Che qualcosa non funzioni, nel rapporto fra Internet e società (in senso lato), se ne sono accorti un po’ tutti. Gli entusiasmi di inizio millennio hanno lasciato il posto alle preoccupazioni. La sorveglianza di massa, la polarizzazione sociale, i linciaggi mediatici, sono solo alcuni degli aspetti problematici dell’onnipresenza di Internet nelle nostre vite.
A fronte di ciò, la narrazione attorno al cambiamento ha percorso due principali strade: l’ottimismo comunque sia (sì, ci sono dei problemi, ma dovuti soprattutto a un’errata percezione della situazione e a un’esagerazione dei rischi) e la necessità di resistere (l’accelerazione tecnologica ci sta facendo rimpiombare in nuovo Medioevo in cui i diritti dei singoli vengono espropriati dai latifondisti della Rete, occorre organizzarsi e contrattaccare).
Il capitalismo globale è in crisi? Otto principi per un cambiamento radicale
Statosauri: il rapporto tra big tech e Stati
Entrambe queste posizioni vengono spesso declinate in maniera semplicistica, senza il tentativo di abbozzare un discorso complesso. Uno sforzo che invece fa Massimo Russo – ex direttore di Wired Italia, manager del gruppo editoriale Hearst, direttore di Esquire e molte altre cose ancora – nel libro Statosauri . Russo si concentra in particolare sulle grandi piattaforme tech come Facebook, Google, Amazon, Apple, Microsoft e sul loro rapporto con organizzazioni pre-Internet come gli Stati.
Le prime sono state capaci di raggiungere in pochissimo tempo dimensioni e potere tali da rivaleggiare coi primi su temi come l’organizzazione del lavoro, la libertà di espressione, i rapporti interpersonali.
Non conoscono confini, ma operano negli immensi spazi cibernetici, che hanno colonizzato e rimodellato a loro immagine. Crescono cibandosi dei dati prodotti dalle macchine, dalle persone, e diventano così sempre più flessibili e intelligenti.
Gli Stati, al contrario, sono per lo più organismi farraginosi, ancora legati a una concezione novecentesca della società e poco adeguati a sfruttare le opportunità offerte dal digitale. Parafrasando Celentano, si potrebbe dire che le piattaforme sono ‘rock’ e gli Stati ‘lenti’. Per un po’ è sembrato che il mondo degli atomi si adeguasse a quello dei bit: confini porosi, voli low cost, scambi di formazione e di talenti.
Accenni di controriforma
Poi, accenni di controriforma: il sovranismo, la Brexit, Internet balcanizzata e divisa[1] fra il modello filoccidentale finora predominante e la nuova Via della Seta digitale, di stampo cinese. Con la Russia, l’Iran e altre nazioni che cercano di creare una loro rete non permeabile a influenze esterne.
E la pandemia: il virus che da un lato ha costretto anche popoli poco avvezzi al digitale, come quello italiano, a ricorrervi, dall’altro ha chiuso tutti nella loro bolla, nel chiuso di un’abitazione e nei confini del proprio Paese. Un dramma, ma anche un’opportunità per riflettere e ripartire con nuovo slancio e verso un nuovo corso.
Non c’è nessun entusiasmo preconcetto, nessun “ne usciremo tutti migliori” nel libro di Russo. Anzi, la descrizione che fa del caso italiano, ingessato e deturpato da decenni di rendite di posizione appena rese più digeribili da un finto dinamismo pieno di lustrini ma vuoto di sostanza, è lucida, crudele, impietosa.
I peccati originali delle piattaforme
Non c’è nemmeno l’idolatria aprioristica verso le piattaforme, che sono sì più agili, veloci, attente al cliente, ma che risentono comunque di peccati originali come la scarsa contribuzione fiscale, lo scarso rispetto per la privacy, la polarizzazione e l’alimentazione del conflitto come parte del loro modello di business.
