Oggi si ritiene che il termine fake news (o disinformazione) non basti più a coprire la miriade dei fenomeni distorsivi della comunicazione in Rete. Nascono neologismi per identificare aspetti che non appaiono molto cambiati dall’avvento delle piattaforme agli occhi del giurista di diritto pubblico. La definizione “Information disorder” è fra questi: analizziamola.
Il grande ombrello dell’Information disorder
Information disorder è una categoria coniata sia in ambito eurounitario che da molti studiosi dei nuovi media digitali. Questa nozione include, ma non sostituisce, quella già ampia di disinformation e sembra compiere lo sforzo sintetico di ricomprendere tutto ciò che sta rivoluzionando la comunicazione politica sulla Rete – spesso fornendo un’accezione ontologicamente negativa.
La base di partenza di queste brevi riflessioni può essere racchiusa in una differenza importante – a parere di chi scrive –: la differenza fra propaganda politica e libertà d’informazione.
La prima deve essere libera e in un quadro di regole precise e uguali per tutte le tecniche di targettizzazione dei messaggi politici, le sponsorizzazioni etc. possono addirittura aiutare l’incremento della partecipazione alla politica; al contrario le distorsioni che la seconda sta subendo per effetto delle trasformazioni mediali derivanti dall’avvento della Rete e delle piattaforme digitali è indubbiamente negativa.
Le notizie di cronaca, i fatti e gli eventi – i cardini della libertà d’informazione – erano la base su cui si innestava il dibattito politico, ossia la propaganda politica: valutare e analizzare la realtà è il cuore della politica e proporre – in base alla propria Weltanschauung – trasformazioni del reale è il fine ultimo degli attori politici. Ma se i fatti di partenza vengono meno a causa della disinformazione entriamo in regimi di post verità non dissimili da quello orwelliano tanto citato dai difensori oltranzisti del non intervento dello Stato (tacciato come “ministero della verità” a prescindere che possano intervenire nella lotta alle disinformazioni giudici e autorità indipendenti, per antonomasia soggetti terzi e imparziali). “L’Eurasia è sempre stata alleata dell’Oceania” può diventare reale anche senza bisogno di un ministero della verità.
Information disorder: prima definizione
La prima ragione per la creazione di questo termine è l’incessante uso che ne è stato fatto da parte dei politici che ne hanno tramutato il significato in un’accusa di propaganda verso coloro che li contestano, un espediente retorico per sminuire le critiche (cosa che si iniziava a evidenziare già un paio di anni fa). In tal senso è indiscutibile che il termine fake news abbia acquisito un significato nella società civile che può discostarsi dall’originale e tramutarsi in qualcosa di diverso ed è un dato appurato almeno negli Stati Uniti, ma ci si potrebbe domandare perché media e accademia dovrebbero accompagnare e legittimare questo fenomeno (rischiando di delegittimare anche i primi studi in materia e perdere ulteriore autorità).
D’altronde, non si è smesso di utilizzare il termine legittima difesa anche quando questa ha assunto nel dibattito pubblico un’interpretazione che poco azzeccava con l’istituto giuridico, tramutandosi in una specie di diritto a sparare e portare armi. In questo contesto non può non rilevarsi inoltre che la dizione “fake news” funzionava nel nostro ordinamento perché riprendeva la nozione di false notizie (di cui era traduzione letterale) prevista dall’articolo 656 del codice penale. Fake come falsa, inventata in tutto o in parte, ossia basata su fatti non avvenuti o gonfiati a tal punto da distorcerne il significato originale; news come notizia, ossia pezzo di cronaca che richiama quella categoria ben precisa giurisprudenziale del diritto di cronaca.
La dottrina italiana aveva ampiamente fatto uso di questa dizione inglese per esprimere un fenomeno che da una parte aveva radici nel mondo anglosassone ed era trasmigrato poi nel nostro sistema e dall’altro aveva una natura “nuova” in quanto inscindibilmente legato alla natura della Rete e delle piattaforme digitali. Ovviamente in questa accezione il termine fake news rientra in pieno nella definizione di disinformation, ma non pienamente in quello di misinformation che pone una differenza sul piano soggettivo.
Comprendere, tuttavia, se l’informazione falsa è diffusa in buona fede o mala fede è questione differente dall’individuazione della condotta e riguarda la punibilità della diffusione. Facciamo un esempio: il giornalista che – dopo accurato controllo delle fonti – trasmette una notizia di cronaca o un report investigativo che si rilevi errato diffonde comunque una fake news e non a caso è tenuto a correggere la notizia falsa che in buona fede ha diffuso (o dovrebbe in base all’art. 2 del codice deontologico). La notizia anche se in buona fede rimane falsa. Il giornalista non potrà però essere punito per avere diffamato un individuo, per esempio (scriminante).
