Innovazione e Pubblica Amministrazione. Due concetti che secondo il sentire comune sono antitetici. Si tratta di uno stereotipo ingannevole, alimentato da un dibattito pubblico oggi troppo spesso concentrato su cosa manca alla PA italiana per innovare sé stessa. Manca il desiderio di innovare? Mancano le risorse? Le competenze non sono adeguate? Questo tipo di dialettica rischia di risolversi in una trappola strategica, in cui la complessità strutturale delle PA, la difesa di uno status quo che tutto sommato funziona ancora e l’avversione al rischio dei governi pongono l’innovazione in uno stato di perpetua attesa del perfetto allineamento astrale di condizioni che di fatto non si verificheranno mai tutte insieme.
Mentre nel settore privato l’innovazione ha un chiaro driver – la necessità di battere la competizione globale e generare valore per gli azionisti – e una connotazione dirompente legata alla rivoluzione digitale, nel settore pubblico il problema è meno definito, ma ha connessioni logiche con quanto avviene nel privato.
Governi e Pubbliche Amministrazioni devono oggi raggiungere obiettivi apparentemente in contrasto tra loro – utilizzare efficientemente risorse economiche scarse mentre aumenta la domanda di servizi pubblici di elevato livello per ragioni demografiche ed economiche – in una rincorsa a perdifiato verso una maggiore competitività e sostenibilità del sistema-paese che al contempo migliori le condizioni di vita dei cittadini.
L’applicazione del concetto di innovazione a questo scenario aiuta a definirne meglio il significato. Non si tratta di innovazione radicale – non ci sono competitor esotici all’orizzonte che possono sostituire direttamente lo Stato come invece accade nel settore privato – ma di semplificazione, ovvero rendere semplici processi stratificati e attività difficili eliminando gli sprechi e indirizzando le risorse verso ciò che migliora la vita di imprese e cittadini, a beneficio di un’economia più competitiva e di un maggiore benessere collettivo.
La semplificazione nella PA
Il concetto di semplificazione applicato alla PA sottende due livelli di lettura: da un lato la semplificazione normativa che dipende dalle capacità dei governi di razionalizzare complessi impianti regolatori, dall’altro la semplificazione organizzativa e di processo, che oggi si consegue prevalentemente attraverso l’utilizzo sapiente delle tecnologie digitali. Una fotografia di quanto la semplificazione sia importante nella PA italiana è contenuta nel Global Competitiveness Report, pubblicato a settembre 2017 dal World Economic Forum, che classifica l’Italia al 43esimo posto a livello globale sulla base di 114 indicatori di competitività, collocandola all’ultimo posto tra i paesi del G8. La Ricerca evidenzia che proprio l’inefficienza burocratica – superabile attraverso la semplificazione e il digitale – insieme all’elevata pressione fiscale condizionano fortemente le imprese e sono per distacco le due ragioni principali della bassa competitività italiana.
Avviare un vero processo di semplificazione è un’impresa difficile che, prendendo in prestito alcuni concetti dell’economia classica, richiede di impiegare in modo sapiente almeno due fattori della produzione: capitale (investimenti) e lavoro (risorse umane) esattamente come avviene nel settore privato. Oggi nel pubblico le risorse economiche, che pure sarebbero vaste, sono impegnate per far fronte alla spesa corrente e per onorare gli interessi sul debito. Occorre quindi smettere di attendere ciò che manca e ripartire da ciò che c’è e che deve diventare la risorsa principale su cui far leva per innovare la Pubblica Amministrazione: le persone (leggi la via di Agid per competenze digitali nella PA).
Il tema connesso alle persone che ricorre sottotraccia riguarda la mancanza di competenze digitali interne alla PA. Nel contesto attuale, in cui le competenze digitali sono difficilmente reperibili sul mercato del lavoro e spesso molto costose, questo passaggio è indispensabile: significa individuare i collaboratori che le posseggono e metterli in condizione di poterle esercitare nel contesto lavorativo.
Infatti, in ogni organizzazione alcune competenze si manifestano in modo esplicito proprio come le caratteristiche genetiche, perché il contesto e il modo di lavorare lo richiedono. Altre competenze, pur presenti tra le attitudini e le passioni dei collaboratori o magari sviluppate informalmente all’interno del proprio lavoro, non si manifestano e rimangono dormienti. Ciascuna organizzazione può provare a valorizzare le competenze nascoste e inespresse cercando i collaboratori che le posseggono o le hanno sviluppate personalmente, magari in modo naive, ma tremendamente appassionato. Proprio le attitudini personali dei collaboratori – che spesso sono più digital nella vita privata che in quella professionale – possono diventare la base da cui partire per coltivare e sviluppare competenze digitali professionali.
