilità di questa disuguaglianza però non pesa solo sulle spalle di singoli influencer o attori politici, ma anche su quella rete di attori non umani che riorganizza attivamente le nostre relazioni. Se le logiche soggiacenti alla progettazione delle tecnologie digitali della tecnopolitica (quelle qui prese in considerazione sono state principalmente le piattaforme social) non rispecchiano l’interesse pubblico, allora forse è il caso di progettare nuove tecnologie – o nuove politiche. Perché si è in grado di disegnare e istituire diritti che proteggono la cittadinanza digitale nell’accesso ai servizi, ma non si riesce a riconoscere il profondo peso che le tecnologie hanno nel disegnare comunità non solo di gusto, ma anche e soprattutto di consenso?
Forse è arrivato il momento di superare la dicotomia tra funzionale, quantificabile, e significativo, come dimensione qualitativa della tecnologia che sfugge all’analisi e alla regolazione. Così si potrà finalmente riconoscere che ogni gesto tecnico è, ed è sempre stato, un gesto di comunità, quindi un gesto politico. Dietro ogni dispositivo che personalizza, individualizza e separa, c’è sempre una rete. Fare politica dovrebbe significare prendersi cura di quella rete.
Bibliografia
[1] Rodotà, Stefano – Tecnopolitica. La democrazia e le nuove tecnologie della comunicazione, Feltrinelli, Milano, 1997.
[2] Latour, Bruno – Nous n’avions jamais eté modernes, La Dècouverte, Parigi, 1991 ; trad. it. Non siamo mai stati moderni, Eleuthera, Milano 2018.
[3] Floridi, Luciano – The fourth revolution. How the infosphere is reshaping human reality, 2014; trad. it. La quarta rivoluzione. Come l’infosfera sta trasformando il mondo, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2017.
[4] Jenkins, Henry – Convergence culture: where old and new media collide, New York University Press, New York, 2006. // Jenkins, H., Ford. S., Green, J. – Spreadable Media. Creating Value and Meaning in a Networked Culture, New York University Press. New York, 2013.
[5] Gerbaudo, Paolo – The Digital Party. Political Organisation and Online Democracy, Pluto Press, London, 2019; trad. it. I partiti digitali. L’organizzazione politica nell’era delle piattaforme, Il Mulino, Bologna, 2020.
[6] Cosenza, Giovanna – Semiotica dei nuovi media, Laterza, Roma-Bari, 2014.
[7] Mattozzi, Alvise – Il senso degli oggetti tecnici, Meltemi, Milano, 2006.
[8] Eco, Umberto – Trattato di semiotica generale, Bompiani, Milano, 1975. // Lector in fabula, Bompiani, Milano, 1979.
[9] Akrich, M. Latour, B. – “A Summary of a Convenient Vocabulary for the Semiotics of Human and Nonhuman Assemblies”, 1992. In: Bijker W.E. and Law J. (a cura di), Shaping Technology/Building Society: Studies in Sociotechnical Change. Cambridge, MA: MIT Press, pp. 259-264; trad. it “Semiotica dei collettivi: un lessico” in Latour, B. Politiche del design. Semiotica degli artefatti e forme della socialità, a cura di Mangano, D., Ventura Bordenca, I., Mimesis, Milano, 2021.
[10] Bolter, Jay David – The Digital Plenitude. The Decline of the Elite Culture and the Rise of New Media, Massachusetts Institute of Technology, Boston, 2019; trad. it. Plenitudine digitale. Il declino della cultura d’élite e lo scenario contemporaneo dei media, a cura di Barra L., Guarnaccia, F., Minimum Fax, Roma, 2020.
[11] Feltri, Stefano – Il partito degli influencer. Perché il potere dei social network è una sfida alla democrazia, Einaudi, Torino, 2022.