Italia bocciata in Open Government. È questo quanto emerge dall’Open Government Index 2015, la ricerca pubblicata da World Justice Project (WJP), un’organizzazione non governativa statunitense che – per la prima volta – ha provato a misurare il livello di apertura di 102 Paesi.
L’Open Government Index è stato realizzato sulla base di interviste effettuate ai cittadini dei diversi Stati per investigare su quattro profili:
– la reperibilità delle norme vigenti e dei dati sul funzionamento dell’amministrazione (è stato chiesto quanto sia facile reperire i testi delle leggi e le informazioni sulla gestione della cosa pubblica);
– diritto d’accesso all’informazione (si è verificato quanto sia facile nei diversi Paesi ottenere le informazioni in possesso dell’amministrazione)
– partecipazione civica (si è controllato quanto sia effettiva la partecipazione dei cittadini al processo decisionale)
– meccanismi per la tutela dei diritti (è stato chiesto ai cittadini se esistano strumenti efficaci per ottenere la tutela dei propri diritti).
In base ai risultati delle interviste condotte, il WJP ha stilato una classifica che vede ai primi posti alcuni dei “soliti noti”, Paesi tradizionalmente ai vertici di altri ranking internazionali in materia di trasparenza e partecipazione (le prime tre posizioni in classifica sono rispettivamente di Svezia, Nuova Zelanda e Norvegia).
L’Italia, e non è una sorpresa, si piazza soltanto al 28simo posto, tra le ultime Nazioni europee in classifica.
La situazione italiana: mancano FOIA e partecipazione
Analizzando con maggiore attenzione il risultato del nostro Paese (frutto di mille interviste a cittadini di Roma, Milano e Napoli), emerge che il risultato più lusinghiero (19simo posto) è stato raggiunto in relazione alla pubblicità delle norme e alla reperibilità delle informazioni sull’attività della pubblica amministrazione.
Evidentemente, comincia a dare i suoi frutti la normativa sulla trasparenza proattiva introdotta dal Decreto Legislativo n. 33/2013, in base al quale sui siti web delle pubbliche amministrazioni devono essere pubblicati dati e documenti sull’organizzazione e sull’attività delle pubbliche amministrazioni.
Al contrario, sono decisamente preoccupanti i dati sull’accesso all’informazione (dove l’Italia è 32sima) e sulla partecipazione (30simo posto).
Anche in questo caso, i risultati non stupiscono: l’Italia è uno dei pochi Paesi che non ha ancora un Freedom of Information Act, per non parlare del fatto che la partecipazione civica – tanto a livello nazionale, quanto a livello locale – si è fermata ad alcuni timidi esperimenti, ma ancora non è diventata una prassi strutturata (basti pensare all’assenza di un portale governativo di petizioni).
(Fonte: Open Government Index 2015)
Queste rilevazioni sono attendibili?
Nonostante la posizione dell’Italia sia analoga ad altre ricerche in materia (22simo posto nell’Open Data Barometer e 25simo posto nell’Open Data Index), la lettura del rapporto del World Justice Project lascia qualche perplessità di carattere generale.
Si tratta sicuramente di uno strumento interessante, ma con più di qualche aspetto da affinare. Ad iniziare dalla metodologia: non sono sufficienti le interviste (tra l’altro effettuate con sistemi differenti tra i diversi Paesi) per misurare l’impatto delle azioni dei vari governi.
Il vero nodo da sciogliere poi riguarda gli ambiti di indagine: cosa significa davvero essere un governo aperto? La ricerca del WJP e i suoi quattro ambiti d’indagine forniscono una risposta non completa a questa domanda.
Colpisce, ad esempio, che all’interno dell’ Open Government Index abbiano scarso peso la lotta alla corruzione e la digitalizzazione dell’amministrazione, elementi che – invece – sono di cruciale importanza nell’ambito di Open Government Partnership (OGP) alla quale, invece, qualunque indice di misurazione dell’apertura dei governi dovrebbe fare riferimento (OGP è la più importante iniziativa internazionale in materia di governo aperto che vede coinvolti già 65 Paesi).
Ed invece c’è bisogno di rilevazioni complete, che consentano di verificare l’impatto che le azioni dei diversi governi hanno realmente sull’efficacia delle decisioni assunte, sulla qualità della vita dei propri cittadini e – in ultima analisi – sulla bontà delle nostre democrazie. Si tratta di valutazioni che saranno sempre più importanti nel prossimo futuro se è vero che – come sostiene Hillary Clinton – non ha ormai più senso distinguere tra paesi del Nord e paesi del Sud del mondo, tra Paesi ricchi e paesi emergenti: nei prossimi dieci anni la vera distinzione sarà tra paesi (governi) aperti e paesi (governi) chiusi.