Information disorder: seconda definizione
La seconda ragione alla base di questa nuova categoria è invece quella legata alla presenza di diversi fenomeni della Rete sicuramente complementari a quello della disinformazione: Claire Wardle nell’introduzione a un recente report uscito su First Draft scrive: “I siti web impostori, progettati per apparire come professionali, stanno pompando contenuti iper-partitici e fuorvianti. I “troll” postano su Instagram memes di indignazione e le click farms manipolano le sezioni di tendenza delle piattaforme dei social media e i loro sistemi di raccomandazione. All’estero, gli agenti stranieri si fingono americani (l’autrice guarda alla situazione USA, ndr) per coordinare le proteste della vita reale tra le diverse comunità, mentre la raccolta di massa di dati personali viene utilizzata per micro-targettizzare gli elettori con messaggi e pubblicità su misura”.
Oltre a questo, le comunità di cospiratori su 4chan e Reddit sono impegnate a cercare di ingannare i giornalisti per far coprire complotti o falsificazioni. Il termine “fake news” non inizia a coprire tutto questo. La maggior parte di questi contenuti non sono nemmeno falsi; sono spesso genuini, usati fuori contesto e usati come armi da persone che sanno che le falsità basate su un nocciolo di verità hanno più probabilità di essere credute e condivise.
E la maggior parte di questo non può essere descritta come “notizia”. Si tratta di buoni vecchi pettegolezzi, di meme, di video manipolati e di “pubblicità oscure” hyper-targeted e di vecchie foto rimesse in circolo come nuove” (traduzione mia). Ora se è vero che tutti questi fenomeni concorrono al caos del discorso pubblico sulle Internet platform, essi appartengono a fenomeni espressivi – perlomeno dal punto di vista del giurista – ontologicamente diversi.
Se i siti web falsi rientrano nel campo delle fake news e della disinformazione, i cospirazionisti che cercano di ingannare i giornalisti non vi rientrano, come non vi rientra la propaganda politica dei troll se non spacciano notizie, ma vi danno un’interpretazione falsa, e stessa cosa dicasi per i movimenti populisti, così non rientra in questo novero il targeting degli elettori, che riguarda le regole della propaganda elettorale.
È vero che questi fenomeni si stanno confondendo e sempre più acquisiscono dimensioni unitarie, tuttavia essi esprimono problemi circoscritti da istituti giuridici differenti e soprattutto già ora trovano definizioni differenti: propaganda online, targettizzazione, disinformazione.
Falsi media e propaganda politica
Più complicato, rimanendo nell’ambito della disinformazione, è distinguere le false notizie diffuse da finti media – probabilmente censurabili – dalla propaganda politica – non censurabile. Questo discrimen forse meriterebbe maggior attenzione rispetto alla querelle sollevata dal termine information disorder. Definire quando si sia in presenza di propaganda politica (che può usare anche frottole e sta al giornalismo stanarle) e quando di fake news, intese come contenuti spacciati per notizie giornalistiche (che potrebbe incontrare forme di censura), è forse la più complessa sfida definitoria da affrontare (complicata dalla trasformazione della Rete e dalla caduta della barriera fra produttori e consumatori di notizie). La trasformazione mediale e la fine dei gatekeepers potrebbe però necessitare di pensare nuove categorie giuridiche per affrontare la tematica.
Serve peraltro considerare guardando al Cv della Wardle come la stessa sia un’accademica di estrazione statunitense e, in tale prospettiva, sovviene un dato di cultura giuridica che non può essere ignorato: se in Europa la libertà di informazione – attività giornalistica in primis – è oggetto di una speciale e diversa forma di regolamentazione rispetto alla libertà d’espressione politica, occorre rilevare che questa distinzione non è presente nel sistema americano dove la Press Clause del Primo Emendamento è rimasta inesorabilmente schiacciata, o meglio assorbita, dalla Speech Clause nell’interpretazione datane dalla Corte Suprema.
Lotta alle fake news: i rischi
Le fake news sono un fenomeno complicato e multiforme: nessuno lo ha mai negato. Fin dall’esplosione del fenomeno è sempre stato chiaro che vi fossero varie categorie di fake news: oggigiorno la maggior sfida – oltre a quella definitoria – è l’uso del mix fra fatti veri e falsi o interpretazioni grossolane. In questo senso, se la manipolazione (come il taglio e cuci – c.d. manipulated content) e l’invenzione di eventi non accaduti sono inquadrabili nel novero delle notizie false, l’interpretazione di solito non lo è.
