Con il partito spagnolo Podemos e l’Italiano Movimento 5 Stelle, il Partito Pirata islandese, è una delle formazioni politiche che più ha cercato di sfruttare le nuove tecnologie per costruire una base di iscritti forte e attiva e cercare di trovare nuovi modi di interpretare la rappresentanza politica. I numeri sono piccoli in valore assoluto – il Partito fondato a Reykjavik, oggi ai suoi massimi, può contare su poco più di 1400 iscritti – ma diventano significativi se si considera che tutta l’isola conta all’incirca 320.000 abitanti. È forse proprio un posto come questo, dalle dimensioni ridotte, ma dall’altissimo tasso di alfabetizzazione digitale, che potrebbe diventare un laboratorio dove sperimentare nuove forme di partecipazione. Ne abbiamo parlato con una delle fondatrici del partito, Birgitta Jonsdottir, di ritorno dal FutureFest di Londra, dove abbiamo dialogato con omologhi spagnoli e italiani sul futuro della democrazia.
Per cominciare, un dubbio. I movimenti politici di nuova generazione, che cercano di dare nuova linfa a una democrazia in crisi, sono in grado essi stessi di garantire una partecipazione democratica a loro interno? Come saprà, in Italia il Movimento 5 Stelle è stato più volte criticato per l’atteggiamento non certo “tenero” verso i dissidenti.
Non ho una conoscenza particolarmente approfondita di quella specifica situazione, ma credo che un problema comune a molti dei movimenti politici che sono nati negli ultimi anni in Europa e nel resto del mondo, è che pur volendo rinnovare i contenuti, hanno mutuato la stessa struttura organizzativa dei partiti tradizionali. Una struttura a piramide, con un leader molto forte, come nel caso del movimento 5 Stelle. Io personalmente sono molto critica di questo perché non voglio creare un partito tradizionale, dato quel tipo di modello è stato proposto a lungo, ma si è visto che non funziona. Credo che uno dei lati migliori di questi due partiti politici (prima il ‘Citizens Movement’ e poi il partito pirata islandese, n.d.r.) che ho contribuito a creare è stato quello di cercare di adottare una struttura orizzontale, lo chiamerei anzi, un “cerchio” di potere, in cui tutti hanno cercato di adattarsi al ruolo che avevano…
Ma il digitale, le piattaforme di mobilitazione civica online e gli altri strumenti di consultazione e partecipazione elettronica possono davvero fare la differenza? A Londra lei ha sottolineato i rischi di affidarsi totalmente a degli algoritmi, in questo campo.
Sì gli algoritmi sono molto facili da manipolare, non ci si può appoggiare solo a loro, ma tutto deve poggiare sulla comunità. Per trasformare le nostre società, dobbiamo guardare ad esse in modo olistico, non soltanto a un loro aspetto particolare. La democrazia diretta non significa nulla, se la usa solo un gruppo di persone. Come fare a coinvolgere le persone anziane e quelle che non hanno un accesso veloce ad Internet? Il digitale è solo un frammento della soluzione. L’obiettivo deve essere quello di coinvolgere quante più persone possibile, come abbiamo fatto nel caso della proposta di nuova costituzione che abbiamo fatto – che è stata scritta da e per le persone del popolo islandese (nonostante il successo del crowdsourcing, la bozza si è arenata in Parlamento, bloccata dai politici n.d.r.). È un processo che qualsiasi nazione può in realtà fare e che tutte le nazioni dovrebbero fare regolarmente, un processo con cui una nazione dialoga con sé stessa su come è, su come si vede, e su dove sta andando.
A proposito di piattaforme, usate anche voi Liquid Feedback come altri partiti Pirata europei?
