Che cosa è e in quali termini si può descrivere la violenza nell’uomo? Esclusivamente come una manifestazione antisociale prodotta dal soggetto e quindi assolutamente negativa; o vi è forse qualcosa di più? Forse la violenza potrebbe essere invece intesa come un carattere adattativo favorevole dal punto di vista evolutivo?
Ed esiste la possibilità che il suddetto carattere possa essere stato geneticamente “importato” da specie di ominini affini all’Homo sapiens tramite ibridazione? L’indagine deve necessariamente rivolgersi al passato remoto dell’Homo sapiens, esplorando la sua filogenetica e l’ambiente nel quale egli si è evoluto.
La violenza, pertanto, potrebbe essere concepita non soltanto come una manifestazione avversa o patologica per l’uomo, al contrario essa può essersi rivelata in passato fondamentale per la sopravvivenza di noi tutti definendo il suo scopo a livello evoluzionistico di matrice Darwiniana.
Per definire e comprendere la fenomenologia in questione, necessariamente dovremo utilizzare macchine pensanti (intelligenze artificiali) in grado di elaborare un vasto numero di informazioni (Big Data) giacché la teoria in argomento si fonda su parametri evoluzionistici e criminologici che afferiscono, per loro precipua natura, a comparti scientifici multidisciplinari, le cui risultanze si originano da prodotti informativi particolarmente espansi per numero di variabili delle quali tenere conto.
Tutto ciò afferisce alla teoria scientifica denominata:” Criminogenesi evolutiva” (Lusa et al, 2018) la cui trasposizione potrebbe essere compiuta mediante l’ausilio della matematica. Il risultato finale risulterebbe del tutto innovativo e spalancherebbe panorami scientifici completamente inediti, potendo in tal modo addivenire alla rappresentazione dell’aggressività come descrizione di un fenomeno in continua mutazione e sorretto da precise leggi scientifiche in grado di dimostrarne la sua origine e la propria evoluzione nel futuro. In altri termini, si potrebbe pervenire a determinare l’eventualità che l’aggressività, in ambienti del tutto diversi da quelli a noi consoni, possa manifestarsi in modalità del tutto diverse da come oggi possiamo concepirla e quindi studiarla.
Si pensi a tal uopo all’espansione umana nel sistema solare in rapporto a nuovi ambienti e alle conseguenze che ciò determinerebbe sul compramento umano in futuro. Lo scopo di questo lavoro si fonda su tali premesse che ora andremo a sviluppare.
Materiali e metodi
Charles Darwin (1809-1882) e Alfred Wallace (1823-1913) definirono il ruolo della selezione naturale (Teoria della Selezione naturale) come organizzazione del mondo vivente. L’ispirazione del prefato asserto teoretico si origina in Darwin grazie alla teoria economica di Thomas Malthus (1766-1834) secondo la quale la popolazione della Terra è in grado di crescere sino all’esaurimento delle riserve di cibo. Diretta conseguenza della teoria malthusiana è che i più deboli devono soccombere. Darwin, nel 1859, pubblica “L’origine delle specie”, sulla quale riposa la teoria dell’evoluzione. Nelle varie specie si avrebbero delle mutazioni naturali casuali, che intervengono nel momento della riproduzione; sarebbe poi l’ambiente a “premiare” quelle dotate delle caratteristiche maggiormente adatte alla sopravvivenza. Viceversa, l’ambiente gradatamente sopprimerebbe le altre. È la casualità biologica basata su un’ampia variabilità genetica (la variazione come evento casuale) il motore sul quale si fonda la selezione naturale e la conseguente evoluzione degli individui.
