Durante il più recente intervento armato nella Striscia di Gaza dello scorso maggio da parte delle forze armate israeliane, una delle più evidenti tattiche utilizzate dall’aviazione di Tel Aviv, tanto da divenire non a caso emblematica del conflitto, è consistita nell’abbattimento programmato degli edifici più iconici della Città di Gaza, in particolare delle sedi di importanti aziende nel settore dei media.
Tale strategia si inscrive perfettamente nella prospettiva di un’information war[1] tesa alla distruzione delle risorse narrative dell’avversario, sia da un punto di vista “hardware”, mediante l’abbattimento fisico delle strutture tecniche e umane di produzione di storie, sia dal punto di vista “software”, tramite l’intimidazione dell’avversario e l’occupazione semantica del campo di battaglia.
Guerra israelo-palestinese, le fake news social infiammano le parti
Come riportato da Hazboun, Maoz e Blondheim (2019), a Gaza si concentra la quasi totalità di centrali di produzione di contenuti affiliate ad Hamas, tutte colpite durante gli attacchi. Tuttavia, nel mirino, oltre che le sedi dei network internazionali di Al Jazeera e AP, ci sono anche le poche content factories indipendenti palestinesi, non associate a fazioni militanti.
Se guardiamo al territorio teatro del conflitto dalla prospettiva di una geografia dei media, quindi, è intuitivo rilevare come la distruzione delle principali centrali di produzione di narrazioni e dei sistemi di trasmissione abbia mediaticamente ottenuto il risultato di costringere l’avversario a fare affidamento quasi esclusivamente sui supporti individuali e portatili degli smartphone in dotazione ai propri singoli storyteller sul campo, utilizzando le piattaforme di Instagram/Facebook, Twitter, Whatsapp e Telegram come unici canali di trasmissione. In termini tattici, dunque, potremmo dire che l’azione israeliana abbia costretto l’esercito avversario a muoversi su un terreno sfavorevole.
Information war: cosa è successo nella città di Gaza a Maggio 2021
Sono circa le 18:45 dell’11 maggio 2021, quando i residenti della Hanadi Tower e degli edifici adiacenti, nel cuore del quartiere Rimal di Gaza, considerato uno dei più ricchi quartieri residenziali della città, ricevono diverse telefonate e messaggi sui propri cellulari da parte di un account accreditato alle forze aeree israeliane, con cui vengono preallertati del fatto che, da lì a due ore, l’edificio sarebbe stato raso al suolo.
L’offensiva israeliana è iniziata da qualche giorno, in seguito agli scontri avvenuti nei pressi della moschea di Al-Aqsa, a Gerusalemme. Un’ora e trenta minuti più tardi, alle 19:50 circa, venti minuti prima dell’attacco programmato, coloro che sono ancora all’interno, indaffarati a caricare negli zaini e nelle valigie gli oggetti di valore, sentono nitidamente il fischio di alcuni razzi in arrivo e l’impatto di oggetti di grosse dimensioni che scuotono i muri esterni del palazzo, cui non segue, però, alcuna esplosione. Sono razzi di avvertimento lanciati dai droni israeliani.
Dieci minuti più tardi gli inquilini sono evacuati e si trovano all’esterno degli edifici. Dai tetti di altri edifici più lontani o dalla strada, a distanza di sicurezza, molti di loro puntano le fotocamere dei propri smartphone in direzione della torre.
Puntualmente, all’orario convenuto, le 20:10, da altri droni e da F16 in operazione di sorvolo su Gaza, vengono sganciati altri razzi, questa volta con testata innescata, che colpiscono l’edificio alla base. La grande costruzione collassa su sé stessa, praticamente in mondovisione.
Dagli account di Instagram, Tiktok e Twitter, attraverso migliaia di gruppi Telegram e Whatsapp, la sequenza di bit viene ritrasmessa sui network televisivi, narrata alla radio, stampata sui quotidiani. È solo il primo degli spettacolari abbattimenti di edifici iconici di Gaza che verranno eseguiti dall’aviazione israeliana, preceduti da un provvidenziale preallarme.
