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Intelligenza artificiale nelle professioni legali: paradossi e possibili modelli di utilizzo

Tutti i professionisti sono convinti di non poter essere sostituiti dall’intelligenza artificiale: è stato ribattezzato il “paradosso di Craig”. Accade anche nell’ambito delle professioni legali. Chi ha ragione?

Pubblicato il 30 Apr 2021

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Un filosofo francese oggi non ancora quarantenne, Gaspard Koenig, ha pubblicato nel 2019 [1] il resoconto di un viaggio nell’intelligenza artificiale (AI). Viaggio anche in senso letterale, visto che il libro è basato su decine di incontri in giro per il mondo con i protagonisti del settore.

Tra loro, Craig Hanson, creatore a San Francisco di un fondo d’investimento specializzato in AI, spiega al suo interlocutore come tale tecnologia sia in procinto di sostituire un po’ ovunque l’opera intellettuale dei professionisti. “Sarà quindi anche lei rimpiazzato da un’AI capace di analizzare un business model e di anticipare le opportunità del mercato?”, chiede il filosofo (candidamente, precisa lui, ma non sarei particolarmente propenso a credergli). Ah no, risponde prontamente il mago della finanza, offeso, l’investimento è attività troppo complicata, sarà l’ultimo settore ad essere automatizzato.

Il paradosso di Craig

L’AI sostituirà ogni professione tranne la mia è assunto (che Koenig propone di battezzare Paradosso di Craig) in verità assai diffuso, e neppure un recente volume, opera di giuristi italiani di primissimo ordine [2], fa eccezione: discorre dell’impatto dell’AI sugli ambiti più svariati ma inutilmente si cercherebbe un’analisi in relazione all’organizzazione delle professioni legali. Attenzione però, avverte Koenig, a non farsi troppo facilmente beffe del paradosso, che potrebbe anzi rivelarsi un utile correttivo analitico: siamo sempre certi che chi discorre dell’agevole sostituibilità di una determinata figura abbia davvero capito fino in fondo cosa quel professionista fa ogni giorno? [3]

Muovendosi alla ricerca di altre fonti nel mondo legale, non si può far troppo affidamento su quanto proviene da Oltreatlantico: basti pensare all’importanza che in quell’esperienza giuridica ha il discovery [4], che assorbe non di rado energie colossali ma, per altro verso, si presta bene all’efficiente utilizzo di sistemi di AI.

Cos’è l’AI oggi?

Mi è sempre piaciuta la definizione un po’ discola secondo la quale l’AI è semplicemente the next thing, ciò che ancora non è stato realizzato, e collochiamo in un futuro più o meno mitizzato. In fondo continuiamo a parlare dell’arrivo dell’intelligenza artificiale mentre nelle nostre abitazioni Alexa dà prova di potenzialità non poi così diverse da quelle di HAL 9000 in 2001 Odissea nello spazio, anche se, a differenza di HAL, ancora non mi ha chiuso fuori casa. La fantascientifica intelligenza artificiale di ieri è l’elettrodomestico di oggi.

2001: A Space Odyssey (1968) - I'm Sorry, Dave Scene (3/6) | Movieclips

2001: A Space Odyssey (1968) - I'm Sorry, Dave Scene (3/6) | Movieclips

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È dunque forse meglio chiedersi: cos’è l’AI oggi? Penso che la stragrande maggioranza degli specialisti risponderebbe senza esitazioni: il machine learning. Non proverò neppure a descrivere come ciò avvenga, compito che lascio ai veri esperti, limitandomi ad un punto, peraltro decisamente ovvio. Per imparare, occorrono dati. Sterminate praterie di dati sui quali formare ed allenare il sistema; in mancanza, anche il miglior algoritmo è utile quanto un frigorifero vuoto all’ora di cena.

