Sms, tweet, mail: centinaia di messaggi ci raggiungono ovunque per svariate questioni. Siamo connessi in ogni momento della giornata, sempre in contatto con qualcuno, ma in fondo potremmo essere soli. Dietro l’illusione di una maggiore comunicazione, c’è il baratro dell’isolamento. E così il computer, ma anche il robot che dovrebbe assisterci ogni giorno, possono renderco più aridi e finire per escluderci dai veri affetti.
Interagiamo di fatto attraverso nuovi linguaggi e formati imposti dalle macchine, che mutano la nostra psicologia e mutano la tecnologia, supporto all’espressione di in un’evoluzione, come aveva già sostenuto De Kerkhove, allievo di Mc Luhan del quale ha portato i discorsi sui media nell’ambito della digitalizzazione.
Ma ciò che cambia, conseguenzialmente, è anche il modo di stare insieme, come aveva evidenziato Howard Reihngold, diventando insieme una nuova tecnologia sociale, in movimento modellabile sulla base delle informazioni condivise in tempo reale, come dei sciami di ape o banchi di pesci.
Sherry Turkle, autrice a suo tempo di uno dei primi studi di questi cambiamenti antropologici, in “Vite dentro lo schermo”, mette ora in luce come gli schermi (i display comunicanti che ci portano di fatto altrove e con altri desituati rispetto a noi) sono entrati nelle nostre vita quotidiani, ponendo delle importanti questioni sulla deframmentazione dell’io: oltre il simbionte di Giuseppe Longo, ora siamo dei simbionti sociali, con il simulacro in aula, in una riunione, ad un tavolo con una persona, ma frammentati in altre situazioni, alternative scartabili con un clic. E come Mead insegna, anche noi siamo oggetto nelle comunicazione degli altri e diventiamo in parte quello che reputiamo gli altri si aspettino da noi, riducendo così, alla fine, noi stessi in alternative scartabili con un clic.
“Insieme ma soli. Perché ci aspettiamo sempre più dalla tecnologia e sempre meno dagli altri” è il testo scritto da Sherry Turkle, ricercatrice del MIT – Massachussets Institute of Technology che da quasi trent’anni studia gli effetti delle tecnologia sulla psicologia umana. Turkle indaga su due versanti differenti: da un lato sui robot sociali e sulla loro interazione con l’uomo, dall’altro incentra la sua ricerca sulla nuova condizione di connessione ininterrotta che caratterizza le nostre vite e su come tale condizione incida sulle nostre modalità di relazione.
L’autrice spiega come la robotica e la connettività siano complementari: ci conducono inesorabilmente al ritiro relazionale. Con i robot sociali siamo soli, ma ci illudiamo di essere “insieme”. Grazie alle connessioni rese possibili dalla tecnologia, siamo “insieme”, ma questa forma di esistenza è così vuota, così limitata che siamo de facto soli. Le nostre tecnologie ci spingono a trattare il nostro prossimo come un mero oggetto, un oggetto a cui ‘accedere’ ma solo a quelle parti che troviamo utili, confortevoli o divertenti.
“Non è un libro sulla tecnologia, ma sulla nostra progressiva perdita di autonomia” rincara la Turkle.
“Oggi viviamo in un mondo in cui il sé si costruisce sulla base delle risposte fornite, delle chiamate effettuate, degli e-mail spediti, dei contatti raggiunti”. Un sé calibrato sulla base di quello che la tecnologia propone e impone, su quello che semplifica e al tempo stesso svaluta. In un mondo in cui la tecnologia ci spinge a produrre di più e più in fretta, ci troviamo ad affrontare un curioso paradosso. Da un lato ripetiamo di vivere in un mondo sempre più complesso, dall’altro abbiamo creato una cultura della comunicazione che rende difficile, se non impossibile, ritagliarsi spazi e tempi per riflettere in modo tranquillo, senza distrazioni. In un mondo che esige risposte in tempo reale abbiamo perso la capacità di affrontare problemi complicati.
Turkle lamenta oltre alla mancata capacità di sviluppare un pensiero complesso anche come le nuove tecnologie della comunicazione abbiano cambiato il concetto di distanze. Hanno impoverito la nozione stessa di spazio in quanto “ci ritroviamo in spazi pubblici senza nemmeno interagire. Ognuno è incollato al proprio dispositivo mobile, un dispositivo che funziona come portale di accesso ad altre persone, ad altri luoghi”.
La tecnologia ci mette quindi in pausa. Le nostre conversazioni faccia a faccia sono continuamente interrotte da chiamate e messaggi sms. Nel mondo della corrispondenza cartacea, era assolutamente inaccettabile che un collega si mettesse a leggere una lettera personale durante una riunione. Nel nuovo mondo digitale, ignorare chi ci sta di fronte per rispondere a una chiamata al cellulare o rispondere a un sms è diventata la norma.
Turkle descrive anche in dettaglio le nuove patologie figlie dell’era digitale, la compulsione di leggere l’email alla mattina, appena svegli e prima di andare a letto. “Ho capito da tempo che prendere atto dei miei problemi professionali e delle aspettative degli altri all’inizio o alla fine della mia giornata non è il modo migliore di vivere, ma questa cattiva abitudine continua” scrive.
