La presentazione ufficiale del rapporto conclusivo del 3° Osservatorio Assinform sull’ICT nelle PA e in Sanità, avvenuta il 13 luglio a Roma, ci offre la possibilità di rappresentare una fotografia ragionevolmente aggiornata della situazione relativa allo stato attuale e alle prospettive dell’innovazione tecnologica della Pubblica Amministrazione.
L’Osservatorio, la cui attività di ricerca ha visto per la terza volta di fila la collaborazione di NetConsulting Cube e di Netics, rappresenta un momento di sintesi autorevole e ormai arricchito da una serie storica di dati che trae le sue origini dall’ormai lontano 2005, e prende in considerazione l’intero “pianeta PA” (a livello centrale, regionale e locale) e la Sanità pubblica.
Concentrandosi sulle principali evidenze del Rapporto, abbiamo ancora una volta a che fare con un Paese a velocità multipla: non solamente una “questione meridionale” quindi, quanto piuttosto una vera e propria diversificazione fra Nord Ovest, Nord Est, Centro, Sud e Isole. Situazioni anche in alcuni casi molto diverse fra loro, sia in termini di spesa ICT che di outcomes conseguiti.
Storie in molti casi condizionate (nel bene e nel male, meglio precisarlo) dalla presenza o meno di società ICT in-house di proprietà delle Regioni: entità, queste, che intercettano (anche qui, nel bene e nel male) una considerevolissima fetta della spesa ICT pubblica riferita al livello regionale ed alla sanità.
Su tutti, un dato molto interessante: quasi ovunque l’eventuale segno positivo nel trend di spesa ICT ha direttamente a che fare con l’utilizzo dei fondi europei, con una netta prevalenza del Sud e Isole.
Le Regioni, molte delle quali alle prese con conti sempre più complicati soprattutto a causa della dinamica di spesa riconducibile alla sanità, portano i remi in barca e riducono (in qualche caso, azzerano) la spesa IT in conto capitale. Idem le ASL e gli enti locali, anche a causa delle limitazioni agli investimenti derivanti dall’adozione di norme sempre più stringenti in tal senso.
Nel suo complesso, PA e Sanità aumentano nel 2015 rispetto all’anno precedente per un modesto 0,5%, assestando la spesa ICT complessiva del public sector a 5,57 miliardi di Euro.
Pochi, se paragonati ai budget ICT pubblci di Paesi come UK (9 miliardi abbondanti di sterline), Germania e Francia (8 miliardi di Euro circa); infinitamente pochi se paragonati al budget ICT del governo federale USA (abbondantemente sopra ai 20 miliardi di dollari/anno).
Ma anche “spesi male”, in molti casi: eccessiva duplicazione progettuale fra Enti, in assenza di una governance orientata alla messa a fattor comune ex ante (co-progettazione) o ex post (riuso); costo considerevole relativo alla manutenzione di un patrimonio applicativo legacy ai limiti dell’obsolescenza; eccessiva frammentazione dell’infrastruttura, con particolare riferimento alle server farm e/o data center presenti in quantità molto più che abbondante lungo tutto lo stivale.
Come giustamente ha sottolineato il DG dell’AgID, Antonio Samaritani, è ora di cominciare a dire un “anche no, grazie” ad eventuali nuovi progetti finalizzati a dar vita a data center comunali o di un singolo ospedale.
Soprattutto, è ora di dire basta allo sviluppo ad-hoc: che senso ha, avere centinaia di software applicativi per la contabilità o per la gestione delle paghe?
Che senso ha, nel 2016, ragionare in termini di “proprietà del sorgente” (sia esso open o meno) e di “licenza d’uso”?
“All as a service”, dice giustamente Samaritani. E non si può non essere d’accordo.
Cloud come se non ci fosse un domani, e una quantità ragionevole (piccola a piacere) di data center davvero all’altezza della situazione.
All’alba del terzo millennio, si può essere un fior di CIO senza avere un solo chilogrammo di server sotto controllo: il valore (e se proprio vogliamo dirla tutta fino in fondo, il potere) sta nel dato. Indipendentemente dal dove questo dato risieda.
Avere ferro in casa significa pagare bollette energetiche e avere grattacapi mica da ridere in termini di cyber security: qualcosa di maledettamente sottovalutato, in ambito PA nel nostro Paese.
Come altrettanto giustamente ha avuto modo di dire l’on. Paolo Coppola, altro esponente di rilievo della community digitale di matrice pubblica oltre che parlamentare notoriamente paladino dell’innovazione, a una “buona spesa” lato compratore deve corrispondere una “ottima execution” lato venditore.
Parole sante.
Anche se dobbiamo rilevare, da analisti abituati a mettere in relazione fra loro effetti e cause, che molta della “cattiva execution” ha a che fare con le famigerate gare al massimo ribasso. Come dire: una PA che si fa del male da sola, comprando innovazione così come si comprano le penne biro o i fischietti per i vigili urbani.
Quello che davvero serve è – finalmente – un completo ridisegno del rapporto cliente-fornitore in ambito pubblico: arrivando a immaginare (così come succede in mezzo mondo già da tempo) situazioni che vedono la completa condivisione di oneri, rischi ed onori fra compratore e venditore.
Value based contract, per fare un esempio. Ma anche “performance” al posto di “value”, considerando che siamo in ambito pubblico dove molto spesso è difficile tradurre in valore un’incremento di prestazione.
Ultimo punto, fra quelli che possiamo definire gli highlights del rapporto: la ricerca della killer application per SPID, PagoPA e in generale per le piattaforme poste alla base della digital transformation della PA.
Qui il tema è delicato: SPID, soprattutto, fatica a far breccia in termini di effettiva adozione (e utilizzo) da parte del cittadino.
Anche qui, gli analisti e gli identity provider concordano nel dire che la killer application non può che arrivare dai due ambiti della PA che “davvero” impattano sul cittadino comune: scuola e sanità.
Registro scolastico e referti sanitari online saranno con ogni probabilità le vere killer application in grado di far salire di almeno due ordini di grandezza il numero delle identità digitali rilasciate dai provider certificati.
In questo senso, AgID (e i service provider) devono fare un enorme lavoro di promozione di SPID agli isituti scolastici, alle ASL e agli Ospedali prima ancora che al cliente finale. Prima che gli spot pubblicitari in tv, serve una massiccia operazione di marketing nei confronti degli enti interessati e dei loro solution provider, finalizzata all’adozione di SPID e alla contestuale “rottamazione” (anche in ottica di spending review…) dell’identità digitale “fai da te”.
Come diceva il saggio: “provare per credere”.