Dieci passi per una nuova PA con competenze digitali
In Partners4Innovation abbiamo sviluppato un approccio applicabile nella PA finalizzato a individuare e mappare le attitudini digitali delle persone in organizzazioni complesse con l’obiettivo di coinvolgerle in programmi di innovazione basati su community. Si tratta di un approccio già applicato che ha coinvolto oltre 80.000 persone a livello globale e sintetizzabile in 10 passi.
1) Individuare le competenze che servono per la semplificazione.
Serve avviare una riflessione a livello di Direzione Generale su quali sono le competenze che servono per avviare programmi di innovazione e semplificazione. Sono necessarie solo competenze tecnologiche? Ha senso misurare solo l’alfabetizzazione informatica? Serve individuare persone che sappiano muoversi in un ambiente digitale con disinvoltura, comunicando, condividendo e interagendo attraverso strumenti digitali grazie alle soft skill? Oppure ci vorrebbero persone con attitudine all’imprenditorialità e alla sperimentazione che sappiano farsi carico di progettualità di innovazione con spirito pionieristico?
2) Scoprire se le competenze digitali sono presenti e in quali unità organizzative sono diffuse attraverso un assessment che coinvolga (e possibilmente entusiasmi) il maggior numero di persone possibili. L’istinto suggerisce che solo un ristretto ma indefinito numero di persone abbia attitudine verso il digitale e la sperimentazione. Diventa fondamentale individuare con certezza proprio coloro che sono digital ready per attitudine, talvolta insospettabilmente. Per questo si può sviluppare un assessment che superi il concetto – spesso un po’ banale – di alfabetizzazione informatica di base e indaghi proprio quelle aree di competenza hard e soft individuate dalla Direzione Generale. Le tecniche di gamification possono contribuire a costruire un’iniziativa di mappatura volontaria delle competenze che abbia elevati livelli di accettazione contribuendo a entusiasmare i collaboratori.
3) Leggere e interpretare correttamente la “mappa termica” delle competenze che emerge dall’assessment.
La lettura aggregata dei risultati dell’assessment diventa preziosa perché rivela in quali unità organizzative sono nascoste le competenze digitali e permette di orientare sia le politiche di sviluppo e formazione sia le progettualità di innovazione laddove, almeno in una prima fase del cambiamento, ci sono più chance di cogliere benefici.
4) Stratificare la popolazione in base al livello di attitudine digitale.
I risultati di un assessment delle competenze digitali offrono letture molto granulari, dall’unità organizzativa fino ai singoli individui. Diventa così possibile definire gruppi di persone con caratteristiche simili con risultati inaspettati. Potrebbero emergere sviluppatori amatoriali, piccoli imprenditori nascosti, influencer amatoriali e così via. In questo modo è possibile avviare iniziative di change management differenti, dall’engagement nei processi di innovazione fino alla formazione.
5) Ingaggiare i talenti emersi per valorizzare le loro attitudini e far si che diventino virus positivo nell’organizzazione.
Coloro che hanno già spiccata attitudine verso il digitale sono spesso “portatori sani” di energia, soprattutto una volta che le passioni individuali vengono riconosciute anche dall’organizzazione in cui lavorano. Si tratta di un’energia che può essere incanalata nei processi di innovazione, progettando una community inter-funzionale che comprenda programmi di formazione avanzata sulle competenze digitali e la partecipazione a progettualità di innovazione. La community non deve diventare un gruppo elitario chiuso, ma deve incorporare i principi dell’open innovation, essere circoscritta nel tempo e basata sul contributo che ciascuno può dare sulla base delle proprie competenze. Diventa necessario progettare meccanismi di apertura per cui i partecipanti intraprendono un percorso con un inizio e una chiara fine, mentre nuovi colleghi che nel frattempo hanno sviluppato le competenze giuste entrano a far parte della community e la alimentano con forze fresche e nuovo entusiasmo. Proprio i partecipanti alla community sono coloro che possono influenzare i propri colleghi diretti nelle unità organizzative di appartenenza, diventando portatori di metodi di lavoro nuovi orientati all’agilità e alla sperimentazione.
6) Avviare un programma di reskilling pervasivo per coloro che hanno meno attitudini digitali.