La stessa sera dell’11 maggio, poco dopo il tramonto, toccherà alla Al-Jawhara Tower, su Jalaa Street, sede di pochi appartamenti residenziali, varie aziende di media e case di produzione audiovisiva. Lo stesso giorno, nel pomeriggio, viene colpita la Shorouq Tower, sede, fra le altre, del canale satellitare Al-Aqsa, gestito direttamente da Hamas.
Il 15 maggio a cadere è la Al Jalaa Tower, un altro degli edifici più conosciuti di Gaza. Al suo interno, fra le altre aziende e agenzie stampa internazionali, hanno sede gli uffici di Al Jazeera e della Associated Press. È sicuramente l’abbattimento più spettacolare. I cameramen e i giornalisti dei network internazionali hanno tutto il tempo di scegliere il posto migliore per le riprese. Perfettamente in orario, sugli schermi di tutto il mondo va in scena, restando impressa per sempre sulla pellicola della società globale digitale interconnessa, la sequenza del palazzo bianco e azzurro di undici piani nel centro di Gaza che collassa su sé stesso con precisione ingegneristica infinite volte, come una gif di Whatsapp.
L’ultimo grande edificio abbattuto è lo stabile Al-Awqaf[2], anch’esso sede di varie case di produzione audiovisiva[3]. Le azioni sembrano tutte mirate alla salvaguardia delle vite dei civili. Eppure, il 19 maggio, poco prima che venga dichiarato un provvisorio “cessate il fuoco”, a essere colpita, senza alcun preavviso, sarà l’abitazione di Yusef Abu Hussein, giornalista e speaker dell’emittente radiofonica Al-Aqsa, scampato qualche giorno prima all’attacco alla torre Al-Shorouk.
Il conflitto nelle narrazioni e il Digital Militarism israeliano
Una volta approdato sui social, il conflitto di narrazioni incappa immediatamente in tre fattori correlati al mezzo, che potremmo definire ambientali:
a) una polarizzazione estremamente marcata, per cui la semplice appartenenza ideologica funge da fattore di delegittimazione di qualunque messaggio favorevole alla controparte;
b) il cosiddetto fenomeno delle echo chambers (Quattrociocchi, 2016), che limita la possibilità di accesso a contenuti provenienti da sfere differenti e non riconosciute come prossime dalla profilazione dell’utente;
c) l’azione degli algoritmi di gestione degli hashtag, in grado di fungere da vero e proprio criterio di selezione dell’agenda setting del medium. In altre parole, l’abbattimento delle torri di Gaza, ottiene il risultato di costringere la narrazione palestinese all’interno di una sacca dalla quale difficilmente sarebbe stata in grado di evadere, almeno prima della fine dell’intervento armato.
Tuttavia, la fazione palestinese cerca di reagire prevalentemente attraverso le piattaforme di Twitter e Telegram, personalizzando il conflitto mediante gli avatar di alcuni personaggi non direttamente riconducibili al ruolo di miliziano armato e, di conseguenza, più in grado di sfuggire ai meccanismi di polarizzazione e di controllo degli algoritmi.
Il diario quotidiano della giovane insegnante Eman Basher[4], asserragliata in casa sotto i bombardamenti insieme al marito e ai suoi due bambini, finisce sui principali media e notiziari statunitensi e internazionali, grazie all’interessamento della deputata del Michigan Rashida Tlaib, figlia di emigranti palestinesi, che legge pubblicamente nell’aula del Congresso alcuni brani tratti dal profilo Twitter dalla donna[5]. I fratelli Mohammed e Muna El-Kurd vengono intervistati su vari network internazionali per il loro ruolo di storyteller e influencer impegnati contro la discriminazione nei confronti degli abitanti palestinesi, il sequestro delle loro abitazioni e la loro riassegnazione ai coloni israeliani nel quartiere di Sheikh Jarrah, a Gerusalemme Est.
Tuttavia, in una information war, la sola azione di disturbo delle narrazioni, da un lato non scalfisce il muro eretto nei confronti della propria popolazione da parte di Israele, dall’altra non può competere con la capacità militare di quest’ultima di accompagnare il controllo del racconto della guerra anche con azioni militari più dirette e, potremmo dire, determinanti. D’altra parte, la strategia di controllo e difesa delle narrazioni favorevoli sui social, accompagnata al disturbo e all’attacco nei confronti di quelle ostili da parte dei comandi militari israeliani, è al centro dello studio di Kuntsman e Stein (2015) sul Digital Militarism israeliano, una sorta di ibridazione ideologica fra nazionalismo, militarismo, individualismo e nuove estetiche dei media.