Liquid Feedback, che io chiamo Active Vote (penso che l’espressione “voto liquido” suoni troppo strana per le persone normali, mentre l’idea di un voto attivo, è più facile da capire), non lo stiamo ancora usando davvero. Ci stiamo lavorando su, e per questo ritengo sia importante trovare una qualche forma di collaborazione con altre soluzioni di democrazia diretta che stanno venendo sperimentate in Spagna, Italia, Estonia e Finlandia, ed è questo anche il motivo per cui stiamo partecipando al progetto D-Cent coordinato da Nesta. Sto anche cercando di interessare alla questione alcune università. Vediamo come va. Al di là dell’aspetto tecnologico, comunque, mi piacerebbe sperimentare anche soluzioni di altro tipo per avendo una parte dei parlamentari pescando a caso dai registri statali, un po’ come una giuria popolare, in modo che non si sentano troppo “investiti” dal fatto di doversi adeguare a delle linee di partito. Inoltre mi piacerebbe che il Partito Pirata portasse avanti 10 agende o 10 proposte politiche e chiedesse alla gente quali sono quelle a cui vorrebbero che il partito desse priorità.
Un ambito in cui siete all’avanguardia è quello delle leggi a tutela della libertà di espressione e della riservatezza dei dati personali. L’Icelandic Modern Media Initiative e l’International Modern Media Institute, di cui lei è fra i promotori, trasformerebbero l’Islanda nel luogo forse più avanzato del pianeta per quanto riguarda la tutela delle fonti e la protezione dei whistleblower. Ove queste misure diventassero pienamente operative, potrebbero servire a proteggere anche i whistleblower internazionali come Manning o Snowdern, come qualcuno ha suggerito?
No, non riguarda la protezione dei whistleblower internazionali. Ma i whistleblower in Islanda sarebbero protetti. Quindi le altre nazioni potrebbero guardare a questa legge come ad uno standard, per prenderla a modello. Quello che stiamo facendo è appunto creare un nuovo standard legale per il 21esimo secolo, che possa essere adottato in altre nazioni. Uno dei nostri ambiziosi progetti per il futuro dell’istituto è quello di creare un database che classifichi le migliori leggi esistenti su varie materie, per esempio quelle sulla neutralità della rete. Ho scoperto che sono quelle olandesi, ma non sono riuscita a trovare una versione inglese delle stesse. Serve una piattaforma da cui tutti questi nuovi partiti che stanno venendo creati, possano attingere, in modo da non dover creare delle nuove leggi da zero. Una banca dati di leggi in cui trovare delle best practices e dei testi da cui prendere spunto.
A proposito di protezione dei dati e di sorveglianza elettronica in generale, qual è il suo atteggiamento verso i social network come Facebook e Twitter? Sembrerebbero strumenti indispensabili per movimenti che, come il suo, nascono dalla Rete.
Piattaforme come Facebook possono essere utili per comunicare e coordinarsi, d’altra parte, ci sono molti aspetti di questo social network che invece non mi piacciono. Non mi piace Facebook perché…ci sono molte ragioni. Una è che si sono piegati, e hanno dato a dei soggetti terzi, come il governo degli Stati Uniti e la Nsa accesso ai nostri dati privati. Spendiamo così tanto del nostro tempo su Fb, rendendolo un impero, e dandogli così tanti dettagli privati senza rendercene conto. E sono troppo morbidi nei confronti delle richieste di accesso alle informazioni dei governi. Poi non ti fanno vedere tutti i contenuti, ma hanno degli algoritmi molto aggressivi che spingono determinate storie, le storie più popolari. Non ha importanza quante volte clicchi ‘aggiorna’ sulla mia pagina, non vedo mai le storie più recenti, di modo che è impossibile per me sentire davvero il polso delle persone di cui sono amica.
Twitter si sforza di più di proteggerela privacy degli iscritti, e ho un’esperienza personale al riguardo, dato che il governo Usa voleva i miei dati quando ero nel Parlamento islandese, e Twitter si è opposta con forza. Hanno alcuni avvocati molto tosti che ci hanno informato della cose, e hanno cercato di impedire al governo di accedere alle informazioni.
Molte persone dicono non è un problema se non hai niente da nascondere. Ma la questione non è questa. La questione è che la privacy è un diritto umano che è stato ratificato dalla Carta Europea dei Diritti Umani e dalle stesse Nazioni Unite. Ma Facebook e Google e probabilmente Skype (ride, dato che la nostra conversazione si sta svolgendo proprio su Skype, n.d.r.), non lottano tanto quanto potrebbero.