Il suddetto termine coniato da Darwin consiste nella sopravvivenza degli individui che si dimostrano meglio adatti all’ambiente e nel quale essi si trovino a vivere, anche in virtù dei caratteri che sono tramandati agli individui della nuova generazione in modalità ereditaria (Darwin, 1859). In altri termini, i soggetti in possesso di qualità ereditarie più vantaggiose rispetto ad altri, nel tempo si dimostreranno capaci di riprodursi con successo in virtù delle predette qualità che consentiranno loro di sopravvivere. Un cambiamento nel genoma che si proponga in modalità piccola o esigua, in realtà potrebbe assumere modificazioni molto vaste dal punto di vista organiche e anatomiche e, non ultimo, anche comportamentale (e quest’ultimo cambiamento ci sta particolarmente a cuore ai fini della nostra ricerca). Il neo darwinismo invece ci conduce a vedere nell’ambiente, oltre che nella selezione naturale per effetti casuali) un filtro in grado di premiare non gli organismi, ma le cellule germinali. L’ambiente insomma agisce direttamente sulle cellule germinali con modificazioni dal genotipo al fenotipo (Auguste Weissman 1834-1914). Questa fenomenologia viene anche definita come plasticità fenotipica. Per tornare all’obiettivo della presente ricerca, e come precedentemente premesso, la violenza può essere intesa non esclusivamente come un fattore “maladattivo”, ma anche benevolo per l’essere umano. Questo fattore che può anche essere denominato: “carattere” ed esso assume un suo preciso connotato biologico all’interno della teoria della Criminogenesi Evolutiva. La teoria peraltro mette in sistema vari parametri scientifici per tentare di comprendere l’origine della violenza nell’uomo.
Alcuni di questi parametri sono propri delle Scienze antropologiche come ad esempio:
- la migrazione umana,
- le mutazioni genetiche,
- la deriva genetica,
- la selezione naturale.
Il dato innovativo invece si manifesta quando succitati parametri vengono per la prima volta messi in sistema con altri tre parametri di stampo criminologico:
- la biologia dell’encefalo,
- la personalità dell’autore di reato,
- l’ambiente ove quest’ultimo vive o ha vissuto.
Il tutto con il precipuo intento di chiarire se il carattere adattativo della violenza sia frutto di una possibile mutazione biologica, poi premiata dalla selezione naturale, ovvero se la violenza sia invece dovuta a una compente genetica importata da specie umane affini al sapiens e con le quali quest’ultimo, in tempi assai remoti, è venuto a contatto instaurando probabili relationship di natura sessuale, tali da permettere l’importazione, nel nostro patrimonio biologico, di alcuni tratti genetici che potrebbero risultare predisponenti all’aggressività (introgressione genetica). In letteratura nondimeno vi è prova che ciò si è verificato per altre tematiche scientifiche pertinenti alla genetica anche nel campo nel comportamento come lo studio dell’allele MAOA-L.
La teoria della criminogenesi evolutiva
In effetti, in un dato individuo il possesso di certi alleli, e di alcune malformazioni a livello encefalico, possono essere poste alla base, in determinate condizioni, dell’effettuazione di atti efferati, come del resto la letteratura scientifica in argomento ha dimostrato. A tale riguardo, la teoria della Criminogenesi Evolutiva prevede tra le sue pieghe la possibile evoluzione/mutazione del genoma che è preposto al controllo e rilascio degli atti aggressivi nell’uomo, nell’ipotesi che il suddetto venisse a contatto con nuovi e sconosciuti ambienti. Così, le migrazioni umane, verificatesi sui vasti territori planetari, hanno portato gruppi di sapiens a contatto con altri aggregati e questi ultimi non sempre appartenevano ad altri sapiens. Ne sono scaturite eventuali commistioni genetiche dovute a scambi di natura sessuale tra varie specie coesistenti sul territorio e nel medesimo momento. La selezione naturale ha poi fatto il resto, poiché da tale mescolanza evolutiva, e sincrone, potrebbero essersi originati geni predisponenti alla violenza di natura benigna nel senso di “violenza reattiva”, ma anche “pro-attiva”. Peraltro, anche l’esistenza delle monoamine ossidasi – attualmente accertate nell’assetto genetico umano e predisponenti in senso criminologico a essere “geneticamente vulnerabili” o meglio maggiormente inclini al compimento di atti devianti – possiedono un’antica origine genetica che si attesta intorno ai 25 Ma. negli antichi primati, e poi tramandate geneticamente, per fenomeni speciativi, ai predecessori dell’attuale sapiens.