Il dominio sul campo di battaglia informativo dell’information war, da parte israeliana, è soverchiante, al punto da risultare in grado di sfruttare i network internazionali contro i miliziani di Hamas anche in occasione della presunta fuga di notizie sull’intervento di terra in corso da parte delle truppe di Tel Aviv, nella notte fra il 13 e il 14 maggio, (falsa informazione, questa, veicolata dai vertici militari israeliani stessi e diffusa viralmente dai media, che avrebbe spinto le truppe di Hamas a rifugiarsi nei bunker, successivamente pesantemente bombardati da parte dell’aviazione ebraica)[6].
Information war: l’importanza simbolica dell’abbattimento delle torri
Il topos della torre, abbinato al relativo abbattimento, rappresenta un’unità culturale dalle connotazioni estremamente profonde. La torre, nello specifico, rappresenta l’incarnazione architettonica del principio foucaultiano (alla base della metafora del “Panopticon” di Bentham), secondo cui “vedere equivale a potere” (Foucault, 1976).
La stessa storia dei conflitti armati negli ultimi trent’anni, almeno nella propria dimensione narrativa, è stata cadenzata da particolari coaguli di significati in prossimità di una torre, trasformata da elemento architettonico in icona bellica.
È in una torre, al nono piano dell’Hotel Al-Rashid di Baghdad durante la Guerra del Golfo, che la storia della televisione come mezzo di narrazione della guerra raggiunge il suo climax nel 1991, quando i corrispondenti della CNN, Peter Arnett, Bernard Shaw, John Holliman e Charles Jaco, si barricano nella loro stanza, raccontando i bombardamenti sulla città irachena da parte delle forze aeree della coalizione a guida statunitense, servendosi di una piccola antenna satellitare (De Angelis, 2014).
Nel 1999, tre torri diventano protagoniste della campagna di bombardamenti sulla Serbia da parte della Nato per il controllo del Kosovo. Il palazzo Ušće, sede del Governo e del Partito Socialista Jugoslavo, nonché sede dell’ufficio di propaganda di Milosevic, colpito da dodici missili tomahawk il 21 aprile 1999 e rimasto in piedi[7]; il palazzo sede della televisione di Stato serba RTS, nonché di numerose altre consociate radiotelevisive legate al regime, colpito da un solo missile, forse destinato al Ministro dell’Informazione serbo Aleksander Vucic[8], nella notte del 26 aprile, che causerà il parziale crollo dell’edificio e la morte di sedici impiegati e giornalisti asserragliatisi all’interno e, forse, usati come scudi umani[9]; infine il grattacielo Beogradjanka, assaltato più volte dalle forze di regime, sede delle emittenti giornalistiche e radio tv dissidenti Studio B[10], Blinc, Index e, soprattutto, di Radio B92, quest’ultima oscurata dal regime mediante jamming delle frequenze, successivamente migrata sul web grazie all’appoggio del provider olandese XS4ALL, ritrasmessa sull’etere dalla BBC, divenuta così la prima web radio della storia in tempo di guerra[11].
Nel 2001, saranno le Torri Gemelle di New York a segnare un punto di svolta nella nuova narrazione globale, il punto culminante dell’era analogica che si interseca con la nuova era digitale e che ritrasmette, non più nel flusso estemporaneo dello streaming televisivo, ma nell’immanenza reiterata di YouTube, i corpi in caduta libera lungo le pareti in fiamme, un attimo prima che si infrangano sugli schermi di una nuova epoca, spostando definitivamente il confine fra scena e osceno nella nostra percezione del mondo. D’altra parte è proprio la sequenza del crollo delle Twin Towers, con la sua reiterata e inesorabile precisione, ad aprire una cicatrice nell’immaginario collettivo che non può non ravvisarsi nella plastica sequenza dell’abbattimento controllato degli edifici di Gaza.
