Nonostante tutte le analisi e gli indicatori siano lì a dirci in modo chiaro e inequivocabile che lo sviluppo delle competenze (digitali ma non solo) è una delle precondizioni per qualsiasi politica di ripresa e crescita economica, in Italia la scarsa attenzione ad intervenire su questo tema continua. Quasi come si pensasse che la pervasività tecnologica potesse “indurre” competenze e consapevolezza digitale. Eppure, anche l’ultima ricerca Ipsos sugli over 50, con il 94% degli intervistati che valuta importante possedere competenze digitali, mostra come la sensibilità dei cittadini italiani stia aumentando.
Per l’Italia il problema della carenza di competenze digitali (oltre la metà della popolazione non le possiede in modo almeno sufficiente per un esercizio di base della cittadinanza digitale) è ormai così esplicita ed evidente da poter essere considerata una vera e propria emergenza. Così, le altissime percentuali di persone che non vanno su Internet o che lo utilizzano poco per servizi avanzati (ricordo che per l’indice DESI della Commissione Europea l’Italia è ultima sull’area dell’Utilizzo di Internet), la carenza di competenze digitali in tutte le fasce della popolazione (solo un terzo ha competenze di base o superiori), non sono che una conferma, se servisse ancora, di una situazione non più sostenibile. E in un circolo vizioso sempre più consolidato, l’espulsione di giovani competenze pregiate sta diventando quasi un elemento di contesto. I giovani ambiziosi e preparati rischiano di avere sempre meno spazio.
Non basta il seppur ambizioso Piano Nazionale Scuola Digitale. Non basta agire sulla scuola e sulle nuove generazioni, perché non abbiamo tempo di aspettare che possano prevalere, e non possiamo credere che il futuro sia nella lotta tra le generazioni. Dobbiamo intervenire per scardinare la cultura organizzativa del privato e (soprattutto) del pubblico, perché creino un contesto favorevole alla creatività e alla cultura digitale, accogliente e stimolante per i giovani, e per i non più giovani. Ai quali si richiede lo sforzo e il passaggio ad un pensiero digitale. Senza però una politica strategica organica per lo sviluppo delle competenze, senza investimenti significativi e interventi pervasivi, senza la costruzione di strutture di supporto permanenti, ogni pretesa di trasformazione digitale (della pubblica amministrazione, delle imprese) è destinata al fallimento. Come una rete troppo larga, nessuna risorsa può essere afferrata, consolidata, trasformata. Quasi tutto sfugge.
E in un mondo in continua evoluzione che non si lascia programmare se non sul breve periodo, l’unico modo di pensare al lungo termine è di costruire sulle competenze. Come scriveva Vittorio Foa “Le svolte epocali accadono quando non cambiano solo le cose, ma anche le teste per capirle”.
Il rapporto del Wef e il valore del capitale umano
Non è un caso che il World Economic Forum nel suo rapporto di fine giugno sul capitale umano si esprima così: “La dotazione di capitale umano di una nazione – la conoscenza e le competenze di cui sono portatori gli individui e che li abilitano nella creazione di valore economico – può essere un fattore più importante per il successo a lungo termine virtualmente di qualsiasi altra risorsa”. Perché, appunto, è il fattore che abilita l’utilizzo e la valorizzazione delle altre risorse.
In quel rapporto l’Italia va male, come in tutti i rapporti che in qualche modo cercano di dare un peso alle competenze e alla loro valorizzazione. È al trentacinquesimo posto su oltre 120 Paesi esaminati, e nell’ambito europeo sta meglio solo di Spagna, Portogallo e Grecia. L’indice è interessante perché misura il capitale umano in modo differenziato per fasce d’età, valutando sia la qualità della formazione e del livello di istruzione, sia le opportunità di valorizzazione nel mondo del lavoro. Il basso punteggio italiano è molto legato all’elevata disoccupazione, soprattutto giovanile, ma contribuisce anche una scarsa attenzione alla formazione (qui siamo al 119° posto). L’unica punta positiva è data dalla qualità della formazione nella fascia d’età 0-14 e dalla buona diversità di competenze dei laureati.
Competenze, formazione e lavoro che, oggi, sono pervase in modo organico dal digitale.
In questa situazione cogliamo alcuni segnali positivi, ad esempio:
- da parte del Miur con la definizione del curricolo digitale, inserito anche come azione del terzo piano nazionale per l’Open Government, e in queste settimane oggetto di bando per le scuole;
- da parte di diverse amministrazioni regionali e locali, per iniziative specifiche nell’ambito delle competenze digitali di base (ultima Roma, con l’istituzione dei punti Roma Facile, sulla scia di altre esperienze come quelle dell’Emilia Romagna, della Toscana e del Veneto). Iniziative importanti, ma ancora isolate e a macchia di leopardo;
- da parte di AgID, con più azioni di spinta verso interventi sul personale della Pubblica Amministrazione (sempre nell’ambito del piano per l’Open Government ma anche del comitato di pilotaggio per il coordinamento degli interventi anche per i programmi operativi regionali, qui per l’e-leadership, e nell’area delle competenze digitali di base).
Le competenze digitali di base nella strategia nazionale
In particolare, quest’ultima iniziativa, poco pubblicizzata, credo possa avere un peso importante e strategico, se lo si coglierà fino in fondo: si tratta dell’istituzione di un gruppo di lavoro che ha il compito di realizzare la traduzione nazionale della versione 2 del framework DIGCOMP (di fatto, il modello europeo per le competenze digitali di base). Si compone, in modo aperto e inclusivo, di tutti coloro che possono mettere a disposizione le proprie esperienze di utilizzo del framework nella versione precedente e che hanno spesso già realizzato strumenti di assessment e materiali di formazione.
L’obiettivo complessivo è realizzare in modo condiviso e rapido la traduzione (la versione 2 di DIGCOMP viene rilasciata in due fasi, di cui la prima è stata da poco rilasciata e la seconda è attualmente nel processo di valutazione), così da poter rendere facilmente riutilizzabili tutti i successivi materiali di supporto all’attuazione, iniziando dagli strumenti di auto-assessment. Un auto-assessment fondamentale non solo e non tanto per comprendere il proprio gap rispetto al livello valutato “di base” dalla UE, ma soprattutto per iniziare a diffondere la consapevolezza di “cosa sono” le competenze digitali (e in questo purtroppo la ricerca Ipsos non fa un buon servizio, semplificando in modo eccessivo la definizione).
Ma, come sempre, questa è la base necessaria, che permetterà alle amministrazioni e alle organizzazioni più virtuose un più rapido e meno costoso lavoro di preparazione e attuazione dei progetti di sviluppo. Non è sufficiente. Occorre che queste iniziative diventino sistema: con politiche, investimenti, obiettivi chiari.
Il nuovo CAD indica (grazie in gran parte alla spinta della società civile) che la responsabilità su questo tema è di tutte le amministrazioni. Pretendiamo allora da tutte le PA iniziative specifiche, con risorse adeguate. Misuriamole. E pretendiamo che davvero gli interventi per le competenze digitali siano parte integrante dei programmi di crescita.