La necessità di innovare la PA tramite la formazione del personale era stata più volte segnalata – anche dalle istituzioni europee – ancor prima della pandemia. Ne consegue che l’implementazione del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza è un’importante opportunità per il nostro Paese di valorizzare le competenze specialistiche già presenti nella PA e di individuare le figure e competenze indispensabili per raggiungere i risultati obiettivo.
Sulla necessità di formare la PA, in particolare gli enti locali, al digitale è arrivato un recente studio Bankitalia, mentre com’è noto è partito il piano Brunetta (ministro alla PA) sulla formazione, il cui impatto è ancora da valutare.
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Aggiornare e riqualificare le competenze dei dipendenti pubblici: lo stato dell’arte
Ciò che è certa è la necessità di focalizzare l’attenzione sulla necessità di aggiornare e riqualificare le competenze del personale impiegato nella PA e di reperire ulteriori professionisti da impegnare nell’attuazione del PNRR, come avvenuto nel mese di dicembre con la selezione dei 1000 esperti necessari ad accompagnare le amministrazioni territoriali nelle semplificazioni indicate dal PNRR.
Il Piano italiano, così come comunicato più volte dal Ministro Brunetta nel suo mandato, non ultima la conferenza stampa del 10 gennaio 2022, ha obiettivi molteplici e articolati ma soprattutto la necessità di impegnare e spendere circa 1 miliardo di euro. È comprensibile la preoccupazione del Ministro di implementare il Piano, anche in riferimento alla capacità delle pubbliche amministrazioni di riuscire a impiegare le risorse europee.
Un altro elemento di criticità sono i numeri dell’accesso alla formazione da parte delle amministrazioni pubbliche e dei suoi dipendenti: gli ultimi dati della Ragioneria generale dello Stato riferiti al 2019 dicono che le PA hanno speso complessivamente 163,7 milioni di euro. Parliamo di circa 50 euro per dipendente, risorse che consentono di offrire in media un solo giorno di formazione l’anno a persona, che scende addirittura a mezza giornata l’anno per ogni dipendente dei ministeri, tre ore l’anno nella scuola.
La “quantità” di formazione si abbina però anche alla “qualità”: in base ai dati ISTAT queste poche ore di formazione vengono destinate a corsi sulle competenze tecnico-specialistiche (45,2%) e giuridico-normative (30,9%), corsi nei quali si ricorre prevalentemente a metodologie di formazione tradizionale.
A questi dati vanno aggiunti quelli sul livello di istruzione: solo 4 dipendenti su 10 hanno la laurea e circa un impiegato pubblico su cinque non possiede nemmeno una formazione informatica elementare. Il dato positivo è che il numero dei laureati nella PA è salito a 1,3 milioni nel 2018, +42% rispetto a 15 anni prima.
Alla preoccupazione per la capacità di utilizzo delle risorse dovrebbe però unirsi la tensione ad assicurare una formazione di qualità realmente rispondente alle necessità delle amministrazioni e del suo personale.
Quale approccio alla formazione: global o local?
È una questione quindi di quantità o di qualità della formazione? Potrebbe però anche trattarsi di una disputa tra approccio global e approccio local.
Oltre ad assicurare la capacità spesa, tramite il ricorso a fornitori esterni quali università e grandi aziende, bisognerebbe riportare all’interno della PA il presidio dei processi di apprendimento, sviluppando una specifica capacità amministrativa. La continua delega a società di consulenza, università ed enti di vario tipo se, da un lato, consente l’erogazione della formazione e il raggiungimento di grandi numeri, assicurando la capacità di spesa della PA, dall’altro, esternalizza la definizione del fabbisogno di formazione, la progettazione di piani formativi e la loro implementazione. Tramite questa “esternalizzazione” non si capitalizza esperienza e competenza e ci si affida all’esterno, usufruendo di programmi standardizzati e generali, che non sono quindi progettati e customizzati sulle esigenze specifiche delle varie tipologie di organizzazioni pubbliche e sui fabbisogni di conoscenze e competenze correlati ai servizi per cittadini e imprese. Le strategie, le attività e i servizi delle amministrazioni sono la base per definire il fabbisogno formativo e costruire il piano di formazione. Inoltre, le specificità territoriali e organizzative indicano ulteriori informazioni per la progettazione dei percorsi di formazione.
Siamo quindi di fronte a una sorta di conflitto tra global e local, molto in voga alcuni anni fa. Da un lato la potenza di fuoco delle grandi organizzazioni e delle università, in grado di gestire grandi volumi di ore, attività e destinatari. Dall’altro la necessità di rilevare fabbisogni “locali” e sviluppare piani e progetti di formazione customizzati sulle esigenze specifiche di territori, organizzazioni e destinatari. Focalizzarsi su una formazione local significa assicurare piani, progetti e corsi tarati sulle esigenze delle varie PA, dai ministeri agli enti locali, dagli enti pubblici alle società in house, rilevando i fabbisogni formativi e progettando attività ad hoc.
