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La terza era di internet: equilibrio tra interessi privati e principi liberali

Il nostro continente sembra orientarsi verso una terza epoca delle tecnologie digitali, segnata dal superamento del “laissez faire” degli scorsi decenni. Potremmo dunque avviarci verso una condizione pubblico-privata, mista, caratterizzata da un maggiore equilibrio fra interessi delle piattaforme e principi liberali

Pubblicato il 26 Gen 2023

Gabriele Giacomini

assegnista di ricerca presso il Dipartimento di Studi umanistici e del patrimonio culturale dell'Università di Udine e fellow presso The Center for Advanced Studies of Southeastern Europe – University of Rijeka

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La storia di Internet e delle tecnologie digitali ha vissuto finora due epoche. Nella prima, il digitale era prevalentemente pubblico. Il settore dell’informatica è nato in istituti di ricerca statali e nell’ambito di una fitta rete pubblico-privato, con il robusto sostegno di appalti governativi.

Si pensi al ruolo della DARPA, agenzia del Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti incaricata dello sviluppo di tecnologie per uso militare, nella “costruzione” di Internet. Inoltre, fu sui computer del CERN di Ginevra che Tim Berners-Lee e Robert Cailliau implementarono il primo “http”, protocollo fondamentale per il trasferimento di ipertesti. Infrastruttura e linguaggio di Internet nacquero, insomma, nel “ventre pubblico”. Percorsi simili hanno avuto il GPS, Siri, lo schermo a cristalli liquidi, quello multitouch, il microprocessore, le batterie al litio, il micro hard disk, per fare alcuni esempi.

Digital Services Act: verso una nuova era del diritto digitale (con qualche incognita)

La seconda epoca digitale

Sulla base di queste innovazioni è emersa, grossomodo negli ultimi trent’anni, la seconda epoca digitale, che vede come protagoniste Google, Apple, Amazon, Microsoft, Facebook, aziende che non a caso sono cresciute negli Stati Uniti, ovvero laddove, nella prima fase, è stata maggiore la spinta dello Stato. Questa seconda epoca non è più a trazione pubblica, bensì privata. I risultati delle grandi innovazioni sostenute dai “capitali pazienti” pubblici erano disponibili, ma non per le masse: si trattava, a questo punto, di spingere le aziende ad “assemblare” e commercializzare in tutto il mondo queste tecnologie, mettendosi a fare legittimamente profitti, remunerando i “venture capitalist” e gli azionisti. Le big tech hanno avuto un ruolo importante, perché hanno fatto in modo che le innovazioni venissero commercializzate, giungendo a grandi masse di cittadini attraverso il mercato. Ecco che, mentre una volta, al vertice, c’erano le industrie petrolifere e quelle di automobili, ora i giganti dell’economia sono digitali. Produttori di programmi, di smartphone e di PC, ma soprattutto piattaforme, motori di ricerca, social network.

Il problema è che, come ha spiegato magistralmente Keynes, la realtà non è “ontologicamente” costruita in modo tale da far coincidere sempre l’interesse privato con quello sociale. Spesso, per nostra fortuna, i due interessi corrispondono (è la “mano invisibile” di Adam Smith). I due interessi possono convergere, ovviamente, anche nel mondo digitale. In questi casi “tutti vincono”. Utilizzare un buon programma di videoscrittura, calcolare un percorso in auto, mantenersi in contatto con amici lontani, prenotare le vacanze su una piattaforma turistica, chattare con la moglie o il marito, segnare gli appuntamenti nel calendario dello smartphone, ascoltare musica e guardare film on demand, sono tutti servizi offerti dalle big tech e molto apprezzati dagli utenti. Ma in altri casi, ricorda Keynes, gli individui che agiscono in proprio possono essere troppo ignoranti o deboli perfino per conseguire i propri fini, figuriamoci gli interessi pubblici. Il solido successo delle piattaforme riesce sempre a trasformarsi in un vantaggio per le società nel loro complesso?

L’Internet delle piattaforme e i suoi problemi scottanti

Secondo un’indagine demoscopica su un campione degli italiani, che ho condotto con Alex Buriani di IXE e che commentiamo nel recentissimo libro “Il governo delle piattaforme” (Meltemi 2022), Internet presenta attualmente alcuni “problemi scottanti”. Per intenderci portiamo tre esempi.

