A partire dal 1993 l’Italia ha avviato una corsa impressionante all’europeizzazione dei comportamenti comunicativi e di tempo libero, ma questo trend non si estende all’area dei comportamenti elettorali. Un orientamento che si è potuto osservare già da qualche anno ma che è apparso in tutta la sua evidenza col voto alle elezioni del 26 maggio 2019, quando la postura elettorale del nostro Paese è stata molto più affine a quella dell’est Europa che non a quella di altri Paesi a noi più vicini dal punto di vista culturale, come la Spagna o la Francia.
Uno strappo, senza dubbio, che proviamo a analizzare insieme ad altre tendenze che si sono registrate alle ultime elezioni europee.
I giovani, influencer più dei social
Nei giorni successivi alle elezioni europee, il quotidiano La Repubblica ha scritto un titolo polarizzato, efficace e che comunque mi piace ricordare: “Giovani decisivi sul voto europeo”. Sembrano evocate, quindi, alcune circostanze; anzitutto ha funzionato (più che in passato) un claim, quello che sinteticamente dice “questa volta voto”, che del resto la dice lunga sullo scarso amore per la partecipazione, l’interesse politico e la democrazia delegata. In ogni caso si tratta di una notizia in controtendenza rispetto all’echeggiata “apatia politica giovanile”, che in genere conosce interruzioni solo di tipo movimentistico attraverso “fiammate”, vale a dire partecipazioni improvvise che si esauriscono rapidamente. E, a ben guardare, la fiammata è un termine tecnicamente pertinente al tempo del rapporto tra digitale e politica, se non altro perché echeggia un concetto da me già sviluppato su federalismi.it[2] per descrivere la “propensione maggioritaria” dei discorsi politici in rete.
A questo punto l’affermazione che i giovani sono Influencer più dei social è dunque coerente con l’idea che stavolta i giovani, in percentuale d’impatto superiore al passato, hanno ritenuto di dover andare a votare perché sentivano che erano coinvolti anche elementi di scelta generazionale e culturale; basti pensare alla mobilità voluta e intensamente rappresentata dall’esperienza Erasmus. Ma un ulteriore elemento imprevisto è il numero di giovani che hanno votato e lo hanno fatto a favore dell’Europa.
Opinione-pubblica o opinione-pubblico?
Nel volume “Elezioni di TV”, pubblicato poco dopo l’ultima campagna costruita sulla centralità dei media tradizionali[3], quella culminata con le elezioni del 1994, abbiamo evidenziato come e quanto l’evoluzione dei media avrebbe certamente comportato una riduzione di impatto della televisione, anche se questo ridimensionamento in Italia è stato lentissimo e, a ben vedere, non è mai cessato del tutto.
Rispetto alle euforie democratizzanti sulla rete, che contagiava il clima di quegli anni, oggi la permanente forza dei media mainstream risulta quasi rassicurante rispetto al tipo di messaggio spiazzante e polarizzato che la Rete proietta sugli elettori. Nell’ambito del testo appena citato ho elaborato una variante semantica polemica con il concetto un po’ elitista di “opinione pubblica”: con un semplice gioco linguistico, partendo da “opinione pubblica” propongo di adottare opinione–pubblico, riassumendo così l’assunto che si verificavano spostamenti sempre più significativi a causa dell’impatto dei media. Con questo lemma intendiamo dunque come flussi organizzati di opinione che trovano momenti di composizione collettiva anche sotto la spinta di specifiche campagne mediatiche.[4] È importante notare che il testo in cui abbiamo avanzato questa dizione è del 1995: sembra passato un secolo, ma in realtà ha più cittadinanza che mai oggi.
Successivamente, intorno a turni elettorali più recenti e diversi mi sono cimentato per la rivista digitale federalismi.it in un’analisi previsionale dei risultati elettorali durante le ultime elezioni amministrative del Comune di Roma[5] e delle elezioni politiche del 2004. I dati sono stati poi verificati e commentati in appositi articoli postelettorali, offrendo un bell’esempio di come si possono fare bilanci previsionali mettendo in conto anche la possibilità di fallimenti.
