AI e bias cognitivi

Intelligenza artificiale e DNA, il fattore umano nelle analisi predittive

Non basta sapere cosa sono l’intelligenza artificiale o il DNA per passare dalla conoscenza all’applicazione. Quali fattori determinano il successo o il fallimento dei progetti di AI

Pubblicato il 07 Dic 2021

Valter Fraccaro

Presidente della Fondazione SAIHUB

Intelligenza artificiale, una task force a supporto della crisi pandemica

L’intelligenza artificiale e il DNA possono essere descritti con un certo livello di semplicità. Comprendere l’AI o interpretare il DNA è però ben più difficile.

Proprio come non è sufficiente conoscere la lunghissima sequenza di quattro simboli alfabetici, ACGT, per trovare una cura per le malattie, non basta sapere cosa sia l’AI per scoprire nuove applicazioni.

Intelligenza artificiale e comprensione del linguaggio: a che punto siamo

Come ai tempi della scoperta della mappa completa del DNA umano, anche oggi con l’AI ci troviamo di fronte a una nuova conoscenza dirompente, ma il passaggio dalla scoperta all’applicazione richiede non solo i suoi tempi, ma anche conoscere altri fattori determinanti: l’ambiente e gli atteggiamenti personali. Del resto, la genetica ci insegna che possiamo essere gemelli alla nascita, ma individui diversi nella crescita.

Parallelismo fra AI e DNA

L’11 gennaio 2001 i due principali consorzi di ricerca mondiali pubblicarono la mappa completa del DNA umano. I telegiornali di tutto il mondo la riportarono come svolta epocale nella ricerca biologica e medica.

Quella mappa, grande passo della scienza che tanto ci rivelava della natura umana, sembrava aprire nuove prospettive nella cura e nella prevenzione di molte malattie, dai tumori a quelle degenerative del cervello. E lo faceva, ma non era sufficiente per scoprire l’origine di tutto.

Vent’anni dopo, possiamo dire che quella speranza non era infondata, ma che non siamo riusciti a realizzare quanto immaginato allora, sostanzialmente perché il messaggio descritto in quella sequenza era in un codice che tuttora non siamo riusciti ad interpretare completamente. E, ancor di più, perché il DNA non contiene il destino della singola persona, in quanto a influenzare il suo sviluppo biologico sono numerosi fattori esterni che incidono sul suo funzionamento.

È una particolare branca degli studi biologici, denominata epigenetica, quella che studia quali effetti abbiano i comportamenti individuali e le condizioni di vita sull’espressione genetica, quel fenomeno che, partendo dal DNA, controlla lo sviluppo della persona e molti aspetti della sua realtà biologica.

Cosa c’entra tutto questo con l’AI? Come nel 2001 coltivavamo illusioni sulle scoperte del DNA, anche oggi con l’AI ci troviamo di fronte a una nuova conoscenza molto promettente, capace di modificare radicalmente molti aspetti del nostro vivere e offrire grandi risultati. Ma la strada è ancora lunga per passare dalla fase della conoscenza alle analisi predittive.

Il DNA è un messaggio limpido, facile da leggere: è una lunghissima sequenza di quattro soli simboli alfabetici, ACGT, che rappresentano le iniziali dei nucleotidi che lo costituiscono, ma non basta. Infatti risulta complesso da interpretare, e soprattutto ciò che è complicato è trasformare la conoscenza in una reale applicazione come, per esempio, una nuova cura.

Possiamo descrivere anche l’AI con un certo livello di semplicità, ma poi comprenderla è più difficile. Tuttavia, essendo una metodologia, basta porre obiettivi noti e raggiungibili, per trovare un’applicazione in tempi sicuramente molto più brevi rispetto ai decenni che richiede una ricerca scientifica.

Come per il DNA, e se ne parla troppo poco, bisogna però considerare che gli esiti dell’AI dipendono in maniera rilevante dall’ambiente (nel nostro caso, l’azienda) e dagli atteggiamenti personali (quelli di chi commissiona il progetto, di chi lo conduce e, infine, di chi lo utilizza).

I limiti dell’approccio all’intelligenza artificiale

Condizionate dalla comunicazione, le imprese purtroppo hanno spesso un approccio con l’AI basato solo sui suoi aspetti tecnici. Pensano che sia sufficiente inserire nei propri quadri uno o più esperti, perché si comportino da suggeritori e promotori dei successivi progetti di intelligenza artificiale.

La debolezza di questo modello sta nell’ovvia difficoltà dei neo-entrati nel poter suggerire mutamenti in un’azienda che conoscono da poco tempo. Anche nel migliore dei casi, questo limite conoscitivo condizionerà sostanzialmente i risultati di eventuali progetti.

Allo stesso modo, la scelta dei dati per abilitare una soluzione di AI, potrà fornire risultati molto diversi nell’utilizzo di un determinato algoritmo.

È un po’ come un motore: può essere progettato e realizzato con ogni cura, ma le sue prestazioni inevitabilmente risentiranno della qualità del carburante.

