digital divide

La casa digitale italiana ha le fondamenta deboli: i suoi cittadini

Ormai da troppo tempo si parla di competenze digitali e si formalizza il tema centrale del digital divide cognitivo come obiettivo politico prioritario. Sembrano però mancare efficaci e concreti interventi per avviare un processo di miglioramento dell’alfabetizzazione digitale della popolazione italiana

Pubblicato il 22 Dic 2021

Angelo Alù

studioso di processi di innovazione tecnologica e digitale

digital divide

Non bastava l’ennesimo quadro aggiornato del DESI sul deficit cognitivo digitale rilevato nel nostro Paese.

Per comprendere il principale – e più importante – problema che tutt’ora impedisce il pieno sviluppo tecnologico italiano, in condizioni di inclusione, equità e sostenibilità generale, è emblematico l’esito fotografato dal quarto Rapporto Auditel-Censis, da cui emerge l’esistenza di 2,3 milioni di famiglie non connesse, cui si aggiungono altri 7,2 milioni di nuclei familiari che hanno unicamente la linea mobile, mentre 8,4 milioni di famiglie italiane non hanno in casa né un pc né un tablet, con picchi ancora più diffusi nell’ambito delle fasce socio-economiche più basse.

Tali evidenze, peraltro, possono essere collegate alle ulteriori rilevazioni formalizzate nel report Censis-Centro Studi Tim sulle competenze digitali degli italiani, evidenziandosi, come vera e propria emergenza sociale, una condizione di “povertà digitale” alimentata da carenti livelli di istruzione che sono destinati ad incrementare il profondo gap tra gli “inclusi” e gli “esclusi”.

Italiani senza internet: la sfida del digital divide più pericoloso

I dati del gap digitale italiano

Il processo di scolarizzazione ha da sempre avuto un ruolo decisivo per tentare di ridurre le discriminazioni sociali esistenti, a maggior ragione, in un momento storico – come quello attuale – in cui la profonda e generalizzata digitalizzazione della stragrande maggioranza delle attività quotidiane potrebbe determinare effetti iniqui, lasciando definitivamente indietro un’elevata percentuale di popolazione priva di competenze digitali di base.

Se non stupisce riscontrare una diffusa incapacità di utilizzo delle tecnologie tra coloro che sono in possesso dei più bassi livelli di istruzione, come la terza media (58,7%), è significativo che una quota di persone esposte al digital divide sia presente anche tra chi possiede un titolo di studio superiore (15,8%), a dimostrazione di un fenomeno stratificato nel tessuto sociale italiano a causa di problemi accumulati nel corso del tempo che non sono stati affrontati con la necessaria lungimiranza politica mediante la predisposizione di azioni progettuali destinate a realizzare interventi di medio-lungo termine per preparare le persone, in anticipo, ai cambiamenti tecnologici esistenti.

Peraltro, in una popolazione che registra un crescente tasso demografico di vecchiaia, preoccupa il divario anagrafico in relazione all’utilizzo degli strumenti digitali: fino a 44 anni le competenze digitali medie dei cittadini consentono di fronteggiare qualsiasi esigenza, tuttavia tra i 45 e i 65 anni il 17,1% dei cittadini si registrano criticità più significative (3,1 milioni di persone in età lavorativa), mentre oltre i 65 anni il tasso dell’analfabetismo copre il 61,9% del totale (circa 8,6 milioni di persone).

Tra gli occupati la quota di chi è in difficoltà supera di poco il 5%, ma sale all’11,3% tra i disoccupati e arriva fino a quasi la metà degli inattivi (44,6%). In altri termini, il fattore occupazionale costituisce un’opportunità minima di formazione digitale con la conseguenza che chi non svolge un’attività lavorativa (che nel 78,7% dei casi implica l’utilizzo di mezzi digitali), ha molte meno occasioni per utilizzare e sviluppare le proprie competenze digitali.

Il nodo della cultura digitale di base

Male, anche, l’inclusione digitale di genere.