L’8 aprile 2003, a sua volta, sarà il quindicesimo piano dell’Hotel Palestine a Baghdad, sede della stampa internazionale durante il secondo conflitto del Golfo, a essere colpito da un colpo di artiglieria sparato dall’esercito americano. Fra le macerie resteranno i corpi di numerosi feriti e di due vittime, i reporter Taras Protsyuk and José Couso, rispettivamente accreditati da Reuters e Telecinco. Non sono gli unici della giornata. Poche ore prima, nel bombardamento dell’edificio sede del canale satellitare Al Jazeera, era stato ucciso il reporter Tariq Ayoub. Non sono casi isolati e non coinvolgono solo le forze della coalizione occidentale. Il ruolo del giornalista indipendente, accreditato presso un network internazionale che ne garantisce una sorta di aura di terzietà nella narrazione, con l’avvento del citizen journalism sarà percepito sempre più come una figura ostile nei confronti di qualunque fazione del conflitto ed estromesso dal racconto, il più delle volte con l’eliminazione fisica di alcuni di essi.
Tanto più l’information war si rivolge sulla difesa, sul controllo e sulla distruzione delle risorse narrative in campo, tanto più ogni centrale di produzione di verità – sia essa un singolo giornalista o una content factory – diventa aggredibile.
Il fenomeno della polarizzazione, processo evidente e abbondantemente studiato nel campo dei media digitali (Quattrociocchi, 2016), nei contesti di information war assume dinamiche che tracimano la violenza simbolica e si tramutano in violenza fisica: l’elemento terzo, neutrale, critico e super partes viene equiparato a una risorsa nemica da tutti i contendenti.
A subire tale processo in modo particolare è il discorso giornalistico, inteso come narrazione indipendente e imparziale dei fatti: in una information war non esistono fatti, ma solo interpretazioni; la verità è una risorsa scarsa e, come nell’adagio di Churchill, deve essere protetta da un corpo di guardia di bugie. Per tale motivo, l’obiettivo strategico da parte di tutti i contendenti è di accaparrare quante più risorse narrative possibile, allo stesso tempo distruggendo quelle dell’avversario, nella consapevolezza che, alla fine, come in ogni guerra, a vincere sarà l’esercito che resterà da solo in piedi a dominare il campo di battaglia.
Information war: il roof knocking e le altre tattiche di Israele
Lo stato di militarizzazione dei territori digitali al confluire tra spazio simbolico e materiale – il cyberspazio – mediante mezzi militari convenzionali e strumenti non convenzionali utilizzati militarmente, è stato definito hybrid warfare (Nemeth, 2002). La sua dimensione più insidiosa e non facilmente identificabile – poiché molte volte combattuta da truppe senza uniformi con armi simboliche – è l’information warfare o information war, espressione coniata da Libicki (1995) e divenuta emblematica per dare conto della mutazione di pratiche e di utilizzi avvenuta nel campo della comunicazione in e di guerra negli ultimi trent’anni, tanto da sostituire quella più tradizionale di propaganda di guerra. D’altra parte, la stessa espressione hybrid warfare, ripresa nel 2005 da un articolo di Mattis e Hoofman, è divenuta una delle più fortunate espressioni impiegate per descrivere il conflitto dei 34 giorni fra Israele e Hezbollah dell’estate del 2006.
Con la sostanziale sconfitta (Harel, Issacharoff, 2008) delle forze armate israeliane, vittoriose sul campo di battaglia fisico, ma perdenti su quello virtuale del racconto, ad analisti, vertici militari e politici era divenuto inequivocabilmente chiaro che, grazie ai media digitali, il dominio sul campo di battaglia della narrazione fosse ormai assurto a un ruolo tale da essere in grado di colmare, da solo, il gap tecnologico fra gli armamenti convenzionali in dotazione ai contendenti in un conflitto asimmetrico.
L’esperienza del 2006 aveva costretto i vertici politici e militari israeliani a un ripensamento strategico – e non più solo tecnologico – nell’aggiornamento delle proprie forze militari, condotto negli anni successivi anche in ragione di un sempre più marcato fenomeno di disintermediazione nel rapporto tra narratori politici, militari e civili e racconto. Tra le varie tattiche, sicuramente, quella di limitare al massimo l’esposizione delle vittime civili dinanzi alla rappresentazione mediatica, nello stesso tempo attribuendo la responsabilità di un’eventuale ostentazione delle vittime di guerra all’avversario.