Mentre molto si fa per l’organizzazione dei dati, in modo che siano disposti in maniera adatta alla computazione, accade di rado che ci si chieda come essi siano prodotti e se davvero descrivano quegli aspetti del processo da modificare.

Cosa bisogna sapere sui dati

Il termine “dato” è un participio passato: indica con chiarezza che esso è un prodotto di una qualche osservazione e successiva rilevazione. I dati non esistono in natura, ma sono generati da scelte e lavoro umano.

Un dato discende da un’osservazione di un fenomeno; e il punto di vista da cui questo è analizzato ne cambia radicalmente l’interpretazione. Per esempio, se si guarda l’alba è immediato pensare che “il Sole stia sorgendo”.

Condizionati dalla nostra posizione, ci pare che sia il Sole a muoversi, mentre è la Terra che nel suo movimento intorno a quella stella genera l’alba. Se potessimo guardare lo stesso accadimento da maggiore distanza, magari da una navicella spaziale, potremmo notare come ciò che si muove sia il pianeta e l’alba ci apparirebbe semplicemente come il rotolamento del confine tra giorno e notte sul nostro globo.

Tra chi si occupa di scienza questo tema è ben noto e le modalità con cui il dato viene determinato, così come la scelta di quali dati utilizzare, è un passaggio fondamentale di ogni progetto di ricerca.

Diversamente, in azienda si usano generalmente i dati già a disposizione. Ricordate il mantra “L’Intelligenza Artificiale estrarrà finalmente informazioni preziosissime dai vostri dati aziendali!”? Questo approccio già indirizza gli esiti delle attività di AI in maniera notevole.

In pratica, si studia meglio ciò che già si conosce, senza approfittare della potenza computazionale per scoprire ciò che ancora non è noto.

Invece, l’AI non è la semplice applicazione di un metodo diverso all’analisi degli stessi dati che si sono interpretati fino ad oggi con altri metodi.

I fattori che condizionano un progetto di intelligenza artificiale

Un aspetto estremamente utile delle metodologie matematico-digitali che spesso riassumiamo sotto l’ombrello di intelligenza artificiale riguarda il fatto che esse permettono di analizzare molte più variabili di quelle che il cervello umano è in grado di considerare.

Anche qui un esempio può aiutare. Quando effettuiamo una semplici analisi del sangue, i valori raccolti strumentalmente sono centinaia, eppure il foglietto che ne descrive l’esito ne riporta una ventina più o meno.

Questo accade perché il medico di famiglia è in grado di connetterne tra loro solo un certo numero, quanto basta per una prima indicazione diagnostica di massima che lo spingerà poi ad ordinare ulteriori esami del paziente.

Se gli si portasse dinnanzi un interminabile elenco di indicatori e connessi valori, non gli si agevolerebbe il lavoro, anzi, si otterrebbe l’effetto contrario.

Per un computer, invece, porre invece in relazione centinaia o migliaia di variabili è possibile, così permettendoci di individuare, per esempio, quali sono le condizioni in cui si verifica un determinato evento.

Ciò può condurre a soluzioni del tutto inattese e non canoniche. Così è successo qualche anno fa quando un operatore di AI fu chiamato per valutare se l’indice di conversione dell’immondizia in energia di un certo termovalorizzatore potesse essere migliorato.

Rilevati tutti i parametri di funzionamento e configurazione dell’impianto, si scoprì che si poteva far molto meglio. I gestori opposero una certa resistenza, sostenendo che i settaggi erano quelli corretti, usati in tutto il mondo, e che quelli suggeriti dai matematici apparivano del tutto differenti da quelli convenzionalmente utilizzati e, dunque, impropri.

In quel caso fu un organo politico locale a forzare la situazione in modo che il test con i nuovi valori avesse luogo.

Senza sorprendere chi conosce la matematica, il test andò benissimo e, in seguito, i tecnici ritararono, sulla base di quell’algoritmo, anche gli altri impianti regionali, ottenendo un notevole aumento dell’efficienza singola e complessiva.

A questi risultati positivi si giunge quando si è disposti a esaminare un fenomeno senza pregiudizi.

Intelligenza artificiale: bisogna evitare i pregiudizi

Esiti ben diversi si verificano, invece, quando, magari in maniera inconscia, si cerca di ricevere conferma delle proprie convinzioni, altro fattore esterno che può condizionare negativamente un progetto di AI.

Dato un volume di dati sufficientemente grande, è possibile trovare qualsiasi connessione si stia cercando.

Lo hanno verificato Cristian S. Calude e Giuseppe Longo, pubblicando nel gennaio 2016 un articolo dal titolo molto esplicativo The Deluge of Spurious Correlations in Big Data, testo che dovrebbe far parte del bagaglio di conoscenze di chiunque metta mano a sistemi di analisi delle informazioni, non solo dei dati.

Insomma, come secoli di metodo scientifico hanno insegnato, cercare di trovare un
(pre)determinato risultato non è un buon modo di fare esperimenti né di analizzare dati.

