L’Intelligenza artificiale (IA), secondo il World Economic Forum, sostituirà 85 milioni di posti di lavoro entro il 2025, creandone – nello stesso intervallo di tempo – 97 milioni.
Al di là dell’esattezza di quelle che, necessariamente, non possono che essere stime, in gran parte fondate su previsioni e aspettative, circa le possibili evoluzioni dell’IA e delle sue capacità (dunque stime che potrebbero venire disattese), un simile dato riflette l’impatto che le nuove tecnologie hanno – ed avranno sempre più – sull’elemento cardine della nostra quotidianità: il lavoro o, meglio, la relazione tra noi e il nostro lavoro.
Lavoro e IA: come preparare i ragazzi alle professioni del futuro?
La relazione tra uomo e lavoro
Una relazione che si fa sempre più complessa non solo e non tanto per l’avvento del digitale e del virtuale. In un contesto in cui – scrive il presidente emerito della Consulta Gustavo Zagrebelsky – “dall’economia dipendono le politiche economiche; da queste i diritti e i doveri del lavoro”, diviene sempre più evidente la tendenza ad offrire una valorizzazione economica ad ogni aspetto della vita sociale: ecco perché il lavoro, oggi, non è più un’attività attraverso cui esplicare la propria individualità, ma solo un mezzo per un fine economico. Così, mentre assistiamo ad una “patrimonializzazione” dei rapporti interpersonali, l’assenza di tempo libero diviene un vero e proprio status symbol. Ma con quali conseguenze?
Il filosofo e professore di teoria della cultura Byung-chul Han ha ridenominato la società attuale come società della stanchezza: in buona sostanza, una società che impone agli individui di non fermarsi mai, cercando attraverso il lavoro una gratificazione che diventa al tempo stesso una maledizione. Secondo Han l’uomo moderno “fa concorrenza a sé stesso, egli cerca di superare sé stesso, finché non crolla. Subisce un collasso psichico”.
Lavoro e soddisfazione personale
Difficile dargli torto. Da un lato sono ormai noti i rischi – di cui si è trattato anche in queste pagine – connessi al burnout, mentre in Giappone la sindrome da troppo lavoro (karōshi) diviene un fenomeno di rilevanza sociale, l’Organizzazione mondiale della sanità e l’Organizzazione internazionale del lavoro indicano l’overwork come un rilevante rischio per la salute (a serious health hazard).
Dall’altro lato, al teorico aumento delle opportunità lavorative non sembra corrispondere un accrescimento della soddisfazione personale, ed anzi pare che la collettiva concorrenza reciproca non possa prescindere dallo sviluppo di nuove forme di lavoro tutte in qualche modo riconducibili alla galassia del precariato.
Non solo. Anche a costo di semplificare, se provassimo a schematizzare gli elementi fondanti del rapporto uomo-lavoro, ovvero l’attività lavorativa in sé e per sé, la gratificazione economica a questa connessa e il significato individuale e sociale dell’attività vedremmo chela prima ha subìto un’espansione che l’ha resa assolutizzante (nei confronti del tempo libero, nda) e la seconda è sempre più carente o difficoltosa. Il lavoro, infine, sembra divenire fine a sé stesso o connesso esclusivamente al guadagno.
La crisi dell’utilità del lavoro
Si diffondono quelli che l’antropologo e attivista David Graeber ha anzitempo indicato come bullshit jobs: professioni meaningless, prive di senso e significato sociale, che rendono “ricco e infelice chi le svolge”. Quando Graeber – ormai 10 anni fa – ha per la prima volta raccolto i dati, ne è emersa una situazione preoccupante: oltre il 40% dei soggetti affermava che il proprio lavoro fosse inutile, privo di senso, un bullshit job. Un fenomeno paradossale, socialmente allarmante e in crescita.
Insomma, lavoriamo sempre di più e con ritmi sempre più frenetici, ci siamo abituati a dover sapere fare più cose contemporaneamente, a essere multitasking e – contemporaneamente – inseguiamo una gratificazione solamente economica che costantemente si allontana mentre, come se non bastasse, la maggior parte di noi dubita fortemente dell’utilità sociale del proprio lavoro. Un quadro, in sintesi, non certo confortante.
IA e lavoro, usare le macchine per non farsi usare: la formazione e la managerialità che servono
Come ristabilire lo status quo
Eppure, secondo la Costituzione il lavoro è principio fondamentale dell’assetto sociale, oltre a essere mezzo per vivere in modo dignitoso. Da qui occorre partire per una ri-costituzionalizzazione del lavoro e del rapporto tra questo e l’individuo. Alcune proposte concrete:
Salario minimo
Al netto della recente uscita del salario minimo dall’agenda politica della legislatura, non ci si può dimenticare che si tratta di un tema approdato alla maggior parte dei sistemi economici e giuslavoristi del continente, mentre l’Ue ha da tempo approvato una specifica proposta di Direttiva.
Un confronto tra le parti politiche sembra, dunque, obbligato, anche a mente della considerazione per cui l’Italia è anche l’unico Paese dell’Unione che ha visto (e continua a vedere) i propri salari in diminuzione rispetto al 1990 (-3% in trenta anni).
Diritto alla disconnessione
Se all’inizio della rivoluzione digitale era necessario garantire il diritto di accesso a internet oggi, nell’era dell’accesso[1], diviene imprescindibile porre un limite alla reperibilità. Anche in questo caso l’Unione, attraverso una risoluzione del Parlamento Ue, ha già tracciato la direzione nel cui solco si è mossa, per esempio, la Francia.
Settimana lavorativa breve
Gli esempi, soprattutto per effetto della politica in materia di alcune multinazionali e / o grandi gruppi, iniziano a diffondersi globalmente e i risultati appaiono più che incoraggianti: superata una iniziale fase di fisiologica difficoltà nell’organizzazione delle attività, la settimana lavorativa di quattro giorni sembra aumentare la felicità dei lavoratori senza diminuire la produttività (anzi, in alcuni casi accrescendola).
Il gruppo Intesa Sanpaolo parrebbe avere aperto la strada a livello italiano. Una strada che è tempo venga incentivata. Non arriveremo all’utopia keynesiana delle 15 ore settimanali, ma certamente ne guadagneremo in termini di work-life balance.
Riforma dell’istruzione
Troppo si potrebbe e si dovrebbe dire ma, per quanto strettamente attiene alla relazione tra istruzione e mondo del lavoro, un punto di partenza deve essere la riduzione del cosiddetto skill mismatch: la prossima riforma organica dell’istruzione, e in particolare dell’istruzione superiore, non potrà prescindere da un ammodernamento (non solo teorico) delle modalità e dei contenuti dell’insegnamento, il che non significa rafforzare le materie STEM a discapito di quelle umanistiche. Anzi, oggi una conoscenza generale e la capacità di una visione sistemica del mondo e delle dinamiche globali, sembrano sempre più una chimera.
Propositi forse ambiziosi – qui solo accennati ed estremamente semplificati ma, in fin dei conti, si tratta di obiettivi imprescindibili per poter aspirare al più lontano traguardo di una società (e di una vita) a misura d’uomo.
Note
[1] J. Rifkin, The Age of Access, TarcherPerigee, 2021.