Lo scenario descritto non rappresenta una novità assoluta nel monitoraggio del divario digitale cognitivo rilevato in Italia; al contrario, si tratta di un ennesimo riscontro che, periodicamente e sulla base di svariate ricerche di settore (nazionali e internazionali), attesta l’esistenza di un radicato problema di esclusione sociale destinato a incrementare gli effetti discriminatori con conseguenze sempre più gravi.

La crescita infrastrutturale del Paese, per quanto importante (pur nella sua, comunque, “moderatamente” lenta diffusione), unitamente alle riforme già atto e prossime da realizzare (sebbene spesso troppo settoriali e prive di un’auspicabile organicità generale) che dovrebbero predisporre una generalizzata digitalizzazione dei servizi, da solo non bastano, se non si interviene sulle fondamenta di una “casa” ancora precaria: la cultura digitale – di base e avanzata – della popolazione italiana.

In assenza di tale priorità strategica – che impone la necessità di elaborare e attuare nuove metodologie formative per stimolare l’apprendimento di innovative abilità professionali nell’immediato futuro, come vero e proprio cambio di paradigma generale – il rischio paradossale è quello di determinare una più incisiva e definitiva “spaccatura” tra i cittadini, lasciando definitivamente indietro le persone maggiormente esposte al rischio di esclusione digitale.

Piuttosto che realizzare una società più inclusiva ed equa, la digitalizzazione potrebbe veicolare una diffusa povertà fonte di discriminazioni e diseguaglianze tra le persone.

Un vero e proprio effetto “boomerang”, quindi, che potrebbe anche peggiorare l’attuale – già preoccupante – emergenza digitale italiana.

Mutare il sistema formativo del sistema educativo

Il nostro Paese paga un generale livello di arretratezza tecnologica che non è stata ancora affrontata con la giusta predisposizione di politiche programmatiche in grado di delineare una pianificazione concreta ed efficace degli interventi da realizzare, mentre altri Paesi in largo anticipo hanno disegnato una cornice regolatoria funzionale a sfruttare i benefici delle tecnologie.

Pensare oggi di risolvere il problema nel giro di poco tempo, narrando, come decisivo criterio risolutore di tutti i mali esistenti, l’impatto dei fondi europei sulle dinamiche applicative di un processo organizzativo diffuso nei settori pubblici e privati che funge da freno – soprattutto culturale – alla crescita digitale, è illusorio e potrebbe determinare il rischio di perdere l’ennesima opportunità di rilancio in un perenne irreversibile stato da “anno 0” destinato a mantenersi tale senza un’effettiva evoluzione.

La priorità dovrebbe essere quella di mutare profondamente il complessivo sistema formativo del sistema educativo per offrire soprattutto alle nuove generazioni opportunità adeguate ai cambiamenti dell’imminente futuro mediante una distribuzione generalizzata di competenze digitali – di base e avanzate – in grado di assicurare un efficace accesso al mercato del lavoro e un esercizio consapevole di diritti fondamentali di cittadinanza sempre più configurabili nella dimensione “onlife”.

Conclusioni

Ormai da troppo tempo si parla di competenze digitali e si formalizza il tema centrale del digital divide cognitivo come obiettivo politico prioritario da realizzare. Sembrano però mancare efficaci e concreti interventi per avviare un processo – sia pure graduale – di miglioramento delle competenze ICT della popolazione italiana. Nonostante i numerosi report di settore dedicati all’analisi di tali aspetti nel corso degli anni, lo scenario italiano pare mantenersi in un costante e immutato livello negativo di stratificazione che consolida l’analfabetismo tecnologico senza neanche la possibilità di immaginare un cambio di rotta rispetto alle criticità attualmente esistenti, con il rischio che ogni giorni di ritardo allontana sempre di più il nostro Paese dal raggiungimento di standard minimi di sostenibilità digitale indispensabile per assicurare lo sfruttamento equo e inclusivo dei vantaggi offerti dalle tecnologie.

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