Nessun paese europeo dispone della necessaria massa critica nel settore dell’intelligenza artificiale (AI) al contrario di Stati Uniti, Cina e Israele, che sono stati in grado di sviluppare nel tempo ecosistemi oggi in posizioni di leadership globale.
Tolto il Regno Unito, solo Francia e Germania si contendono un primato europeo negli investimenti in start-up dedicate all’Intelligenza Artificiale, mentre l’Italia occupa ancora una posizione marginale.
Un’Europa compatta, nella quale possano attuarsi strategie e politiche unitarie, consentirebbe di rapportarsi alla pari con altri blocchi geografici, segnatamente Stati Uniti e Cina, su una materia così centrale e con profonde implicazioni economiche e geopolitiche. Evidentemente, siamo ancora molto lontani dalla realizzazione di un disegno organico europeo e, su questo argomento come su molti altri, sembrano prevalere egoismi e limiti nazionali.
La Brexit, allontanando uno dei leader negli investimenti in start-up AI, ha sancito un ulteriore freno alla costruzione di una casa europea tecnologica.
Approcci all’innovazione e tendenze mondiali
L’esempio dell’AI, settore di punta nell’high-tech, testimonia come alcuni paesi abbiano deciso di progettare e realizzare la propria leadership nei vari campi dell’innovazione, partendo da vocazioni di base molto chiare e consolidate. Gli Stati Uniti con le aree di Silicon Valley e più recentemente Seattle e New York nelle varie applicazioni high-tech con taglio consumer, Israele con una florida attività di innovazione costruita intorno all’industria della sicurezza. E non poteva che nascere in Cina il controllo su tutta la popolazione di oltre 1,4 miliardi di persone attraverso sistemi di social credit score abilitati da tecnologie AI. Il venture capital e gli investimenti in tecnologia sono proliferati in quei paesi, quindi, valorizzando chiare vocazioni di partenza a capacità di guardare ai trend futuri.
In Europa, la Francia segue da qualche tempo una linea volta allo sviluppo delle future imprese intorno al perno del venture capital declinato su quattro temi: AI e big data, biotecnologie, internet delle cose, mobilità condivisa. Non avendo la fortuna come noi di contare sul mid-market manifatturiero, stanno allevando in quel paese una futura classe di aziende tecnologiche con una precisa strategia che passa dalle iniziative dirette ed indirette promosse da BPI France.
Il quadro italiano del venture capital
Ci si potrebbe allora chiedere quale sia la vocazione dell’Italia e se, anche da noi, abbia senso uno sviluppo del venture capital per temi. In altri termini, ha senso porre la questione di una connotazione nazionale rispetto alla virtuale pipeline entro cui corre la finanza a supporto delle start-up, nei vari passaggi da pre-seed, seed, VC early stage, VC later stage, da vedere quindi in logica di infrastruttura paese per costruire future aziende pronte per innescare la successiva crescita profittevole con tutti gli strumenti disponibili del private capital fino all’eventuale stadio della quotazione in borsa?
Prima di fornire qualche suggestione per una via italiana, sarebbe utile ricostruire il quadro del nostro mercato del venture capital.
Da un esame su alcuni aspetti chiave, emerge per prima cosa un promettente sviluppo nel mercato VC a partire dal 2018 e in crescita nel 2019, con un valore degli investimenti pari a circa 600 mln di euro, quindici volte superiore ai cinque anni precedenti. Tuttavia, nel solo confronto europeo, il nostro mercato risulta essere ancora marginale sia per volumi sia per struttura: mancano infatti operazioni di valore superiore a 50 mln di euro e solo il 7% supera 4 mln di euro, rispetto a una media dei principali paesi europei pari al 36%. L’Italia non è rappresentata nella graduatoria dei 10 principali investimenti del 2019 corrispondenti a 2,8 mld di euro.
Si investe senza indirizzo per settore o tecnologia, piuttosto si tratta prevalentemente di innovazione nei processi e nei modelli di business, mentre sono poche le vere iniziative di innovazione tecnologica e di prodotto. La finanza segue le buone idee di imprenditori spesso di rango ma anche privi di vere ambizioni e capacità di puntare ai mercati globali, risultando poco attrattivi per grandi fondi internazionali.
Abbiamo meno di trenta operatori del VC di cui dieci realmente attivi, contro un valore compreso tra cento e duecento di Spagna, Germania, Francia e Regno Unito. Gli operatori di venture capital in Italia preferiscono focalizzarsi su investimenti compresi tra 0,5 e 15 mln di euro. Guardando ai circa 200 incubatori presenti in Italia, di cui il 18% è certificato e con presenza concentrata in Lombardia, nessuno compare nella top 10 europea e nemmeno gli acceleratori hanno per il momento un peso specifico rilevante nel confronto internazionale.
Infine, in Europa cresce il corporate venture capital, con una raccolta in aumento del 40% annuo nel periodo 2014-2018. Il modello sembra assicurare maggiore impatto alle aziende investite se è vero che in Italia, le startup innovative CVC-backed hanno registrato una crescita dei ricavi del 63% nel periodo 2015-2017 rispetto al 46% della media del campione di aziende con un fondo VC alle spalle.