Ho citato però federalismi perché la riflessione lì ripetutamente depositata sull’impatto del digitale ha avuto un altro momento di consistenza che vorrei rievocare. Studiando i risultati referendari, abbiamo elaborato un altro concetto, quello della polarizzazione estrema che la Rete porta con sé. Oggi non è una grande scoperta, ma allora era una lettura innovativa. L’ipotesi è, dunque, che la Rete digitale semplifica ulteriormente quello che fanno i media. Per poter capire e raccontare la politica contemporanea, gli studiosi dovrebbero tenere bene a mente questo aspetto.
Sulla base di queste premesse, passo ora a discutere i nodi più rilevanti.
- Il primo riguarda le differenze registratesi nel voto per le Elezioni politiche del 4 marzo 2018 e quelle per il 26 maggio 2019, nonostante la breve distanza di tempo (poco più di un anno): la somma dei consensi per i partiti cosiddetti sovranisti sembra invariata, ma c’è una notevole ripresa del Pd rispetto alle politiche precedenti e soprattutto si registra un chiaro ed evidente re-impegno dei giovani. Siamo ancora alla fase degli indizi, anche perché sappiamo che è duro riconoscere che uno dei più drammatici lasciti della modernità – anche qui guarda caso in tempo reale rispetto all’aumento di fortuna del digitale – consiste nella radicale svalutazione dell’importanza della partecipazione. E si è rivelata una favola quella di pensare che si poteva rintracciare una maggior partecipazione in Rete. In realtà si è semplicemente depotenziata la forza di convocazione della politica.
- Durante questa campagna elettorale è emersa anche un’altra novità: per la prima volta, in modo clamoroso, i media hanno fatto un curioso gioco di anticipazione cognitiva, come se fossero sondaggisti e soggetti previsionali: hanno dato ai Cinque Stelle e alla Lega un tempo di attenzione che – dopo il voto – si è rivelato singolarmente simile alla profezia che si autoadempie. Può sembrare troppo elementare affermare che i tempi della comunicazione politica corrispondano a quelli delle urne, ma non bisogna trascurare l’impatto dell’aumento di insicurezza sociale che rende singolarmente risonante la voce della comunicazione politica anche tradizionale. Del resto, occorre domandarsi come mai, in quattro turni elettorali locali e vicini nel tempo (Abruzzo, Sardegna, Basilicata e, infine, elezioni europee), si sia registrata una sostanziale affinità tra gli indici di copertura delle offerte politiche e i risultati usciti dalle urne. Se riusciamo a tematizzare questo nodo, gli studi faranno un rilevante passo avanti e sarà forse possibile anche un primo tagliando utile per l’interpretazione del populismo. Fa pensare il fatto che in tempi di drammatico disorientamento sociale e culturale, i media mainstream sembrano avere una funzione di orientamento significativa su ampi settori della società, e comunque non inferiore a quella attribuita alla Rete.
In occasione delle elezioni europee si è registrata un’ulteriore radicale sorpresa: i movimenti filo-europei sono stati nettamente più forti rispetto ad un presunto esaurimento dell’ideale europeista. Il finis Europae non si è verificato, nonostante l’eccezione di due Paesi in controtendenza.
Rifugiati: l’Italia affine all’est Europa
Da anni conduciamo studi che ipotizzano una correlazione possibile fra l’aumento delle chance culturali e i comportamenti politici. Ebbene i due Paesi in cui è stato più pronunciato il voto populista sono stati l’Ungheria – dove è presente un partito ben più egemone – e l’Italia, che comparativamente presenta una maggiore frammentazione politica. Tutto ciò non è sorprendente per gli studiosi, soprattutto quelli che nel tempo si sono cimentati in un tema politicamente diventato coraggioso, quello della rappresentazi
one della gigantesca fake sui migranti. Già nel 2015 l’Eurobarometro, che rappresenta una fonte attendibile e collaudata per interpretare il cambiamento culturale e politico del vecchio continente, poneva una domanda concreta, ma quasi pudica: “Il suo Paese dovrebbe aiutare i rifugiati?”. Attenzione: si pone l’accento sui rifugiati, su cui c’è un sentimento di attenzione certamente superiore rispetto ai migranti economici.
