l'analisi

Intelligenza artificiale, arte e cultura: elementi per una vera valutazione estetica

Non è facile individuare i criteri per una valutazione estetica dei prodotti dell’applicazione dell’intelligenza artificiale all’arte e alla cultura. Probabilmente, come sempre accade, sarà il tempo a dare il giudizio definitivo, ma nel frattempo proviamo ad articolare i diversi aspetti del fenomeno

Pubblicato il 02 Ott 2020

Giulio Lughi

Consulente in media digitali, già professore nell'Università di Torino

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Anche grazie ad eventi di grande impatto mediatico (un “dipinto” prodotto dall’Intelligenza Artificiale è stato venduto all’asta da Christie’s per 432.500 dollari), l’applicazione all’arte e alla cultura di questa potente tecnologia sta suscitando sempre maggiore interesse.

Il tema è indubbiamente suggestivo, ma si presta anche a considerazioni generiche, nostalgiche o moralistiche, oppure ingenuamente tecno-entusiaste: e quasi sempre si tende a considerare l’AI come un tutto indistinto senza articolare i diversi aspetti del fenomeno.

Proviamo allora a catalogare le applicazioni artistiche dell’AI in base ai settori di utilizzo.

L’AI e l’arte: basi teoriche

Negli ultimi anni l’Intelligenza Artificiale (AI secondo l’acronimo inglese, ormai di uso generalizzato) ha trovato applicazione in numerosi settori funzionali alla vita quotidiana, da quelli legati alle capacità cognitive che simulano l’essere umano (riconoscimento immagini, gioco degli scacchi, language automation, problem solving, decision making, ecc.) a quelli legati alla gestione della vita civile e sociale (domotica, banking, cybersecurity, strategie di marketing, valutazione automatica di CV, veicoli a guida autonoma, ecc.) a quelli, infine, con ricadute sull’organizzazione economica e politica (telesorveglianza, privacy, impatto sul mondo del lavoro 4.0, gestione della salute, tecniche di disinformazione, controllo sui diritti fondamentali, ecc.).

Su questi ambiti la bibliografia è quanto mai ampia ed esaustiva, mentre sulle applicazioni dell’AI all’arte e alla cultura disponiamo di poche trattazioni, per lo più orientate a indagare le potenzialità “creative” della macchina (Miller, 2019), o di opinioni impressionistiche di artisti e operatori professionali, o di qualche articolo giornalistico più o meno meditato. In questo panorama, un recente volumetto di Lev Manovich (2019) costituisce il riferimento teorico più avanzato per inquadrare il problema.

Innanzitutto Manovich sottolinea come i primi esperimenti fra arte e AI risalgano agli anni ’60 del Novecento, quando riguardavano però soprattutto il rapporto creativo fra il singolo artista e la sua opera; a partire dagli anni Duemila invece – anche in seguito all’espansione dei Big Data e dell’ IoT – questa problematica riguarda milioni di persone, in quanto capace di influenzare il gusto e le scelte estetiche dei pubblici, condizionandone l’immaginario. Inoltre, l’impatto dell’AI sull’arte e la cultura si manifesta in due ambiti: la produzione di opere d’arte ed eventi culturali; e la valutazione critico-estetica di questi prodotti.

Per quanto riguarda la produzione, è fondamentale valutare l’opposizione fra omologazione e originalità: l’AI appiattisce il gusto dell’artista? Oppure è in grado di dar vita ad una nuova creatività? La risposta, per quanto sembri paradossale, è “sì” in entrambi i casi: ricerche fatte sul Recommendation System di Youtube, ad esempio, mostrano come – a seconda degli algoritmi impiegati – lo spettatore può essere portato verso video che confermano il suo gusto, oppure può essere condotto a fare esperienze diverse, a guardare video che aprono nuove prospettive di contenuti e di forme visive. Senza dimenticare che tutta la storia dell’arte è segnata dalla dialettica fra un’estetica imitativa, classicistica, di scuola, dove l’artista deve soprattutto mostrare di saper ispirarsi ai maestri del passato; e – dall’altra parte – un’estetica rivoluzionaria, pronta a mettere in discussione, o a distruggere, i canoni, le regole, l’idea stessa di perfezione e bellezza artistica. Le opere prodotte con l’AI non sfuggono a questa dialettica, presentando un ampio ventaglio di applicazioni che in ultima analisi vedono sempre in gioco il fattore umano: anche nelle opere “generate automaticamente dall’AI”, infatti, va considerato il ruolo del progettista degli algoritmi generativi, in una sorta di “equilibrio collaborativo” fra automazione e creatività umana che rappresenta la prospettiva scientifica più corretta per affrontare la questione.