In particolare, la pratica del preallarme nei confronti della popolazione, soprannominata roof knocking (hakesh bagag in ebraico), consiste nel contattare telefonicamente i civili residenti nelle zone bersaglio e colpire gli obiettivi con cariche prive di esplosivo, prima di procedere al bombardamento vero e proprio[12].
Introdotto nel 2008, il roof knocking è concepito per minimizzare le perdite collaterali in zone ad alta densità abitativa. Tuttavia esso, implicitamente, ottiene anche il fine tattico di fungere da contromossa alla strategia mediatica dei gruppi armati palestinesi, quella di schierare armi e centri di comando e controllo nei pressi di edifici particolarmente iconici e popolosi, al fine di attirare il fuoco nemico e di utilizzare successivamente le immagini di distruzione e morte causate dall’aviazione israeliana per ottenere un vantaggio mediatico, attraverso le riprese dei corpi di civili, molte volte quelli di bambini, dilaniati dai crolli, immesse sui social e sul circuito mediatico internazionale. Tale tattica mediatica era stata già protagonista della disastrosa esperienza dell’intervento militare israeliano in Libano nel 2006, in occasione del quale il bombardamento di interi edifici contenenti centinaia di civili, soprattutto nel cuore della notte, da parte dell’aviazione di Tel Aviv, aveva fornito a Hezbollah l’occasione per una campagna mediatica devastante nei confronti dello Stato ebraico, suscitando la condanna e il biasimo internazionali, approdando, così, infine, alla risoluzione n. 1701 del 2006 da parte delle Nazioni Unite, con la quale veniva intimato allo Stato di Israele il “cessate il fuoco”.
Il bombardamento degli edifici di Gaza mediante il roof knocking durante lo scorso maggio, soprattutto di quelli sormontati da ripetitori radio televisivi, generatori di corrente autonomi e sedi di imprese nel settore dei media e dell’informazione, quindi, non era un evento inedito. L’edificio Al-Jawhara era stato già colpito nel 2008, proprio con la tecnica del roof knocking. A quel tempo era già sede di varie agenzie di stampa internazionali, nonché del network iraniano Al Alam. La stessa Shorouq Tower era stata obiettivo di bombardamenti nel 2008, nel giugno 2014 e nel novembre 2018. In particolare, nel 2014, l’edificio ospitava gli uffici, tra gli altri, dei canali satellitari Al Arabia e Sky News[13].
Tuttavia, la differenza rispetto all’intervento del maggio 2021, come riportato da vari network internazionali, è sostanzialmente costituita dall’intensità e dalla spettacolarità degli attacchi, concentrati questa volta non tanto sulla valenza materiale del danno causato, quanto su quella simbolica, rappresentata dalla completa e chirurgica demolizione degli edifici scelti come obiettivo. Potremmo dire che, mentre negli interventi precedenti, l’azione di bombardamento nei confronti delle torri fosse tesa all’inibizione della loro funzione di antenna, generando, potremo dire, poca narrazione, in questo caso, il completo abbattimento al suolo degli edifici simbolici di Gaza, pur superfluo dal punto di vista dell’ottenimento materiale di un vantaggio tattico, viene orchestrato in maniera tale da esaltarne il racconto e amplificarlo, sfruttando, a tal fine, la stessa capacità trasmissiva della Rete palestinese e internazionale.