Variabilità genetica e spostamento di popolazioni
Deve essere considerato il dato scientifico che sussiste una stretta correlazione tra la variabilità genetica e lo spostamento di popolazioni. L’avvento dell’agricoltura invero avrebbe sancito, per i gruppi umani sapiens, la transizione da una tipologia di vita basata sulla caccia di animali e sulla raccolta di frutti selvatici (da qui l’appellativo per alcuni gruppi umani ancestrali caratterizzati dalla non sedentarietà sul territorio dei cacciatori-raccoglitori) a quella caratterizzata dall’allevamento del bestiame e dalla domesticazione delle piante. La transizione tra la caccia e la raccolta avrebbe altresì decretato il passaggio tra il Paleolitico (da 2,5 milioni di anni fa a circa 12.000 anni fa) e il Mesolitico (da 10.000 a 8.000 anni fa circa). Le migrazioni degli agricoltori, a causa della loro movimentazione, hanno favorito il contatto con i cacciatori-raccoglitori (gruppi stanziali), e così facendo hanno contribuito alla formazione di matrimoni con questi gruppi di isolati e ibridizzando questi ultimi e, di conseguenza, rivoluzionando l’assetto genetico del neo-gruppo; quest’ultimo risultato della fusione dei due precedenti. Allo stesso modo ciò può essersi verificato durante il periodo ancestrale nel quale Homo sapiens ha condiviso il territorio con altre specie come i Neanderthal o i Devisoniani. Si è detto che il genotipo rappresenta la totalità del patrimonio genetico di origine ereditaria che proviene dai nostri genitori e che si trasmette attraverso eguale modalità biologica/ereditaria. I genetisti non a caso identificano il genotipo con il DNA. Con l’espressione fenotipo, viceversa, intendiamo quello che è esteriore all’organismo e che pertanto è visibile in un individuo; il fenotipo è perciò concepibile in biologia, come l’interazione tra il genotipo e l’ambiente. La variazione di natura casuale è, secondo la biologia di popolazioni, il materiale grezzo dove opera la selezione naturale al fine di produrre cambiamenti nelle frequenze alleliche delle popolazioni. Senza variabilità in fondo non può sussistere l’evoluzione, così come oggi noi la concepiamo, perché l’ambiente non avrebbe a disposizione il materiale sul quale far agire la selezione in termini di permeabilità dei caratteri evolutivi vincenti.
L’epigenetica
A Niles Eldredge e Stephen Jay Gould si deve un’ulteriore raffinazione del teorema evolutivo che è sdato etichettato come “evoluzione per equilibri intermittenti o punteggiati”. Come in precedenza descritto, tutte le specie accumulano mutazioni a carico del proprio genoma così come Darwin predisse, ma affinché in genetica un determinato carattere si fissi nella specie nella quale compare, esso dovrà essere impresso nella struttura del DNA di quella specie e ciò in forma d’informazione genetica. Ebbene, secondo Eldredge e Gould l’evoluzione nella specie non si origina in virtù di una serie di piccole e graduali mutazioni, bensì a causa di un’improvvisa serie di sussulti genetici tali da innescare nella specie madre la nascita di una nuova specie. In tale ambito deve essere compresa anche l’epigenetica come fenomenologia biologica di natura non “casuale” ma “causale”. Partendo da Jean-Baptiste de Lamarck “Philosophie zoologique”. Secondo Lamarck gli organismi sarebbero il risultato di un processo di graduale modificazione dovuto alla “pressione” delle condizioni ambientali, in base a due leggi tra loro collegate: – “Legge dell’uso e del non uso”, secondo la quale un organo si sviluppa quanto più è utilizzato e regredisce quanto meno è sollecitato.
L’epigenetica raffina tale teoria adattandola ala verità biologica. Infatti, negli ultimi decenni si è gradualmente affermata in campo scientifico la teoria delle variazioni genetiche con risultanze alleliche, queste ultime originate per cause non darwiniane ovvero non casuali bensì causali. Questo in altri termini vorrebbe significare che non tutta la variazione genetica si manifesta per caso, ma essa, al contrario, parrebbe regolata dai principi lamarckiani che permetterebbero un’eredità “soft” delle variazioni gnomiche indotte dai fattori ambientali. Lamarck, infatti, concepiva l’evoluzione esclusivamente come risultato degli effetti ereditari dovuti all’uso ovvero al non uso di una determinata funzione dell’organismo. Darwin, com’è noto, dimostrò che altri fattori dovuti alla selezione naturale sono in grado di favorire o sfavorire la sopravvivenza di una determinata struttura biologica. In realtà, la visione darwiniana legata ai concetti evoluzionistici di specie, si rivela non esaustiva ai fini della comprensione dell’affermarsi di un determinato carattere a livello fenotipico. Conseguentemente una determinata esposizione ambientale su una data porzione di DNA può influenzare in modalità positiva o negativa, l’espressione di una variante genica nel determinismo del fenotipo.