Accanto alla produzione artistica, l’AI svolge un ruolo fondamentale anche nella valutazione critico-estetica dell’esperienza artistica. Un tempo erano esclusivamente gli studiosi, i critici (accademici o militanti), gli storici, e comunque gli “esperti umani” a tracciare le linee di analisi e sviluppo dei prodotti culturali, condizionando il gusto individuale dei pubblici nonché l’attività produttiva di artisti e istituzioni: oggi l’accumulo di dati culturali digitalizzati permette di (e per certi versi obbliga ad) affiancare a queste competenze umanistiche sistemi di apprendimento e classificazione guidati da agenti intelligenti (Machine Learning), i soli in grado di muoversi all’interno dei Big Data individuando percorsi coerenti. Anche in questo ambito è tuttavia necessario distinguere, come fa Manovich, tra due diversi approcci:

  • il Supervised machine learning, utilizzato dalle industrie e istituzioni culturali per classificare i prodotti, gli artisti, le correnti, sulla base delle categorie tradizionali, e quindi confermando e rinforzando i preesistenti criteri di valutazione estetica e di visione del mondo;
  • l’Unsupervised machine learning, che esplora liberamente i dati culturali digitali senza categorie prefissate, individuando in questo modo nuove imprevedibili connessioni e aprendo la strada a prospettive estetiche inesplorate.

A prescindere da Manovich, il rapporto fra arte e AI è comunque un ambito di studi ancora in continua evoluzione: certo è che, al di là delle diverse formulazioni teoriche, si tratta di un tema che ormai fa parte di quella necessaria alfabetizzazione culturale digitale che un artista o un operatore culturale dovrebbero possedere per muoversi nell’odierno universo dei media.

Creatività degli artisti

La suggestione che l’AI esercita direttamente sugli artisti si manifesta in modi molto diversi, di cui vedremo qui alcune applicazioni.

C’è ad esempio un approccio che si collega alla Data Visualization: Refik Anadol ha condotto una serie di rilevazioni con elettrocardiogramma su soggetti volontari e ne ha registrato le reazioni emotive generate dalla memoria di particolari eventi, passando poi i dati ad un algoritmo che ha prodotto un affascinante videomapping che ben rappresenta l’addensarsi delle memorie personali; o ancora Ryoji Ikeda presenta una videoinstallazione dove l’AI gestisce la spettacolarizzazione integrata di un flusso ininterrotto di dati numerici, testuali, visuali e sonori che avvolgono lo spettatore in un ambiente immersivo.

Un caso diverso è quello del collettivo Obvious, il cui “dipinto” Portrait of Edmond Belamy è stato battuto all’asta da Christie’s nell’ottobre 2018 per 432.500 dollari. Qui lo scopo è ricollegarsi alla tradizione della grande ritrattistica, imitando quindi la pittura dei secoli passati: per far questo sono stati usati specifici algoritmi, ai quali sono stati dati in pasto più di quindicimila ritratti di epoca rinascimentale e moderna; avendo individuato le costanti e le variabili presenti nel database di riferimento, il software è stato in grado di generare tutta una serie di ritratti “di famiglia”. I progettisti hanno usato in questo caso modelli GAN (Generative Adversarial Network), che implementano due algoritmi contemporaneamente: uno genera ininterrottamente le immagini, mentre l’altro le processa in tempo reale escludendo quelle non pertinenti.