Programmare l’Italia tecnologica del 2030
Il quadro del venture capital in Italia, solo apparentemente a tinte fosche, dimostra semplicemente che è in corso un processo di costruzione di un settore che richiede ancora un po’ di tempo, valutabile in almeno altri cinque anni da oggi per raggiungere stabilità e massa critica. Nel percorso che abbiamo di fronte, potremo di certo stare lontani da alcuni fenomeni patologici, per lo più concentrati nella Silicon Valley, come ad esempio il blitzscaling associato alla rincorsa di serie progressive di finanziamenti a cosiddetti unicorni, strutturalmente in perdita, da parte dei fondi venture con l’unico obiettivo di raggiungere IPO inconsistenti alla prova dei mercati.
Abbiamo invece l’occasione per programmare l’Italia tecnologica del 2030, puntando a rafforzare il settore del venture capital e indirizzando l’azione di tutto il private capital, il capitale che scorre nella virtuale pipeline che collega pre-seed e IPO.
L’argomento, più in generale, riguarda la direzione di marcia della finanza per la competitività del nostro paese. Si tratta di un pezzo importante della politica industriale, per conciliare una regia-paese con le libere scelte del mercato. Il caso francese dimostra come questo obiettivo passi dalla realizzazione di condizioni base, solo in parte presenti oggi nel nostro paese, tra cui: qualità dei centri di ricerca e adeguatezza della spesa in R&S, massa critica nelle iniziative delle scienze della vita e dell’intelligenza artificiale, numero laureati STEM, quadro normativo semplice e bendisposto verso il mondo delle start-up, capacità di accogliere investitori in grado di fare opinione su scala globale, localizzazione della ricerca di grandi imprese digitali innovatrici, casi di scale-up internazionale da celebrare, supporto pubblico di peso attraverso BPI e La French Tech. Un vero ecosistema dell’innovazione è qualcosa di complesso e serve tempo prima che tutti gli ingredienti che lo compongono trovino la giusta combinazione.
L’Italia sembra ancora all’inizio di un promettente percorso nel quale l’azione diretta e indiretta del Fondo Nazionale Innovazione costituirà uno snodo fondamentale sia per il consolidamento del mercato VC sia per contribuire a realizzare l’Italia tecnologica, intesa come economia reale, del 2030. Utile valutare oggi alcuni indirizzi, senza tuttavia vincolare eccessivamente gli ambiti di intervento. In attesa che gli altri pezzi dell’ecosistema italiano maturino di pari passo, perché la finanza da sola non basta. Basti pensare alla carenza nel numero di professionisti nel settore del venture capital in Italia: le caratteristiche son diverse da quelle richieste ad esempio nel private equity. Nel merito, si dovrebbe senz’altro densificare la disponibilità di risorse per alimentare le buone idee dal basso, senza troppa selezione e dando ossigeno alle iniziative avviate ai primi stadi di sviluppo dai business angel molto attivi nel nostro paese anche in forme organizzate come ad esempio IAG. Ci penseranno i buoni progetti a dimostrare la propria forza alla prova del tempo.
La vocazione dell’Italia nell’AI
La tutela del nostro patrimonio di aziende eccellenti, campioni nazionali e piccole e medie imprese, è un tema che intercetta tutti gli stadi del VC. Una start-up è spesso un avamposto sulle trasformazioni che investono molti settori tradizionali alle prese con l’evoluzione/rivoluzione tecnologica, complice l’accelerazione esponenziale del cambiamento. Il supporto alle start-up può consentire di accelerare il processo di innovazione delle aziende tradizionali e consolidate attraverso l’unione di atomi e bit, anche nella forma dell’open innovation. La combinazione dell’esperienza di un’impresa tradizionale con l’innovazione radicale di una start-up è una formula che può risultare vincente, soprattutto in Italia. Qui si innesta anche l’argomento del corporate venture capital, senz’altro da promuovere e incentivare.
Probabilmente non saremo tra i paesi leader nello sviluppo di soluzioni di intelligenza artificiale per competere con Stati Uniti, Cina, Gran Bretagna, Israele, Francia e in parte Germania. Non abbiamo giocato a pieno titolo quella partita. Tuttavia, forti di una tradizione manifatturiera di eccellenza, siamo già in grado di eccellere, ad esempio, in applicazioni AI molto specializzate in chiave industria 4.0. Oppure, possiamo guadagnare una leadership nei processi produttivi di additive manufacturing conoscendo bene come superare i limiti dei processi produttivi tradizionali. Ci sono molti altri esempi di innovazione radicale applicata all’automazione industriale nei quali l’Italia ha una naturale vocazione. Il nostro paese è inoltre terreno fertile per esprimere eccellenze, sotto il profilo dell’innovazione di prodotto e del modello di business, in molti ambiti nei quali abbiamo fondamentali forti, come agrifood, biotecnologie e scienze della vita, medtech, mobilità delle persone e delle cose, solo per fare qualche esempio.
La sfida di realizzare il cambio di passo nel venture capital e innescare la trasformazione profonda dell’economia reale portando a compimento la visione dell’Italia tecnologica del 2030 è alla fine una questione di persone, con le giuste idee, la motivazione e il coraggio. Le stesse componenti che hanno consentito di realizzare in un recente passato grandi storie di imprese e di talenti che hanno reso grande il nostro paese nel mondo.