La metilazione del DNA (funzione primaria che innesca alcuni geni responsabili dell’inattivazione del DNA estraneo all’organismo) in alcuni casi modula l’espressione fenotipica piuttosto che il tratto del DNA stesso, attivando alcuni geni sotto l’influsso ambientale, i quali si manifesteranno in modalità differente dalla loro primaria funzione e ciò comporta la variazione del fenotipo senza però alterare il genotipo. Peraltro, il gruppo metile rappresenta la base funzionale del fenomeno epigenetico, giacché quest’ultimo, che risulta essere formato da un singolo atomo di carbonio e da tre di idrogeno, è in grado di legarsi alle basi azotate della guanina (G) e della citosina (C) che costituiscono la catena del DNA, ed è il gruppo metile il responsabile dell’attivazione o disattivazione di alcune parti del genoma, in virtù del quale si origina il fenomeno epigenetico. Di conseguenza, le varianti delle manifestazioni del DNA sono più importanti delle sequenze con le quali lo stesso DNA è composto.
L’ambiente non modifica pertanto la sequenza del DNA, quanto la sua possibilità di esprimersi in modalità diversificata a livello fenotipico in risposta agli stimoli ambientali più o meno sfavorevoli. In campo epigenetico si trascorre quindi non tanto di fenomeni biologici di natura ereditaria ove il fenotipo deve la sua essenza non tanto in virtù del genotipo ereditato, quanto dalla sovrapposizione al genotipo stesso di sorta di “’impronta” che ne varia la funzione, e ciò accade in virtù dell’influenza che l’ambiente esercita sull’organismo. L’epigenetica, pertanto, può definirsi come un cambiamento di natura ereditaria che non modifica la sequenza nucleotidica di un gene, ma la sua espressione, attesa la circostanza che non avvengono in epigenetiche modifiche nella sequenza genomica (cioè del DNA) ma solo nella sua espressione esterna (fenotipica quindi).
Nel campo dell’aggressività l’epigenetica si rivela fondamentale al fine di comprendere i comportamenti di matrice brutale. Ad esempio, uno studio significativo si rinviene su una famiglia olandese, nella quale alcuni suoi membri maschi sono sati responsabili di numerosi atti di violenza come varie aggressioni fisiche a uomini e donne, minacce armate. Brunner, Nelen, Breakefield, Ropers, & van Oost, nel 1993 hanno scoperto che gli uomini presentavano una variante insolita di un gene che codifica per un enzima implicato nella degradazione dei principali neurotrasmettitori cerebrali, noto come monoaminossidasi (MAO). Questa famiglia è affetta da una mutazione particolarmente rara in questo gene, MAO-A. in variante corta L. Il gene MAOA si trova sul cromosoma X (Xp11.23-11.4) e produce l’enzima MAOA, che catabolizza preferenzialmente la serotonina, ma anche la dopamina e la noradrenalina. La bassa attività enzimatica è associata ad un aumento della reattività dell’amigdala e ad un decremento della connessione tra l’amigdala e la corteccia prefrontale mediale (Lee, & Ham, 2008; Dannlowski et al, 2009). Un recente studio condotto in Nuova Zelanda ha correlato una bassa attività dell’enzima a comportamenti violenti e antisociali, esclusivamente quando gli individui subiscono maltrattamenti da bambini (Caspi, McClay, Moffitt, Mill, Martin, & Craig, 2002). Gli istoni, che rappresentano la principale componente proteica della cromatina, agiscono come una spola attorno alla quale si avvolge il DNA, ed alcune proteine sono deputate a regolare l’espressione genica degli istoni modificando la struttura della cromatina. Questa espressione genica diviene trasmissibile alla prole (Caspi et all, 2002). La deriva genetica è qualcosa di diverso dalla variazione casuale, non agendo su scala espansa, ma più limitata, come ora appureremo.
