Con la sentenza n. 4534/2022 la Corte di Cassazione ha affermato che i gravi indizi di colpevolezza previsti per l’applicazione delle misure cautelari possono essere integrati – anche – da un like messo ad un post su Facebook.
La sentenza
La sentenza del 9 febbraio 2022 della Prima Sezione Penale della Cassazione, n. 4534, ha determinato il rigetto di un ricorso proposto avverso una decisione del Tribunale del riesame di Roma che applicava la misura cautelare dell’obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria.
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I reati ipotizzati erano quelli previsti dagli articoli 604 bis e 604 ter del Codice penale, ossia, rispettivamente, “Propaganda e istigazione a delinquere per motivi di discriminazione razziale, etnica o religiosa” e relative aggravanti (pene da uno a quattro anni e relative varianti).
La questione non era tanto se l’indagato avesse, o meno, messo il like su un post, quanto piuttosto, “l’appartenenza del G. alla comunità virtuale, avente gli scopi previsti dalla norma incriminatrice, non solo dai rapporti di frequentazione, fisici e ripetuti, con altri utenti, ma anche dalle sue plurime manifestazioni di adesione e condivisione dei messaggi confluiti sulle bacheche presenti nelle piattaforme Facebook, VKontacte e Whatsapp dal chiaro contenuto negazionista, antisemita e discriminatorio per ragioni di razza”.
In altri termini, si trattava di rapporti fisici, ripetuti e di adesione a una comunità online manifestata anche con dei like, il cui unico – serio – elemento di gravità indiziaria nasce dal fatto – evidenziato dal tribunale del riesame prima e dalla Cassazione poi – che il like “aumenta la visibilità” del post.
In altri termini, la conoscenza dell’algoritmo di Facebook e l’aver volutamente posto un like per aumentare la visibilità di un contenuto, integrano un elemento indiziario grave.
Ovviamente non basta: “Completano, infine, la piattaforma accusatoria le conversazioni telefoniche che delineano la figura del G. quale appartenente alla comunità virtuale. In tale qualità, infatti, egli non solo ha ricevuto consigli per evitare l’acquisizione di prove compromettenti a suo carico (conversazione con Bo.Gi. il quale, già destinatario di attività di perquisizione e sequestri, lo esortava ad adottare specifiche misure cautelative per evitare di essere scoperto cancellando chat, rubriche ed altri interventi sul telefonino), ma è stato anche destinatario di specifici commenti da parte di un altro esponente, il B., il quale aveva manifestato il suo personale compiacimento per la convinta adesione al gruppo da parte del G.”
Per quanto nella parte motiva si faccia riferimento al funzionamento dell’algoritmo di Facebook in modo specifico, questo non deve sorprendere: il ricorso era imperniato su quello ed è per questa ragione che la Cassazione ne ha parlato di più.
Per il resto la sentenza – che, va ricordato, è stata resa in sede cautelare – appare del tutto lineare e assolutamente in linea con i precedenti in materia.
Come sempre, in questi casi, va poi ricordato che le sentenze rese dalla Cassazione in materia cautelare hanno sempre parametri più stringenti rispetto a quelle che definiscono il giudizio e sono, per così dire, precedenti più “deboli” in materia di diritto penale sostanziale, mentre vale l’opposto per il diritto processuale penale cautelare.
Conclusioni
Il like sul post razzista o antisemita non è automaticamente reato e, certamente, la Cassazione non lo ha affermato con questa sentenza.
L’apposizione di like è stata valorizzata in un contesto specifico di adesione a un gruppo di cui si ipotizza lo scopo di istigazione e propaganda vietati dall’articolo 604 bis del Codice penale e non è autonomamente valutato come fatto di reato.
Come ogni attività online, i “segni” che lasciamo dicono qualcosa delle nostre opinioni su un dato argomento.
Più sono specifiche e ripetute, più saranno esplicite le nostre opinioni.
Certamente il like messo a un post che magari non si è letto o, peggio, a una “storia” – spesso aperta per errore – non può avere una rilevanza penale autonoma, al di fuori di ipotesi marginalissime e, a parere di chi scrive, solo teoriche.
È anche necessario mantenere un minimo di equilibrio: l’odio online non può diventare una bandiera per l’integralismo conformista e a non distinguere le ipotesi gravi da quelle “minime” si rischia di togliere efficacia alle tutele – necessarie – per le situazioni davvero gravi.