Ian Cheng invece costruisce un mondo fittizio che richiama il cinema e i videogiochi: la sua trilogia Emissaries è descritta come un “habitat per storie” o un “videogioco che si gioca da solo”, dove elementi di flora e fauna generati graficamente al computer interagiscono tra loro, si modificano e ricombinano in un flusso narrativo senza fine, guidati da sistemi logici complessi e modelli multipli interconnessi di AI.

O ancora A Woman with the Technology di Ziyang Wu coinvolge nel processo creativo la vita stessa dell’artista: sulla base di una serie di parole chiave predefinite, le sue attività di ogni giorno vengono monitorate e registrate dando vita ad un flusso di video su tre canali. Successivamente gli elementi codificati nei video vengono utilizzati da un agente AI per generare la sceneggiatura di un video di animazione, dove tutti gli elementi del processo vengono spettacolarizzati in un prodotto che trae origine dalla vita quotidiana dell’artista per interagire con l’universo surreale, caotico e onirico immaginato dalla macchina.

Infine non va dimenticato che l’avvento dell’AI sta aprendo un dibattito giuridico – che in questa breve rassegna interessa solo marginalmente – sul diritto d’autore (Panella, 2019) e sulle problematiche di identità autoriale che sorgono di fronte ad un’opera d’arte “generata dall’Intelligenza Artificiale”.

Industrie creative e culturali

Oltre che la creatività del singolo artista, l’AI sta modificando anche i modi di produzione delle industrie creative e culturali.

Innanzitutto il cinema: ha fatto notizia il caso di Erica, un robot guidato da AI scritturato come attore in un film di fantascienza. Ma al di là di questi aspetti aneddotici, di fatto l’AI è da tempo usata largamente nel comparto cinematografico, soprattutto per quanto riguarda la componente storytelling (Sassoon, 2019): ad esempio nella scrittura di sceneggiature, soprattutto di prodotti seriali dove è necessario combinare in maniera sempre nuova gli elementi di base (personaggi, ambienti, situazioni); o nel confezionamento dei trailer, per identificare i tratti salienti del film in relazione alle attese del pubblico; o – in misura ancora maggiore – nel settore del cinema immersivo e interattivo, collocato sempre più sul terreno di confine con i videogiochi. Un settore in ampia espansione, su cui non mancano aggiornate riflessioni teoriche (Eugeni, Pisters, 2020).

Anche l’altro grande comparto del consumo culturale, la musica, si apre all’AI: da tempo gli algoritmi vengono utilizzati nei generi musicali basati su schemi melodici, armonici e ritmici costanti e ripetitivi, come ad esempio la Kletzmer music, o il blues o in genere la musica popolare. Su un piano diverso invece, più trasversale, si colloca la collaborazione fra Microsoft e la cantante Björk, che ha reso disponibile per il progetto Kórsafn il suo archivio di arrangiamenti corali: un algoritmo registra tutte le variazioni nel cielo di New York (nuvole, nitidezza, luce/buio, ecc.) associando in tempo reale alle variazioni atmosferiche il mix degli arrangiamenti corali di Björk, generando così una ininterrotta e sempre diversa colonna sonora in tempo reale del panorama newyorkese.

Il coinvolgimento dell’azienda di Bill Gates in questo progetto non è casuale: da tempo infatti Microsoft sta transitando – come del resto tutti i grandi attori del digitale – da un’identità di software company a quella di player mediatico. Il progetto “AI for Cultural Heritage” va esattamente in questa direzione, sperimentando l’utilizzo degli agenti intelligenti tanto nella produzione quanto nella fruizione della cultura e dell’arte.

Un ambito in cui è attivo anche Google, che fa convergere due linee di ricerca (AI Experiments e Art&Culture Experiments) in un’iniziativa di finanziamenti per artisti interessati a sviluppare progetti artistici innovativi con forte componente AI.