Turkle osserva anche gli effetti nefasti di tale multitasking, ad esempio sugli studenti. Chi studia – o crede di studiare – mentre aggiorna Facebook, fa acquisti su Amazon, risponde alle chiamate e ai messaggi testuali e alle chat è sistematicamente incapace di sviluppare un pensiero coerente. La difficoltà di concentrazione delle nuove generazioni è al centro di numerosi studi. In tutti i casi, le ricerche hanno concluso che chi pratica il multitasking si auto-danneggia, sfrutta male le proprie risorse cognitive, con buona pace dei “media guru” che descrivono i “nativi digitali” come se si trattasse di una nuova specie di esseri umani dotati di super-poteri.
Ed è perciò che laptop e smartphone sono quindi banditi dai corsi universitari della Turkle. “Chi viene beccato con uno smartphone viene immediatamente invitato a lasciare l’aula. Non tutti i miei colleghi approvano questi metodi. Proibire l’uso di computer nella Silicon Valley viene considerato blasfemo, ma posso confermare che dopo un iniziale smarrimento gli studenti apprezzano il formato. Una lezione di tre ore è una sessione di yoga per il cervello. I laptop sono ammessi solo per le presentazioni. Beninteso, mi servo di blog e wiki per ogni corso che insegno da almeno una decade. In classe, tuttavia, la tecnologia è rigorosamente off-limits.” A questo proposito, Turkle osserva: “In base alla mia esperienza, gli studenti che hanno i laptop aperti in classe imparano di meno rispetto ai loro colleghi che usano carta e penna per prendere appunti”.
La posta in gioco non è unicamente questione di apprendimento. Turkle sottolinea che l’uso smodato della tecnologia produce conseguenze deleterie sulla nozione stessa di identità.
Prendiamo il caso dei Social Network sui quali si rileva sempre meno sincerità: il pericolo è dietro l’angolo, web e social complicano i rapporti fra persone. Secondo la psicologa e antropologa, ci spingono a offrire una rappresentazione alterata di noi stessi. Spesso i nostri profili on line esistono in funzione del numero di contatti. “La sera stiamo su Facebook al posto di uscire con gli amici. Preferiamo scrivere loro on line, ma non riusciamo più a parlare. Molte cose non vengono più dette. A volte la gente mi dice che preferisce scrivere, perché nelle conversazioni non si controlla quello che viene detto”.
Non di rado i grandi rivoluzionari finiscono con diventare conservatori, della loro piccola rivoluzione: riconoscendo l’enorme portata intellettuale e scientifica del contributo della Turkle, ci viene da chiederci comunque se non sia lo sguardo, il suo, di una cultura precedente, verso quella che si sta affermando, e per cultura intendiamo linguaggi, strumenti, logica, connessioni di saperi e regole sociali, diversi e in forme diverse, difficile da comprendere per chi è venuto prima: sentiamo spesso colleghi sicuramente più colti dei sottoscritti e legati a scuole che hanno una lunga tradizione alle spalle, di una lodevole onestà intellettuale, anche di un’autorevolezza inarrivabile, parlare in termini di disperazione di fronte al nuovo fermento culturale giovanile e alle risposte che danno ai loro stimoli culturali.
Eppure qualcosa non convince: non convince la metodologia di molte di queste riflessioni, considerato lo scarto antropologico che si viene a creare, è come se uno studioso giudicasse in termini di valore una popolazione con cui deve comunicare, che deve osservare. Ma – accettando la deriva euristica della percezione (sono nostri percorsi non generalizzabili, anche se ormai possiamo dire di avere conosciuto almeno un migliaio di giovani) – c’è sempre qualcosa di sorprendente nelle loro capacità, nelle loro velocità nell’utilizzare i loro strumenti, comunicativi, di pratiche culturali e di conoscenza.
Noi intellettuali, che lavoriamo a stretto contatto con i giovani, non saremo quello che siamo, senza quello che loro ci trasmettono: infatti uno dei grandi cambiamenti è quello da paradigma trasmissivo (gerarchico) del sapere rispetto a quello condivisivo (da pari a pari) del sapere. Ascoltiamo la Turkle, nostra maestra, e accogliamo i giovani e i loro discorsi, che sentiamo, ancora, come nostri pari.
Bigliografia:
– http://www.theguardian.com/science/2015/oct/18/sherry-turkle-not-anti-technology-pro-conversation?CMP=fb_gu
– http://www.repubblica.it/tecnologia/2012/03/19/news/robot_sexy_con_pi_personalit_sempre_pi_soli_con_la_tecnologia-31177667/
– https://www.senato.it/3182?newsletter_item=1487&newsletter_numero=142
– https://www.ted.com/talks/sherry_turkle_alone_together?language=it
– Turkle Sherry (2012) Insieme ma soli. Perché ci aspettiamo sempre più dalla tecnologia e sempre meno dagli altri sempre meno dagli altri