D’altra parte, dal punto di vista dell’information war, è il conflitto stesso a essere combattuto contemporaneamente sul campo di battaglia dei media digitali, utilizzando le immagini come ordigni. Gli stessi lanci dei razzi Qassam ad opera dei miliziani di Hamas, partiti dai territori occupati verso le città israeliane, il più delle volte sono stati l’occasione per una spettacolare dimostrazione pirotecnica in cui gli obsoleti razzi artigianali fabbricati a basso costo dai miliziani palestinesi, venivano intercettati in volo dagli avveniristici proiettili del sistema di difesa israeliano Iron Dome. Uno show nel quale i danni materiali e umani effettivamente causati dagli ordigni lanciati da Hamas hanno rappresentato solo un drammatico messaggio collaterale, un elemento bellico strategicamente irrilevante se rapportato agli effetti delle immagini delle centinaia di scie luminose e delle esplosioni nel cielo notturno visualizzate da miliardi di utenti sulla Rete. Potremmo quasi dire, infatti, da un punto di vista mediatico, che nell’impossibilità di aggredire le alte mura materiali della fortezza di Israele, i gruppi armati palestinesi abbiano cercato di abbattere i bastioni della sua città immateriale, bombardando con ordigni di bit le forze armate trincerate dietro le proprie difese elettroniche e simboliche.
Information war: la lotta tra pixel e missili per il dominio su le “città bianche”
Se, tuttavia, i proiettili sono composti da narrazioni, è necessario proprio decodificare, sia a livello superficiale che profondo, tali strutture e schemi narrativi, al fine di analizzarne gli effetti. Dovrebbe essere questo, in particolare, il fine di una teoria delle information war, che parta da una prospettiva post-strutturalista e semiotica, al fine di poter costruire dei modelli di interpretazione dei messaggi utilizzati come armi.
La finalità della creazione di strumenti di individuazione e difesa da messaggi ostili, oltre ad avere ovvi riscontri nei programmi di difesa, si pone anche come strumento di peace building laddove vi siano conflitti conclamati, oltre a costituire uno strumento di preallarme al servizio della società civile in tempo di pace.
D’altra parte, la disinformazione, manifestazione più deflagrante delle information war, attualmente rappresenta la più grande sfida storica delle democrazie occidentali, poste dinanzi al compito di riuscire a individuare strumenti di difesa adeguati senza per questo snaturare o rinunciare ai tratti più importanti della propria identità.
C. G. Jung, nel corso della sua analisi sul simbolismo onirico, sosteneva che tutte le città che appaiono in sogno sono Gerusalemme, poiché Gerusalemme rappresenta, nell’inconscio collettivo, il punto di incontro fra la città celeste e la città terrena (Jung, 1980).
In effetti, dal punto di vista degli studi strategici sulle information war nell’era digitale, al confluire tra i territori abitati simbolici e quelli materiali della contemporaneità, pochi scenari meglio di quello israelo-palestinese si prestano all’osservazione di alcune delle dinamiche più interessanti e tipiche dei conflitti armati di inizio millennio:
- un conflitto permanente e quasi sistemico, nel quale una soverchiante superiorità tecnologica dei sistemi d’arma disponibili convive con strumenti bellici obsoleti e mezzi di comunicazione all’avanguardia.
- Un territorio di conflitto nel quale le diverse dimensioni della metropoli – elettronica, industriale e preindustriale – si con-fondono, sovrapponendosi.
- Un progressivo fenomeno di ipermediatizzazione del conflitto, contrapposto a una sempre più sanguinaria e distruttiva spettacolarizzazione della violenza, sia nei confronti dei corpi che del territorio fisico, perpetrata in maniera molto spesso deregolamentata e voyeristica. In altre parole, un progressivo allargamento dello spazio della rappresentazione scenica del conflitto stesso, dovuto alla gradualmente sempre più pervasiva disponibilità dei mezzi di ripresa, manipolazione, trasmissione e ricezione delle immagini, che corrisponde nello stesso tempo a un progressivo restringimento dei confini dell’osceno.
- Una sempre più radicale e dicotomica polarizzazione ideologica dei narratori coinvolti.
- Un conflitto nel quale negli ultimi dieci anni la realtà talvolta è parsa subordinata al racconto, nel quale la distruzione delle risorse narrative dell’avversario è coincisa con il sabotaggio, l’annichilimento e la difesa della propria capacità di costruire la realtà;
- Un conflitto, in ultima analisi, prigioniero della propria dimensione ideologica polarizzata e, quindi, incapace di giungere a una risoluzione.