Primo. Il digitale permette di informarsi dagli smartphone, spesso gratuitamente, su siti Internet scritti da giornalisti ma anche da “normali” cittadini. Questo difende la libertà e il pluralismo (effetto positivo), ma porta anche a dei problemi di affidabilità (si pensi alle cosiddette fake news). Mentre circa il 75% degli italiani ritiene affidabili i media tradizionali (televisione, radio, quotidiano), solo il 29% degli italiani ritiene affidabili le news sul maggiore social network, Facebook. È evidente che la propaganda e le bufale sono storicamente sempre esistite. Tuttavia, effettivamente lo strumento digitale, attraverso una profilazione “chirurgica” e la micro-targhettizzazione, potenzia le capacità strategiche e manipolatorie dei comunicatori. Sappiamo che, ad esempio, ci sono vere e proprie “fabbriche di troll”, che mettono a disposizione i loro servizi a committenti non sempre benintenzionati. Dovremmo forse pensare a come gestire questo problema (tutelando la libertà di informazione).

Secondo. Il business delle piattaforme (come Facebook, Google, Amazon) si fonda sulla raccolta online dei nostri dati personali. Questo porta notevoli vantaggi economici, naturalmente del tutto legittimi. Ad esempio, permette alle aziende di proporci delle offerte commerciali che ci possono risultare utili, perché allineate con i nostri interessi. Questo può essere molto apprezzabile quando stiamo cercando di organizzare una vacanza al mare, e ci vengono proposte offerte di Creta o Cherso, e non di Cortina d’Ampezzo. Ma, se si tratta di opinioni politiche, la cosa potrebbe cambiare, perché il confronto con il diverso dovrebbe essere un valore democratico. Inoltre, molti italiani non gradiscono cedere i propri dati: quasi il 50% ritiene che la raccolta dei dati non dovrebbe mai essere accettabile! Anche questa preoccupazione dovrebbe essere presa sul serio, magari rafforzando gli strumenti di protezione della privacy, oppure favorendo la consapevolezza dei propri diritti nell’ambito del recente Regolamento per la protezione dei dati personali dell’Unione Europea.

Terzo esempio. Il successo dei nuovi servizi digitali ha avuto come conseguenza l’accumulo di enormi utili da parte delle big tech. In una società democratica, però, gli utili dovrebbero contribuire, attraverso una tassazione progressiva, a sostenere i servizi alla popolazione (strade, scuole, ospedali e molto altro). Oggigiorno, il livello di tassazione delle big tech è relativamente basso (e spesso le imposte non si applicano in Italia, ma in Paesi esteri come l’Irlanda). Ma più dell’80% degli italiani ritengono che le tasse dovrebbero essere pagate nel nostro Paese, se riguardano servizi erogati nel nostro territorio. Anche riequilibrare la pressione fiscale fra lavoro e capitale, fra PMI e grandi multinazionali del digitale potrebbe essere un “problema scottante” che, seppur di ardua risoluzione, dovrebbe quantomeno interrogare l’opinione pubblica e le istituzioni politiche.

Altre questioni si trovano nel libro: circa la qualità delle comunicazioni, gli “oligopoli” digitali, la partecipazione democratica. Ma le riflessioni possono nascere anche soltanto seguendo la cronaca degli ultimi anni. Recentemente abbiamo scoperto che i dati personali possono essere utilizzati per la propaganda politica (come nello scandalo Cambridge Analytica), che esistono fabbriche di troll e di bot per alimentare la disinformazione (come l’Internet Research Agency russa), che gli utenti tendono a chiudersi in bolle informative autoreferenziali (le cosiddette echo chambers o filter bubbles), che singole aziende possono bloccare, a torto o a ragione, ma a loro discrezione, addirittura il Presidente degli Stati Uniti d’America in carica. Sappiamo che il livello di tassazione pagato dalle big tech è relativamente basso (soprattutto rispetto alle aziende “tradizionali”), che il rischio di posizione dominante in diversi settori digitali è concreto. La seconda fase di Internet ha favorito sviluppi economici impetuosi ma, probabilmente, ha anche lasciato dietro a sé diversi “problemi scottanti”, che i cittadini hanno in mente e di cui appaiono preoccupati.