In altri casi, i risultati forniti dagli algoritmi sono invece il riassunto degli errori di valutazione precedenti.

È quanto accade quando un comportamento umano integra un bias cognitivo, cioè un pregiudizio, tanto da trasferirlo nelle informazioni con cui il sistema di AI è stato istruito.

In maniera semplice, quando istruiamo un computer a riconoscere qualcosa, gli facciamo maturare quella cosa che noi umani chiamiamo “esperienza”.

I pattern dell’intelligenza artificiale

Affinché il computer sia in grado di riconoscere l’immagine di un gatto, si fanno esaminare alla macchina migliaia (o milioni) di foto di gatti, cosicché possa trovarvi caratteristiche ricorrenti e tipiche (i cosiddetti “pattern”) che, quando appaiono in una nuova immagine, la definiscono come “gatto”.

Se però milioni di foto riportano solo gatti siamesi, l’immagine di un gatto nero non coinciderà sufficientemente con il pattern “gatto”: allora la macchina risponderà che è bassa la probabilità che quello ritratto sia un gatto.

Esempi pratici

Passiamo ora dal felino a un insieme di documenti che riportano giudizi: sentenze di tribunale, diagnosi mediche, protocolli di cura prescelti, valutazioni testuali di capacità e carattere delle persone, eccetera. Allora, la questione si fa ben più grave.

È quanto accaduto quando sistemi di AI sono stati utilizzati per definire la condanna di un reo basandosi sugli esiti di processi precedenti. Le sentenze erano più dure quando l’imputato presentava caratteristiche personali (età, sesso, colore della pelle, religione eccetera) che determinati preconcetti avevano, in precedenza e inconsciamente, portato i giudici a calcare la mano rispetto a rei che avevano commesso le stesse violazioni di legge, ma non presentavano quelle peculiarità mal viste dai magistrati.

Allo stesso modo, se addestriamo il computer a riconoscere come indicatori di una certa malattia parametri difficilmente riportabili in forma numerica (“un forte mal di stomaco”, “un’ampia macchia sulla cute”, “talvolta difficoltà di deglutizione” eccetera), è possibile che la sua diagnosi si discosti dal reale, sebbene i medici, che in precedenza avevano usato quelle formule descrittive fossero perfettamente in grado di definire di cosa stesse soffrendo il paziente.

Analogo esempio può servire a descrivere il ricorso al servizio di assistenza di un’auto o di una macchina utensile in fabbrica.

Le serie storiche

Un elenco non esaustivo dei fattori “epigenetici” che si riversano sugli algoritmi comprende sicuramente anche la quantità dei dati, in particolare per le serie storiche, cioè quell’insieme di parametri che descrivono eventi accaduti negli anni.

Se queste serie si riferiscono a una consistente serie di anni, aumenta il pericolo che condizioni occasionali, e magari del tutto imperscrutabili attraverso le informazioni prese in considerazione, influenzino gli eventi.

Per esempio, in una statistica che riguardi l’acquisto di occhiali da sole nel periodo estivo, si possono verificare variazioni che non riguardano la capacità di quella marca di produrre ogni anno una gamma di prodotti in linea con i gusti dei consumatori, bensì gli eventi metereologici per cui certe estati sono più luminose ed altre meno.

Sembra una considerazione banale, ma anni di esperienza dimostrano che spesso i fenomeni esaminati in serie storica non producono analisi predittive. Pochi dati con una certa connotazione (il loro essere recenti) descrivono meglio i fatti rispetto a più estese serie di valori condizionate però da fattori esterni sfuggiti all’osservatore.

Il fattore umano e l’AI

Insomma, quella che chiamiamo intelligenza artificiale è uno strumento, sulle cui capacità è sempre bene vegliare: “Se è intelligente non è artificiale, se è artificiale non è intelligente”, per citare Luciano Floridi. Ma il fattore umano è e resta il tramite di tutti quei condizionamenti ambientali che incidono sulla riuscita di un progetto di AI.

Questi aspetti emergono quotidianamente nel corso di un’attività scientifica: accade in ogni fase di ricerca, in ogni consultazione bibliografica, in ciascuna raccolta dati, in qualsiasi condizione si cerchi di conoscere ciò che non si sapeva prima.

Le aziende, che adottano questo approccio nei loro comparti di Ricerca e Sviluppo, devono mettere i propri manager in condizione di porre nuove domande affinché nuove siano le risposte.

Conclusioni

Sostenibilità, etica, design rappresentano l’obiettivo, lo spirito, il mezzo. In questo percorso di trasformazione che definiamo transizione, l’intelligenza artificiale non è una sfera di cristallo che ci mostra il futuro, ma uno strumento che ci permette di andare oltre i numerosi limiti cui siamo abituati.

Il cambiamento più radicale sta proprio nel poter immaginare l’azienda come si vorrebbe che fosse e verificare se sia finalmente possibile superare, tramite l’intelligenza artificiale, quelle costrizioni che hanno guidato le scelte manageriali del passato.

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