Piuttosto, dice Russo, prendiamo quello che funziona, di questo modello e trasponiamolo al servizio del bene comune e non solo dei “balance sheet” aziendali. Liberando i dati, mettendoli a disposizione di tutti e non solo delle grandi piattaforme, per creare ricchezza e innovazione. Con l’Europa, anzi, l’Unione Europea, unico soggetto con sufficiente cultura giuridica, soft power e peso economico per contrapporsi al neoliberismo americano e all’autoritarismo cinese, a fare da traino.
È un appello appassionato che mescola vari registri e punti di vista: quello politico di Shimon Peres e quello filosofico di Massimo Cacciari, il globale e il locale, Jeb Gambardella e la “locura” lustrini e paillette della serie televisiva Boris.
Con un entusiasmo che all’osservatore cinico potrebbe apparire utopico: difficile pensare di togliere il monopolio dei dati alle piattaforme quando queste dispongono di enorme potere di lobbying presso le sedi che contano, quando le porte girevoli fra politica e industria tech hanno generato per anni e ancora generano, sinergie e cartelli di interesse più o meno occulti, quando l’informazione stessa ha bisogno di mantenere buoni rapporti con Palo Alto o Mountain View per non perdere traffico e introiti pubblicitari. Le regole le fa chi controlla il campo da gioco.
Lo si è visto chiaramente con le app di contact tracing contro il Covid. In brevissimo tempo, Google ed Apple si sono messi d’accordo per creare il framework su cui far funzionare le applicazioni di tracciamento.
Alcuni Stati hanno provato ad andare per la loro strada, non tenendone conto e creando app non ottimizzate per questa architettura, ma sono ben presto dovute tornare sui loro passi.
Difficile ipotizzare di diluire l’appartenenza su base territoriale e valorizzare le persone di talento, da qualsiasi luogo provengano, quando in tutto il mondo sembrano rinascere e riprendere vigore i muri, i piccoli egoismi, le divisioni. È vero però, che, come scrive Russo, potrebbe trattarsi di un effetto ottico, di una distorsione dovuta al trovarsi troppo vicino all’oggetto del proprio guardare. Può darsi che nel lungo periodo l’arco del cambiamento tenda davvero sempre verso il giusto e non ci costa niente essere ottimisti, tanto la maggior parte di noi probabilmente non sarà nemmeno lì per verificarlo.
La mutazione antropologica innescata da internet
Può darsi anche, questa almeno è l’impressione di chi scrive questo articolo, che non ci siamo ancora resi del tutto conto della portata della mutazione antropologica innescata dall’ingresso di Internet nelle nostre vite. Di come esso abbia ridisegnato i contorni della nostra auto-percezione e del nostro porsi in rapporto agli altri.
Allo stesso modo in cui siamo ormai consapevoli che c’è potenzialmente sempre un occhio che guarda, che ogni atto o commento può essere sempre registrato da un video, uno screenshot, una foto, così non riusciamo più quasi a pensare noi stessi come una monade sganciata dal tutto, ma siamo sempre coscienti che a quanto c’è al di fuori di noi siamo sempre connessi, ci riguarda.
Conclusioni
Ci sono due corollari possibili a questa situazione (sempre a parere di chi qui scrive): il primo è quello di un’umanità alveare, in cui l’ingegnerizzazione sociale delle masse rimane in capo a poche piattaforme (magari in sinergia con la politica), caso di scuola ben esemplificato da un concept video realizzato da Google nel 2016. L’”io” diventa “noi” ma soltanto per essere sfruttato a fini commerciali.
L’altro, più ottimistico, e che va nel senso descritto da Russo, è quella di una reale autocoscienza generata dall’abitudine a essere costantemente Rete. Se il mezzo non si limita a ad essere il messaggio ma giunge fino a trasformare la natura stessa del ricevente, è possibile che il cammino verso l’abolizione di barriere e confini nazionali e il superamento di tecnologie obsolete come gli Stati sia ormai tracciato.
Non per imposizione esterna, ma perché saremo noi, gli umani, a essere ormai incapaci di concepirci in modo diverso.