Se le persone devono diventare la risorsa principale di ogni programma di innovazione e semplificazione della PA, occorre tendere una mano a tutti. La tecnologia aiuta a sviluppare programmi di formazione personalizzati, che possono essere offerti sia online che offline in modo da raggiungere il numero di persone più elevato possibile. Perché abbia successo oggi, un programma di formazione moderno deve rispettare alcuni principi: incorporare attività connesse alla sperimentazione in prima persona, stimolare l’approfondimento individuale, offrire un percorso personalizzato sulla base delle attitudini delle persone, dare una pluralità di punti di vista con docenti e testimonianze provenienti da realtà e network diversi, favorire la condivisione e l’applicazione quotidiana di quanto appreso. Paradossalmente, per la costruzione di un programma di formazione con queste caratteristiche è più semplice prendere spunto da mondi apparentemente distanti dalla formazione (ma che fanno già parte della vita quotidiana delle persone), che si traducano in linee guida pratiche che legano le iniziative di formazione come un filo rosso: personalizzazione e fruizione a puntate (Netflix), efficacia comunicativa (Youtube), socializzazione (Facebook, Linkedin, ma anche Whatsapp, Snapchat e Instagram), semplicità d’uso e orientamento al partecipante (Amazon), sperimentazione con ricadute concrete (Kickstarter).
7) Definire una regia puntuale del programma di semplificazione e di formazione.
In organizzazioni numerose e complesse come le Pubbliche Amministrazioni, un programma di semplificazione comprende diverse progetti interconnessi e attività di formazione attive in contemporanea. Coordinare le attività delle community e le risorse, assicurarsi che le iniziative di formazione e i progetti convergano collettivamente verso gli obiettivi comuni richiede un vero e proprio Program Management. Il lancio di community e programmi di formazione non deve tradursi nell’assoluta anarchia organizzativa con iniziative isolate. Serve costruire un piano di argomenti e cantieri di lavoro su cui la Direzione Generale desidera sia costruire competenze puntuali sia attivare progettualità di innovazione. L’energia delle persone va incanalata in un processo che farà germogliare le migliori idee e arricchirà l’organizzazione rispondendo meglio al disegno strategico.
8) Formare le competenze manageriali adeguate a gestire il cambiamento.
In ogni organizzazione i manager sono coloro che definiscono gli standard di comportamento, guidano i team e si assicurano che i cambiamenti si traducano in buone pratiche. Si tratta di creare le premesse dell’open & digital leadership, grazie alla quale la crescita dell’azienda avviene attraverso decisioni basate sullo scambio di esperienze (spesso sperimentali), conoscenze e metodologie di lavoro tra colleghi e con il mondo esterno.
9) Diffondere una cultura open a tutti i livelli della pubblica amministrazione.
Essere open significa incoraggiare e promuovere l’innovazione a partire da tutte le fonti disponibili. Mettere in pratica quest’affermazione richiede l’impegno della Direzione Generale, focalizzazione, investimento in termini di tempo e pazienza. I potenziali benefici sono consistenti perché un’attitudine open aiuta a valicare i confini dell’Amministrazione e a trovare ispirazione anche dai cambiamenti in atto nel contesto esterno, entrando in contatto con sorgenti di innovazione che espandono le competenze dell’organizzazione e diventano nel tempo un asset per la Pubblica Amministrazione.
10) Promuovere ed attuare una cultura della misurazione del risultato.
La promozione di una cultura della misurazione del risultato comincia con l’accurata definizione di ciò che si vuole ottenere e con la definizione di quali risultati sono considerati accettabili. Troppo spesso nelle organizzazioni l’unico risultato considerato accettabile per un progetto è il successo. Analogamente, troppo spesso viene trascurata la sperimentazione e la realizzazione di proof-of-concept perché non si conoscono le tecniche e gli strumenti per farlo. Questo tipo di comportamento priva l’organizzazione della capacità di prendere rischi (talvolta piccoli, talvolta grandi) per la paura di fallire. In ogni iniziativa di innovazione gli esiti considerati accettabili devono essere sempre tre: “no, non si può fare perché all’atto pratico l’idea non funziona”, “sì, si può fare e la sperimentazione lo dimostra, andiamo avanti insieme”, “dalla sperimentazione non abbiamo capito se l’idea è valida, dobbiamo avviare degli approfondimenti specifici”. Diventa quindi importante definire i criteri con i quali si decide come un progetto contribuisce al disegno complessivo di cambiamento. Nella PA questo significa analizzarne i potenziali impatti in termini di impatto sulla vita dei cittadini (sanità, istruzione, lavoro, sicurezza, ambiente…), impatto sui servizi (efficienza e utilità per imprese e cittadini), produttività (efficienza interna e risparmi), democrazia (coinvolgimento dei cittadini, trasparenza, uguaglianza).