Verso una nuova epoca digitale? L’orientamento europeo

Il punto interessante è che il nostro continente sembra orientarsi verso una terza epoca della storia delle tecnologie digitali e di Internet, segnata dal superamento del “laissez faire” dei decenni recenti. Dopo la fase pubblica, di grandi investimenti statali, dopo quella privata, che ha visto la commercializzazione delle tecnologie per le masse ma anche la formazione di un’oligarchia di compagnie digitali, potremmo avviarci verso una condizione pubblico-privata, mista, caratterizzata da un maggiore equilibrio fra gli interessi delle piattaforme e i principi liberali (in senso classico) e democratici. Una volta realizzate le tecnologie con investimenti pubblici, e dopo aver ampliato il mercato e lasciato prosperare il settore produttivo, ora le istituzioni potrebbero ridurre gli “effetti collaterali” di tale sviluppo e redistribuire le risorse. In uno scenario del genere, il capitalismo delle piattaforme potrebbe essere “temperato” da forme di regolamentazione e dall’intervento delle autorità pubbliche.

Un indizio di questa possibile (ma affatto scontata) terza fase, intercettato dall’indagine presentata nel libro “Il governo delle piattaforme”, è sicuramente l’amplissimo consenso degli italiani nei confronti dei diritti digitali e della regolamentazione pubblica, che riteniamo non possa essere derubricato a “superficiale lamentela” o “resistenza all’innovazione”. Piuttosto, crediamo segnali la presenza di un sentimento trasversale nella direzione di una maggiore difesa dei dati personali, della protezione della qualità del dibattito pubblico, del sostegno al pluralismo e all’affidabilità delle informazioni, di una più incisiva tutela della concorrenza, di una maggiore distribuzione delle risorse (ad esempio attraverso un meccanismo fiscale efficace) e del potere di intermediazione (con maggiori garanzie da parte delle istituzioni pubbliche).

Parallelamente, un secondo indizio riguarda il recente attivismo dell’Europa, sia dal punto di vista degli Stati nazionali, sia dal punto di vista dell’Unione. Soprattutto quest’ultima pare interessata a “riparare” i meccanismi di Internet, massimizzando i (grandissimi) benefici e limitando gli effetti collaterali. A differenza degli Stati Uniti d’America, l’Unione Europea non ospita all’interno dei suoi confini le sedi principali delle GAFAM (molte della quali sono californiane): questo permette all’istituzione pubblica europea, nonostante i suoi problemi di legittimità democratica, di essere più orientata verso le istanze dei cittadini. Spinti anche dall’attivismo di alcuni Stati nazionali (si pensi, ad esempio, all’autorità per la concorrenza tedesca), gli organi europei nel 2016 hanno adottato il Regolamento europeo per la protezione dei dati personali: i gestori dei dati possono naturalmente continuare a raccoglierli, e ad alimentare il loro business, ma con dei limiti imposti dal legislatore, e sono responsabilizzati da un sistema di norme e sanzioni pubbliche. Così si limita la “pesca a strascico” del laissez faire che è stata alla base dello scandalo di Cambridge Analytica. Fra le nuove iniziative della Commissione europea, poi, si annoverano il Digital Markets Act e il Digital Service Act, che intendono potenziare le norme sulla concorrenza e limitare il potere di intermediazione nella sfera pubblica digitale.

Oltreoceano, importanti AD delle Gafam sono stati convocati dal Congresso americano, in una serie di audizioni durante le quali i rappresentanti democratici hanno chiesto ai leader delle compagnie digitali di rispondere della propaganda online, della disinformazione sulla pandemia Covid19 o della responsabilità che hanno portato al gravissimo assalto al Campidoglio del 6 gennaio 2021. Qualcosa si muove anche lato tassazione. Nel 2018 sono stati proposti a livello europeo nuovi criteri per la tassazione dei giganti digitali (iniziativa poi arenata, ma ripresa dai legislatori italiano, francese e spagnolo). Infine, nella primavera del 2021, il G7 ha trovato un primo accordo (da implementare) sulla Global Minimum Tax, una tassazione per le multinazionali, fra cui certamente spiccano quelle digitali.

Nel nostro dibattito pubblico si parla spesso di riforme. Ragionare sull’emergente potere digitale richiede un rinnovamento dell’approccio riformista, autentico perché su questioni sostanziali, che incidono direttamente sulla nostra vita. Quello che è in gioco è un progresso umanista che sappia integrare le innovazioni tecnologiche con le aspirazioni dei cittadini e i principi dei sistemi democratici.

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