Archivi, musei, istituzioni

L’AI non è presente solo nella produzione di arte e cultura, ma interviene sempre più anche nella gestione di questi prodotti.

Gli archivi, essendo grandi repository di dati, sono il terreno ideale per l’applicazione di sistemi intelligenti. Il Polo del ‘900 di Torino ha commissionato agli artisti Salvatore Iaconesi e Oriana Persico un progetto innovativo di esplorazione degli oltre 400.000 documenti digitalizzati in suo possesso: un approccio trasversale rispetto ai tradizionali criteri di catalogazione e fruizione degli archivi, che elabora un sistema di accesso aperto basato sull’Intelligenza Artificiale e sulle associazioni semantiche.

Un progetto diverso, meno amministrativo e più orientato alla spettacolarizzazione, è quello sviluppato dal MoMA di New York e dal Google Art & Culture Lab, intitolato “Identifying art through machine learning”. L’algoritmo sviluppato da Google ha esplorato decine di migliaia di fotografie dei repertori del museo, cercando connessioni con le opere della collezione online e con la documentazione esistente sulle mostre tenute dal MoMA dal 1929 in poi: ora, sulla base dei dati analizzati, il sistema propone autonomamente nuovi percorsi di lettura al di fuori delle logiche curatoriali o interpretative storico-artistiche.

Da parte sua la Tate Gallery di Londra lancia “Recognition”, un programma di Intelligenza Artificiale che associa – in base a pattern formali e di contenuto – le immagini delle opere d’arte custodite dal museo con le immagini giornalistiche che vengono lanciate ininterrottamente dall’agenzia giornalistica Reuters, trovando similitudini, analogie, lontane parentele, e attivando di conseguenza imprevedibili cortocircuiti nell’immaginario visuale.

Progetti diversi tra loro, ma accomunati dal fatto di affidarsi all’AI per esplorare nuove forme di rivitalizzazione dei patrimoni culturali, uscendo dalla dimensione puramente documentale per affrontare le sfide della spettacolarizzazione.

Mostre ed esposizioni con intelligenza artificiale

Un settore in cui l’AI sta avendo notevole sviluppo è infine quello delle mostre ed esposizioni.

Non si contano le mostre in cui il rapporto fra AI, arte e cultura costituisce il tema espositivo principale: al MAXXI di Roma “LOW FORM. Immaginari e visioni nell’era dell’intelligenza artificiale” con particolare attenzione agli aspetti di simulazione; all’Hermitage di San Pietroburgo “Artificial Intelligence and Intercultural Dialogue” rivolta ai rapporti fra culture diverse; al Sheila C. Johnson Design Center di New York “The Question of Intelligence — AI and the Future of Humanity” con un approccio filosofico alla questione dell’identità personale; al de Young Museum di San Francisco “Uncanny Valley: Being Human in the age of AI” dedicata al rapporto uomo-macchina; all’Osservatorio Fondazione Prada di Milano “Training Humans” sui repertori di immagini usati per addestrare le AI; alla Biennale di Urbanistica/Architettura di Shenzhen “Eyes of the City” sull’impatto dell’AI e delle nuove tecnologie sulla vita delle città; e molte altre.

Più curiosi, ma da verificare nei risultati, gli annunci di due biennali che dovrebbero essere curate da agenti di AI: la Biennale di Liverpool 2020, rimandata al 2021 a causa del Covid-19, che ha lanciato al mondo dell’arte una call di raccolta dati per costituire il database su cui elaborare poi la linea progettuale; e la Biennale di Bucarest 2022, dove l’algoritmo Jarvis ha il compito di esplorare i database di gallerie, università, istituzioni, enti culturali, per selezionare poi gli artisti da invitare.

Su un piano più complesso e ambizioso, il Metropolitan di New York sta portando avanti con Microsoft e MIT un progetto di ricerca che prevede un intenso uso dell’AI: lo scopo è ripensare completamente l’approccio del pubblico alle opere esposte, dalle procedure di tagging all’estrazione di categorie semantiche dai post inviati sui social, fino alle linee narrative che i visitatori intendono seguire nei percorsi del museo.