La piattaforma ROSS

Apparentemente, i dati non sono un problema per i giuristi. Abbiamo banche dati ricchissime, di legislazione, dottrina e giurisprudenza, sulle quali costruire sistemi intelligenti di ricerca giuridica. Non a caso ROSS, secondo molti la piattaforma di AI giuridica più promettente, ha chiuso i battenti lo scorso gennaio sotto i colpi di un’azione legale di Thomson Reuters, che controlla il database giuridico WestLaw: ROSS era accusata d’averlo indebitamente saccheggiato per procurarsi i dati che le occorrevano. Un vero peccato, giacché ROSS era molto interessante. Tra le varie funzionalità che mi era capitato di provare, mi aveva impressionato l’aggiornamento dei pareri giuridici. In pochi secondi, ROSS scandagliava un parere e segnalava legislazione, dottrina e sentenze apparse dopo la redazione del testo esaminato; colori diversi distinguevano i contenuti nuovi, ma assimilabili a quelli già noti, da quelli difformi, suscettibili di imporre una revisione del parere. Manna per i grandi studi legali, cui sono quotidianamente richiesti pareri su argomenti già affrontati in passato.

Sono stati poi ampiamente discussi in questi anni, anche per le loro preoccupanti implicazioni sociali [8], i sistemi destinati ad assistere i giudici nell’assunzione di decisioni, e che possono essere utilizzati dai professionisti in funzione predittiva.

Intelligenza artificiale e redazione di contratti

In altri contesti non basta però, come nei casi cui si è appena fatto cenno, l’accesso a dati intrinsecamente pubblici, come le decisioni precedenti od altri dati degli archivi giudiziari. Un caso evidente è la redazione di contratti e altri analoghi documenti. Gli scenari sono diversi, e non occorre particolare fantasia, per l’importante ragione che sono già realtà, almeno in parte.

Il sistema ascolta il colloquio tra professionista e cliente [9] e ne ricava il documento occorrente. Può anche essere direttamente il sistema (magari in forma di bot su una hotline) a porre domande e redigere una bozza sulla base delle risposte. Applicazioni di questo tipo sono realizzabili con relativa facilità, e valendosi di una base di conoscenze neppure troppo vasta, a condizione che il loro ambito applicativo sia sufficientemente ristretto. Un routinario contratto di locazione può agevolmente esser prodotto in questo modo [10].

Pensiamo invece ad un professionista che si accinge a scrivere un contratto delicato e complesso, basandosi o meno su bozze o formulari preesistenti. A mano a mano che si inoltra nel lavoro, un sistema intelligente propone clausole che gli paiono adatte, attingendo al corpus a sua disposizione. Se il professionista ha un penchant per gli atteggiamenti cinematografici, potrà governarle con ampi gesti stando in piedi dinanzi ad un grande schermo, come Tom Cruise in Minority Report; non è importante. Importante è invece che la macchina si addestri ad ogni impiego, conservando memoria delle proposte accettate e rifiutate e delle modifiche apportate dall’utente. Strada facendo il sistema noterà magari che le clausole dell’avvocato Di Bartolo sono mediamente molto apprezzate dagli altri utenti, più di quelle dell’avvocato Zecca-Carbulli, e le proporrà con priorità. E molto altro ancora.

Realizzare tutto questo, ripeto, non è forse tecnicamente difficilissimo: occorre però una base imponente di dati e di utenti. E qui, a mio modesto avviso, sta il punto. Per creare un sistema efficiente occorre che questo sia condiviso da centinaia, e preferibilmente migliaia di professionisti; condividere una soluzione del genere significa però condividere anche una porzione della propria esperienza e del proprio know-how professionale. Come realizzare tutto questo? (ammesso, naturalmente, che si reputi desiderabile farlo).

Digital transformation e studi professionali, a che punto siamo?

Ai in ambito legale: i possibili modelli

I grandi studi professionali possono pensare di andare in solitaria. Nell’ottobre del 2018, in un evento guidato proprio da Alessandro Longo, il rappresentante del più grande studio legale italiano sottolineava che l’acquisizione di un sistema di AI era stata fatta alla precisa condizione che fosse evitato ogni travaso anche indiretto di conoscenze ad altri clienti del medesimo software. Se lo possono probabilmente permettere, per l’effetto combinato del rilevante numero di avvocati e del focus su determinate materie: difficilmente studi del genere si occupano di servitù di passaggio in ambito agricolo o dell’affidamento del cane in sede di separazione personale. I grandi studi, inoltre, debbono affrontare molto più spesso mansioni più agevolmente automatizzabili, come l’analisi dei documenti di una data room in ambito M&A [11].