È importante notare che nel 2015, per la prima volta e con una certa velocità, si registra un significativo spostamento di campo: la percentuale di italiani che chiede di non aiutare i rifugiati (46%)[6] è sensibilmente più alta rispetto a Paesi tradizionalmente considerati vicini dal punto di vista culturale come Germania, Spagna e Francia. È come se la maggioranza degli elettori italiani si fosse spostata dalle posizioni del passato adottando la postura più tipica dei Paesi dell’Europa dell’est. Inoltre, le percentuali di attenzione nei confronti dei rifugiati non presentano una stretta correlazione con l’impatto sui Paesi che hanno minore o maggiore numero di migranti sul totale della popolazione. Abbiamo anche esempi paradossali: la Polonia ha solo un immigrato ogni 850mila abitanti, ma nella percezione l’impatto risulta moltiplicato.
Il voto del 4 marzo 2018 e ancor più quello del 26 maggio 2019 ha eloquentemente indicato, come era possibile prevedere seguendo l’Eurobarometro, che l’Italia risulta incredibilmente affine ai Paesi dell’Est europeo, con cui peraltro non si riscontra nessun’altra analogia, né sui consumi culturali né di propensioni informative.
Osservando il fenomeno con uno sbrigativo cenno alle dinamiche culturali, siamo un paese che dal 1993 ha avviato una corsa impressionante all’europeizzazione dei comportamenti comunicativi e di tempo libero, ma questo trend non si estende all’area dei comportamenti elettorali.
Questo è il vero strappo. Per la prima volta, l’affinità culturale dell’Italia con la vecchia Europa democratica si è interrotta, non coinvolgendo però i comportamenti mediali e digitali. È come se, per la prima volta, si fosse in qualche modo ridimensionato il principio di coerenza tra cambiamenti nei comportamenti culturali e, al contempo, si fosse sospeso il “filone” di affinità con quello politico. Concludendo questo tema, si è registrata una radicale interruzione della consapevolezza politica e dell’autocollocazione dei soggetti rispetto al passato.
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- Questo testo riassume l’incipit al Convegno organizzato da Federalismi.it dal titolo “Social network, formazione del consenso e istituzioni politiche: quanto hanno influito i social sulle elezioni europee?”, i cui atti sono di prossima pubblicazione ↑
- Morcellini M., “Nonostante l’impar condicio. Vecchi media, tecnologie di rete e cambiamenti culturali”, in federalismi.it, n.13/ 2011. ↑
- Morcellini M., a cura di, e-lezioni di TV. Televisione e pubblico nella campagna elettorale ’94, Costa&Nolan, Genova 1995. ↑
- Su questi temi, un riferimento “classico” è Brewer Smith, “A Psychologist’s Perspective on Public Opinion Theory”, in Public Opinion Quarterly, spring 1971. ↑
- Morcellini M., Non desiderare la comunicazione d’altri, Prefazione in Morcellini M., Faggiano M. P. e Nobile S. (a cura di), Dinamica capitale. Traiettorie di ricerca sulle amministrative 2016, Maggioli, Sant’Arcangelo di Romagna 2016. ↑
- “L’idea che a livello nazionale si debbano aiutare i rifugiati è ben radicata nel 65% dei cittadini Ue, con picchi ben superiori in molti paesi del Nord Europa (94% in Svezia, 88% nei Paesi Bassi, 86% in Danimarca e 83% in Germania), ma anche in alcuni paesi della fascia mediterranea, incluse Spagna (84%) e Grecia (85%). In Italia, invece, sono più frequenti i giudizi negativi: solo il 42% degli intervistati ritiene che il paese debba aiutare i rifugiati”. Dati contenuti nel “Rapporto nazionale Italia” di Eurobarometro, relativi all’autunno 2015. ↑