La deriva genetica potrebbe altresì essere anche definita come un avvenimento naturale di tipologia stocastica. In altri termini il fenomeno in parola appare essere di natura casuale e aleatoria: ovvero probabilistica. Invero, le popolazioni che popolano la Terra subiscono da sempre grandi fluttuazioni a carico del numero di individui che vanno a comporle, e ciò a causa di eventi naturali (calamità, pandemie ecc.) ovvero conflittuali. Di conseguenza dette popolazioni vanno incontro sia a espansioni nel numero di soggetti che compongono i vari aggregati umani ovvero contrazioni nel senso della diminuzione numerica degli individui stessi. Alcune popolazioni, peraltro, sono state soggette ad avvenimenti così catastrofici, tali da determinarne un brusco e repentino decremento a carico degli individui ad essa appartenenti che gli studiosi di genetica di popolazioni denominano come population bottle-neck (effetto a collo di bottiglia). Peraltro, è pacifico che l’umanità nel corso del suo divenire storico sia andata incontro a diversi effetti del collo di bottiglia e questi ultimi sono da ritenersi estranei ai meccanismi che regolano la selezione naturale, e ciò anche in virtù di eventi addebitabili a disastri naturali. La prova di quanto sopra descritto si rinviene considerando che il nostro genoma non è molto variabile, e ciò forse si deve alle migrazioni che si sono verificate quando il sapiens ha iniziato ad abbandonare il contamente africano migrando verso altri lidi e tramite le meccaniche che a breve descriveremo. L’esposta fenomenologia è anche in parte dovuta al fatto che la maggiore variabilità si osserva nelle popolazioni africane, attesa la circostanza che le predette sono le più antiche e quindi hanno avuto modo di accumulare più variazioni genomiche nel tempo. È oramai acclarata in letteratura scientifica la presenza nel genoma del sapiens (il nostro quindi) di una porzione del DNA del neanderthal attestatasi intorno al 2-4%. Lo stesso discorso si può attuare anche per la presenza del DNA dell’Homo denisovensis del quale un percentuale di DNA sarebbe stata rinvenuta nei moderni melanesiani. Appare evidente che il sapiens si è mescolato, nel suo lontano passato, con specie, le quali condividevano con lui il pianeta, anche se in aree geografiche differenti.
Vieppiù, alcune malattie, come ad esempio il morbo di Parkinson, il diabete e alcuni tumori cutanei, sono da attribuirsi al lascito ereditario di natura genetica del neanderthal e avvenuto a causa della predetta promiscuità occorsa tra le due specie (neanderthal e il sapiens). Il neanderthal ha quindi introdotto nel nostro genoma un regalo non proprio gradito. In quali contesti la violenza da adattativa, e quindi benigna, diviene svantaggiosa e assume caratteri nefasti nei confronti della specie sapiens? Ci soccorrono in questo drammatico quesito gli ulteriori tre parametri di natura criminologia ovvero: la biologia dell’encefalo, la personalità dell’autore di reato e l’ambiente ove quest’ultimo vive o ha vissuto. Affinché ciò possa avere un riscontro fattivo in senso antropo-criminologico, occorrerà procedere alla valutazione dei tre parametri di natura criminologica come la personalità dell’autore de reato, lo studio della sua biologia. Ovvero l’esame dell’encefalo, al fine di comprendere la natura patologica della violenza; tutto ciò in commistione all’ambiente ove il soggetto è vissuto o vive.
I casi che dimostrano le potenzialità della criminogenesi evolutiva
Alcuni cases reports italiani in grado di dimostrare la potenzialità in ambito crimino-genetico circa la teoria della Criminogenesi Evolutiva.
- Sentenza Corte d’Assise d’Appello di Trieste n. 5 09/18/2009. Un quarantenne algerino, Bayout, coinvolto in una rissa nel 2007 a Udine, uccide a coltellate chi lo aveva provocato. Condannato in primo grado alla pena di 9 anni di reclusione, la Corte di appello dispone l’esame genetico e si riscontrano anomalie in cinque dei geni legati al comportamento violento, compreso un polimorfismo del gene (MAO-A). La corte di giustizia dice che: essere portatore dell’allele a bassa attività per il gene MAOA (MAOA-L) renderebbe Bayout «maggiormente incline a manifestare comportamento impulsivo ed aggressivo se provocato o escluso socialmente» ovvero affetto da una sorta di «vulnerabilità genetica» e la presenza nel patrimonio cromosomico dell’imputato di determinati geni lo rende «particolarmente reattivo in termini di aggressività in presenza di situazioni di stress, ancora di più se il soggetto in periodo infantile sia vissuto in un contesto familiare sfavorevole”(da sentenza n. 5 – 09/18/2009). In virtù di queste motivazioni la Corte di Giustizia di Trieste riduce la pena di 1/3.