La realtà professionale italiana è però tendenzialmente frammentata; per la stragrande maggioranza dei professionisti questa non è dunque un’opzione. L’adozione dell’AI nella fase di output (l’input, come si è notato, è un altro discorso) verosimilmente passerà quindi per loro attraverso forme di integrazione. Di quale tipo? Al momento vedo all’orizzonte due modelli.

Il primo, probabilmente di più semplice realizzazione, vede come promotore le software house, che possono integrare funzioni di AI nei loro pacchetti. Si lascia così però la regia ad operatori commerciali. Senza scadere in anacronistiche demonizzazioni, va osservato che le professioni ed i professionisti perderebbero così il controllo su uno snodo fondamentale della loro evoluzione anche culturale.

L’alternativa mi pare sia rappresentata da iniziative associative, maturate magari in seno alle organizzazioni di categoria. Posso immaginare che a rendersene promotori siano i professionisti più giovani, e non tanto per una maggior attitudine alla tecnologia (argomento che mi sembra in verità sempre più stereotipato), quanto perché incide in minor misura la preoccupazione di disperdere il know-how. Non sarebbe complicato né troppo costoso, per un gruppo consistente di professionisti, acquisire un sistema di AI e cominciare ad usarlo in una logica di sviluppo condiviso di una porzione della loro professionalità.

Note

  1. La fin de l’individu: Voyage d’un philosophe au pays de l’intelligence artificielle, L’Observatoire, Paris 2019.
  2. Intelligenza artificiale: il diritto, i diritti, l’etica, a cura di Ugo Ruffolo, Giuffré Francis Lefevre, Milano 2020.
  3. Condivido il sospetto di Koenig sulla base del caso che mi riguarda, quello del notaio. Molti informatici pensano che il nostro compito sia solo accertare l’identità delle parti e conservare il documento, mentre il cuore dell’attività è garantire che il documento realizzi l’effetto realmente voluto, sia correttamente tassato e non appaia atto di riciclaggio. Ovviamente anche i digitalizzatori d’assalto si infurierebbero (ed a giusta ragione) se scoprissero che l’acquisto di casa, redatto in modo ineccepibile, firmato da chi doveva firmarlo e conservato sulla migliore delle blockchain, è inficiato da un vincolo culturale, un fondo patrimoniale, un’ipoteca, una convenzione urbanistica, il mancato rispetto del DIP o delle norme di protezione o sugli stranieri; insomma, da una delle infinite trappole che quotidianamente scansiamo. Con questo non si vuole naturalmente dire che la componente umana sia in toto insostituibile, ma solo che sarà faccenda più complessa del previsto.
  4. Negli USA, prima dell’inizio di un processo civile, ogni parte deve presentare all’altra tutti i documenti rilevanti che possiede, anche se a lei contrari. E’ opinione diffusa che questo modo d’agire, a carte scoperte, faciliti molto le transazioni, alleggerendo le aule di giustizia. Il lavoro da compiere è però spesso immane: in Apple vs. Samsung la società della Mela dovette trovare e presentare tutti gli scambi interni di mail ove si discuteva delle tecnologie Samsung; alcuni coinvolgevano Steve Jobs in persona, e finirono ovviamente in Rete.
  5. Valentina Brecevich, Giustizia predittiva: la dignità umana faro per l’AI nei processi, in Agenda Digitale, 4 marzo 2020. Per un’analisi matematica tutt’altro che scontata, Sam Corbett-Davies, Emma Pierson, Avi Feller e Sharad Goel, A computer program used for bail and sentencing decisions was labeled biased against blacks. It’s actually not that clear, in The Washington Post, 17 ottobre 2016.
  6. Non necessariamente leggendo sulle labbra, come HAL sapeva fare.
  7. Avrei potuto aggiungere l’esempio della redazione di un testamento non troppo complicato, ma rivendico anch’io il diritto di attenermi al Paradosso di Craig, di cui al principio: come ho già ricordato, sono un notaio.
  8. Acronimo per Mergers and Acquisitions: fusioni ed acquisizioni. In tali casi è pratica standard che i documenti necessari per comprendere la reale consistenza delle aziende siano posti a disposizione dei soggetti interessati in appositi ambienti, le data rooms appunto, ormai ovviamente virtuali.

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