Probabilmente una integrazione di approcci global e local è la soluzione che può assicurare la capacità di spesa e contemporaneamente la soddisfazione di bisogni “locali”.
Il Syllabus “Competenze digitali per la PA”
Un esempio di azione “glocal” è quanto realizzato dal Dipartimento della Funzione Pubblica con il Syllabus “Competenze digitali per la PA”, il framework che descrive l’insieme minimo delle conoscenze e abilità che ogni dipendente pubblico, non specialista IT, dovrebbe possedere per poter contribuire alla trasformazione digitale della pubblica amministrazione. Con il Progetto Syllabus, organizzato in cinque aree tematiche e tre livelli di padronanza, vengono misurati i gap di competenze digitali in ogni area attraverso un assessment online ed è così possibile rilevare quindi i fabbisogni formativi e definire i percorsi e i corsi necessari per colmare i gap. Il livello global è progettato e presidiato dal Dipartimento della Funzione Pubblica, con il supporto del Formez in particolare nella definizione dei percorsi formativi. Il processo di autovalutazione del personale della PA rende possibile l’effettiva contestualizzazione, grazie allo strumento dell’assessment; inoltre, l’erogazione della formazione potrà essere garantita da università, aziende ed enti che si accrediteranno come fornitori per il Syllabus.
È indubbio che si tratta di un framework generale – pur complesso nelle sue declinazioni – ma facilmente replicabile; è altrettanto indubbio che l’assessment delle competenze digitali consente un’applicazione contestualizzata all’amministrazione che intraprende il percorso.
Una impostazione simile, definendo dei framework di riferimento, dovrebbe essere seguita, a mio parere, nel Piano di reskilling e upskilling del personale pubblico. L’apprendimento di nuove competenze e il miglioramento di quelle esistenti deve focalizzarsi su: sostenere le transizioni verde e digitale, potenziare l’innovazione, promuovere l’inclusione.
Per questo motivo i framework da definire dovrebbero interessare: le Competenze per la gestione delle transizioni verde e digitale, le Competenze manageriali, le Competenze strategiche (quali ad esempio orientamento strategico e all’innovazione).
Valutare la formazione
Oltre alla capacità global vs local c’è da segnalare, la necessità di presidiare la qualità della formazione.
I soli indicatori di risultato non possono essere individuati come la capacità di gestire la spesa in relazione a quanto ci richiede Bruxelles. Oltre a questi indicatori è necessario mettere a punto indicatori di impatto che rilevino la capacità di spesa in termini di efficienza, efficacia e economicità.
Gli obiettivi della valutazione consentono di: verificare, controllare ed eventualmente intervenire sui risultati della progettazione per rispondere alle esigenze formative, individuare eventuali scostamenti dei costi rispetto a quanto progetto preventivato; rilevare e rappresentare i risultati ed eventuali scostamenti e criticità. Oltre ai classici indicatori di performance utilizzati per il monitoraggio e la valutazione, è possibile utilizzare anche indicatori di risultato, che misurano gli effetti primari sui beneficiari scelti, e l’analisi dell’impatto, che rileva gli effetti a lungo termine rispetto all’obiettivo generale. Una valutazione articolata che può consentire l’effettiva qualità e efficacia della formazione.
Il piano di lifelong learning del personale pubblico
In base a queste riflessioni il Piano di formazione finanziato dal PNRR deve essere un piano di lifelong learning del personale pubblico che abbia un approccio glocal e orientato alla verifica dell’impatto, articolato in determinate azioni strategiche:
- prevedere un framework comune sulla base del quale vengono definiti obiettivi, contenuti, destinatari e metodologie;
- accreditare operatori quali università e imprese che grazie alla loro capacità raggiungano un elevato numero di destinatari, ma che si devono allineare al framework complessivo;
- coinvolgere le amministrazioni con maggiore esperienza e presidio del territorio affinché possano essere supportati anche gli enti di piccola dimensione;
- investire sulla formazione del personale pubblico che gestisce i processi formativi, al fine di rilevare i fabbisogni in modo puntuale e progettare percorsi customizzati, reinternalizzando la gestione degli stessi processi formativi;
- puntare sulla qualità, individuando un set composito di indicatori di qualità dei processi e allo stesso tempo prevedendo l’accreditamento del sistema che si occupa della formazione, quindi degli enti e dei formatori, per assicurare una formazione di qualità.
Conclusioni
L’orizzonte è il 2026. Abbiamo il tempo per intervenire con azioni di sistema che consentano il reale cambiamento della PA e l’aggiornamento e la riqualificazione del personale. Se avremo solo speso le risorse senza un cambiamento di sistema e l’effettiva ricaduta sui servizi e sui processi, allora avremo perso l’opportunità concreta di investire una quantità invidiabile di risorse.