- Tribunale di Como (Giudice per le indagini preliminari 20 maggio 2011-20 agosto 2011n.536). Il Giudice per le Indagini Preliminari presso il Tribunale Penale di Como condannò, alla pena di venti anni di reclusione, una giovane donna imputata e riconosciuta colpevole di aver ucciso la sorella quarantenne. La donna tentò inoltre di uccidere, mediante strangolamento, anche sua madre e di distruggerne il cadavere carbonizzandolo. Contestuale all’emissione della sentenza, giunse il riconoscimento da parte del Giudice del vizio parziale di mente dell’assassina dovuto a risultanze di specifiche indagini neuroscientifiche tese ad accertare se la donna presentasse alleli significativamente associati “ad un maggior rischio di comportamento impulsivo, aggressivo e violento” (da sentenza 05/05/2011 n.536). Il giudice, mediante perizia effettuata con test biologici, accertò in processo, la presenza di alcuni sfavorevoli alleli presenti nel patrimonio genetico dell’imputata, quali l’allele a bassa attività MAOA-L, il SCL6A4 (polimorfismo ST in2) e COMT (polimorfismo rs4680) in grado di rendere l’imputata incline alla violenza. A seguito di questo la pena irrogata è stata essenzialmente ridotta.
Risultati
L’intelligenza artificiale potrebbe essere impiegata al fine di mettere in matematica relazione i sette parametri sopra declinati al fine di ottenere un modello valido per comprendere l’origine dell’aggressività umana a livello ancestrale e predirne l’andamento futuro declinandone un possibile modello evolutivo.
Il progetto può trarre spunto dal modello comportamentistico di Kurt Lewin (1890-1947) denominato Teoria del Campo. In tale ipotesi si ritene che il comportamento (C) di un soggetto sia in funzione della sua personalità (P) e dall’ambiente (A) che lo circonda. Persona, ambiente divengono pertanto un sistema interconnesso. Per comprendere o prevedere il comportamento, dice Lewin, la personalità e l’ambiente devono essere considerati come un’unica costellazione.
Conseguentemente, per Kurt Lewin il Comportamento è funzione della persona con l’ambiente
C=f (P,A)
Da tale asserto potrebbe derivare che: il Comportamento aggressivo di tipologia benigna (adattativo) (Caa) si sviluppa in funzione di diversi parametri quali: Mutazioni (M) Selezione naturale (S), Deriva genetica (D), Migrazioni umane (Mi) che coinvolgono eventuali ibridazioni con specie coeve al sapiens in funzione della Biologia dell’encefalo e cumulati altresì in funzione a una tipologia di ambiente non stabilizzante (Ans) in grado di provocare mutazioni (M) anche di matrice epigenetica (secondo la teorizzazione già descritta in precedenza) diviso il Tempo evolutivo (Te).
La formula ipoteticamente in grado di essere elaborata (Lusa 2021) da un ‘intelligenza artificiale potrebbe basarsi su una struttura similare alla seguente esposizione i cui Big Data dovrebbero essere così considerati:
Caa= f (M,S,D,Mi) + (Be) +- f(Ans)/(Te)
La Biologia dell’encefalo (e le sue patologie) appaiono come risolventi al fine di comprendere la genesi degli atti devianti non adattativi di vari livelli di aggressività (anche di natura patologica) da porre in sistema con l’Ambiente ove il soggetto vive o è vissuto e spiegano l’origine dei fenomeni criminali e antisociali.
Conclusioni
Quanto sopra delineato risolve anche il conflitto scientifico e filosofico in ambito evoluzionistico generato dalle teorie di matrice comportamentale di Jean Piaget et al. poiché per Piaget vi è un finalismo nei fenomeni di “assimilazione” e “accomodamento” volti ad accrescere l’ambiente e far evolvere le potenzialità del vivente o per Monod circa il “caso” accettabile e la “necessità” dell’invarianza genetica (qui discutibile).
Si tratta invece di casualità adattativa, in seno all’ambiente, da intendersi come adattamento umano che si fonda sia sulla variabilità genetica (fenotipica e quindi anche epigenetica ovvero: il fenotipo è il risultato dell’interazione tra genotipo, epigenotipo e ambiente Waddigton 1942) nonché sulla selezione naturale. Il comportamento non è come per Piaget il motore dell’evoluzione, ma esso assume il ruolo di naturale conseguenza circa l’evoluzione dell’aggressività come carattere adattativo che può influire anche sul soma (si formula l’ipotesi della statura eretta ai fini aggressivi per migliorare la visione ambientale e utilizzare armi da lancio).
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