Egualmente orientato a cogliere e classificare la reazione estetica dello spettatore l’esperimento condotto da Gallerie d’Italia e Intesa Sanpaolo Innovation Center. Alcune opere d’arte sono state mostrate a visitatori muniti di particolari dispositivi digitali di rilevamento: un eye-tracking device, per tracciare i movimenti oculari; una brain computer interface, per rilevare l’attività elettrica cerebrale; uno stress bracelet per misurare le reazioni di intensità emotiva. Tutti questi dati sono stati elaborati da un agente intelligente in modo da restituire una sorta di valutazione “oggettiva” della reazione estetica: un esperimento che richiede ancora ampi margini di verifica, ma fa comunque intravedere interessanti scenari in cui lo spettatore è chiamato a mediare la sua risposta emotiva “naturale” con parametri automatici di valutazione.

Conclusioni

Non è semplice individuare dei criteri per dare una valutazione estetica di questi prodotti. Innanzitutto, bisogna considerare che il campo di ciò che consideriamo “arte” si è molto esteso, dalle avanguardie novecentesche fino all’arte contemporanea: con gli esperimenti situazionisti, l’arte concettuale, l’arte relazionale, le performance e le installazioni, il concetto di “opera d’arte” è esploso in mille frammenti consentendo ogni sorta di sperimentazione.

Inoltre l’avvento dell’era digitale accentua questa disgregazione e rende ancora più complessa la valutazione: infatti, il contatto fra arte e tecnologie digitali lascia spazio a quel fenomeno che ho recentemente definito (Lughi, 2018) come “tecno-kitsch”, un fenomeno che – al di là della definizione generica di “cattivo gusto” – è caratterizzato da un eccesso di fiducia nella tecnologia, come se la sperimentazione di un nuovo software o la programmazione di algoritmi efficaci fosse sufficiente per garantire un risultato estetico: lo stesso Manovich, in un post sarcastico del 2016, ironizzava su questi volonterosi quanto penosi esperimenti notando come sarebbe auspicabile che si impiegasse l’AI per scopi utili al cittadino, piuttosto che tentare di imitare – e con scarso esito – i pittori della domenica.

Quando si parla di arte occorre considerare che ciò che viene valutato non è esclusivamente l’oggetto artistico in sé, o l’abilità del suo esecutore: il fare artistico non si riduce a qualche orpello grafico, o a qualche ideuzza ingegnosa, ma ha senso se trova un pubblico che lo apprezza, se riesce a far vibrare le emozioni, a stimolare l’immaginario, a incidere sull’identità delle persone, a dare risposta ai grandi e piccoli interrogativi che l’uomo si pone.

Le produzioni artistiche dell’AI non vanno quindi valutate “in sé”, ma collocate sullo sfondo del difficile percorso che il digitale sta compiendo per integrarsi nel mondo della cultura: a valutarle – senza censure e senza facili entusiasmi – sarà il tempo, insieme alla loro capacità di fecondare la nostra immaginazione e le nostre emozioni.

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Bibliografia

Ruggero Eugeni, Patricia Pisters, The artificial intelligence of a machine: Moving images in the age of algorithms, in NECSUS, Spring 2020_#Intelligence, July 6, 2020.

Giulio Lughi, Tecno-Kitsch: la spettacolarizzazione digitale dell’arte, in “Piano B”, n. 2, 2018.

Lev Manovich, AI Aesthetics, Moscow, Strelka Press, 2019.

Arthur I. Miller, The Artist in the Machine.The World of AI-Powered Creativity, Cambridge (MA), The MIT Press, 2019.

Alessia Panella, Arte e tecnologia: da oggi l’arte è morta?, in “AES. Arts and Economics”, n. 6, ottobre 2019.

Joseph Sassoon, Storytelling e intelligenza artificiale. Quando le storie le raccontano i robot, Milano, Franco Angeli, 2019.

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