Lo spazio del conflitto diviene così la rete di nodi nella quale le informazioni, sia quelle prodotte dai singoli utenti, sia quelle confezionate dalle centrali di produzione di contenuti, viaggiano attraversando lo spazio dei social fino a giungere a ogni singolo utente mediante il piccolo schermo del proprio smartphone o del proprio televisore. I contenuti veicolati e ritrasmessi da tali centrali sono presi molto spesso dall’enorme mole di materiale grezzo disponibile nelle varie bolle della Rete, sia da quelle aperte, come Twitter e Instagram, sia da quelle chiuse, come Whatsapp e Telegram.
Ad alimentare i serbatoi di materiale simbolico sono, naturalmente, soprattutto le forze armate sul campo, mediante i bombardamenti aerei, l’azione delle truppe a terra e i lanci di ordigni dai territori occupati. Tale materiale viene poi dotato di una struttura narrativa e di un plot, divenendo una storia, diversa a seconda del differente schema adottato. È così che lo spettacolare scontro fra i razzi Qassam e i missili del sistema di difesa Iron Dome può divenire contemporaneamente, nell’information war, la rappresentazione di due storie diametralmente opposte fra di loro: dello spirito di resistenza israeliano dinanzi alla barbarie araba da una parte; del coraggio disperato dei palestinesi contro l’occupante sionista dall’altra.
La città, in tale contesto di eterno conflitto fra discorsi/ideologie, per loro stessa natura incapaci di morire, assume il ruolo di scenografia simbolica. La “città bianca” è l’espressione che vorremmo utilizzare per rendere tale rapporto fra città e guerra e concludere questa breve disamina di una guerra ibrida che non accenna a giungere a termine. “Città bianca” è uno degli appellativi di Gerusalemme. “Città bianca” è anche il soprannome con il quale numerosi siti e blog di tour operator soprannominano Tel Aviv, la città fondata dallo Stato di Israele, simbolo dell’occupazione dei territori palestinesi. “Città bianca” potremmo anche chiamare Gaza, ricoperta dalla polvere dei suoi edifici abbattuti oggi e un tempo colpiti dai devastanti ordigni al fosforo bianco, sulla cui tela si imprimono i colori del racconto del dio della guerra. Ed è proprio per il dominio su quelle città bianche – fantasmagoriche, simboliche – che il conflitto si svolge, conquistando o abbattendo edifici di pixel e di sangue.
Note
- “Information warfare”: conflitto tra due o più Stati nello spazio dell’informazione con l’obiettivo di infliggere danni a sistemi, processi e risorse dell’informazione, così come a strutture criticamente importanti e ad altre strutture; minare i sistemi politici, economici e sociali; realizzare campagne psicologiche di massa contro la popolazione di uno Stato per destabilizzare la società e il governo; così come costringere uno Stato a prendere decisioni nell’interesse dei propri avversari. https://www.mid.ru/en/foreign_policy/official_documents/-/asset_publisher/CptICkB6BZ29/content/id/191666 ↑
- https://www.aljazeera.com/news/2021/5/19/what-is-behind-israels-targeting-of-prominent-buildings-in-gaza ↑
- https://www.aljazeera.com/news/2021/5/19/what-is-behind-israels-targeting-of-prominent-buildings-in-gaza ↑
- https://twitter.com/sometimespooh ↑
- https://www.vice.com/en/article/n7bzaz/eman-basher-palestine-gaza-essay ↑
- https://www.ilpost.it/2021/05/15/israele-giornalisti-stranieri/ ↑
- http://edition.cnn.com/WORLD/europe/9904/21/kosovo.01/index.html ↑
- https://www.independent.co.uk/news/media/media-taken-in-by-the-nato-line-1103162.html ↑
- https://www.vreme.com/cms/view.php?id=1070972 ↑
- https://www.liberation.fr/planete/2000/05/18/milosevic-reduit-l-opposition-au-silence-studio-b-l-unique-tele-independante-est-passe-sous-le-contr_326325/ ↑
- https://www.refworld.org/docid/47c5660c2.html ↑
- http://www.hscentre.org/uncategorized/the-use-of-civilian-buildings-for-military-purposes-and-the-practice-of-roof-knocking/ ↑
- https://www.timesofisrael.com/liveblog_entry/hamas-run-tv-station-hit-in-gaza-city/ ↑
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