Se guardiamo alla categoria della c.d. misleading possiamo rilevare una serie di rischi relativi all’imposizione di un’interpretazione corretta di dati che possono avere più interpretazioni. Non si può dare una patente di verità a un’interpretazione (e.g. l’immigrazione aumenta per colpa delle politiche del governo o no). Tuttavia se invece la manipolazione si estrinseca nell’alterare i dati (e.g. aumentare i dati degli sbarchi, usando quelli di 3 anni prima) possiamo essere in presenza di un’alterazione dei fatti inquadrabile probabilmente come fake news.
In quest’ultima categoria ricade anche la tecnica del c.d. false context. Prendiamo il caso della diffusione della foto della ex ministra Maria Elena Boschi a un funerale spacciata per la partecipazione al funerale di Toto Riina: è evidente che il false context è solo un altro tipo di fake news perché crea un fatto mai avvenuto. In tal senso, si può anche ricordare un altro episodio: quando sui siti anti-islamici girò la foto di una ragazza con il velo che sembrava ignorare un ferito in un attentato, mentre in realtà stava telefonando a un suo caro per trovare conforto.
Questo caso è perfetto perché è evidente come la chiamata – certificata e il comportamento della ragazza testimoniato dai presenti – rispondesse ad una situazione fattuale differente (nella riproposizione dei siti di estrema destra siamo in presenza dunque di una falsa notizia); tuttavia qualora fossero mancati i fatti (niente telefonata, niente testimoni) si sarebbe ricaduti nell’interpretazione (non abbiamo fatti, ognuno dice ciò che crede probabile anche se spregevole e odioso: e.g. ha ignorato il ferito per indifferenza o odio o perché era in preda al panico).
Quello che invece colpisce maggiormente nella ricostruzione fatta da Claire Wardle è l’inserimento della satira fra le ipotesi di disinformazione e di cui sembra paradossale ancora discutere. È vero che anche nel nostro ordinamento la satira può essere portatrice di fake news come riconosciuto nella giurisprudenza di merito e legittimità che sostiene che la satira debba sempre avere radici nella verità fattuale quando prende di mira un individuo, perlomeno, e se ha fini informativi. Tuttavia, è evidente che se un sito si autodenuncia come satirico difficilmente può essere ritenuto diffusore di fake news.
Il concetto di malinformation
Infine, una critica può essere fatta anche all’inserimento del concetto di malinformation nel novero degli aspetti deleteri della Rete. Appare, infatti, paradossale l’inserimento della categoria della c.d. malinformation, ossia la diffusione di informazioni vere pubblicate per danneggiare, nel novero dell’information disorder. È infatti una categoria che porta alla mente l’affaire Snowden o quello Wikileaks per quanto riguarda l’Internet, e prima anche il caso Watergate per quanto riguarda il giornalismo investigativo classico. Anche queste rilevazioni di informazioni vere e “scoperte” furono “dannose” per qualcuno. Spesso, infatti, i giornalisti hanno disvelato ciò che il potere voleva tenere celato e questo appare uno dei compiti più delicati e importanti del giornalismo come cane da guardia della democrazia: come si può ritenerlo parte dell’information disorder associandolo a fenomeni deleteri per il discorso pubblico?
Allora gli attacchi alla satira e la creazione di questa categoria di malinformation (e gli esempi usati) associata a quella della disinformation non possono che sollevare dubbi sul fine ultimo di queste equiparazioni: la lotta alle fake news e alla disinformazione è necessaria per tutelare il discorso pubblico non per far vincere una parte politica (i non populisti) sull’altra. Fortunatamente, la prima via appare quella intrapresa dall’UE che, con il Code of practice on disinformation, identifica la disinformazione come una categoria che «non comprende la pubblicità ingannevole, gli errori di segnalazione, la satira e la parodia, o notizie e commenti partitici chiaramente identificati, e non pregiudica gli obblighi legali vigenti, i codici di autoregolamentazione della pubblicità e le norme relative alla pubblicità ingannevole» (trad. mia).
Nell’ambito dell’identificazione delle varie forme di disinformazione ha dunque senso cercare di categorizzare come possono determinarsi i contenuti falsi online: creati ex novo, attraverso il contesto, tramite taglia e cuci etc., appare però necessaria una caratteristica comune perché siano inquadrati come fake news, ossia devono alterare i fatti accertati o millantare l’avvenimento di fatti mai avvenuti. E nel fare ciò, la disinformazione va nettamente distinta dalla propaganda politica, dalla satira e dal giornalismo di inchiesta.