L’interpretazione giurisprudenziale delle Corti Supreme e la lettera della legge si pongono a fondamento dell’affermazione della sovranità digitale di ogni Stato. Allo stesso modo la protezione e la sicurezza dei dati personali è presupposto di legittimità cardine per l’innovazione digitale e lo sviluppo economico degli Stati.
Ne è ben consapevole la Cina per la quale il controllo delle reti e dei dati all’interno dei propri confini rappresenta un vantaggio competitivo imprescindibile in vista dell’ambita governance globale dei dati. Allo stesso modo il percorso verso la regolamentazione dei grandi poteri privati rappresenta un fattore strategico cruciale ben delineato nella stretta anti-Big Tech condotta dalle autorità di Pechino per mettere un freno ai comportamenti monopolistici delle grandi aziende del comparto: Alibaba, Tencent, JD.Com, Xiaomi, ma anche Apple, recentemente “schiaffeggiata” dalla Corte suprema della Cina (la cui interpretazione giudiziale in Cina ha valore di legge) con una sentenza che ha sancito a vantaggio dei consumatori il diritto di citare in giudizio Apple per presunto abuso di quote di mercato e pratiche vessatorie applicate dal proprio App Store in Cina.
Big tech, il peggio in Cina non è ancora passato: ecco perché
Ripercorriamo dunque qui di seguito i tratti salienti del “giro di vite” intrapreso dalla Cina contro le società tecnologiche più potenti, sia nazionali che internazionali, teso a prevenire violazioni dei valori fondamentali del socialismo e a “creare un buon ambiente cibernetico” in cui coltivare l’ascesa della sovranità digitale cinese.
Tanto ci consente di gettare uno sguardo in tempo reale sulla rivalità tra le aziende tecnologiche e le istituzioni in termini di influenza geopolitica, così come sul dispiegamento, l’interazione e i risultati di processi politici e normativi complessi – con impatti domestici e internazionali – in un arco temporale decisamente breve.
La Personal information protection law (“Pipl”) cinese
Uno degli eventi normativi significativi dell’ultimo periodo è senza dubbio l’introduzione della legge sulla privacy cinese che interessa molte aziende internazionali operanti in Cina o intenzionate a coltivare relazioni commerciali con il territorio cinese.
Il Comitato permanente dell’Assemblea nazionale del popolo cinese il 20 agosto 2021 ha approvato la “Personal Information Protection Law of the People’s Republic of China”, (“PIPL”), e questa è entrata in vigore il 1° novembre scorso.
Questa Legge si inserisce in un sistema regolatorio in costante evoluzione con impatti a livello domestico e internazionale estremamente imprevedibili, specie per i riflessi in fatto di circolazione internazionale dei dati e dell’adozione di misure destinate allo sviluppo di tecnologie relative al riconoscimento facciale, all’intelligenza artificiale e all’analisi dei dati.
Parliamo di un quadro normativo di cui fanno parte altri due provvedimenti di spessore: la Cybersecurity Law, in vigore dal primo giugno 2017 e la Data Security Law approvata il 10 giugno 2021 dallo Standing Commitee del Congresso nazionale della Repubblica popolare cinese, in vigore da settembre 2021.
L’obiettivo cardine al centro dell’insieme dei suddetti provvedimenti, oltre che a costruire un sistema giuridico solido dove impiantare il regime di sicurezza delle informazioni e dei dati in Cina, mira, in modo specifico, a potenziare le esigenze di sovranità digitale ritenute prioritarie da Pechino, a maggior ragione nel contesto dell’attuale competizione tecnologica e commerciale tra USA e Cina.
Data Security Law, Cybersecurity Law e Personal Information Protection Law costituiscono dunque i limiti regolamentari all’interno dei quali le organizzazioni dovranno modellare la legittimità dei relativi trattamenti così come dei trasferimenti transfrontalieri dei dati, sulla base di criteri di sensibilità e valore economico degli stessi.
Le conseguenze che tanto potrebbe comportare in termini di rapporti fra operatori commerciali di nazionalità diversa e per il futuro delle relazioni tra Cina e resto del mondo si rivelano al momento tutt’altro che prevedibili.
Una cosa intanto è certa: per Pechino, mantenere la sovranità e il controllo sulla circolazione dei dati prodotti da attori sia domestici che internazionali, rappresenta a tutti gli effetti una necessità ineludibile in vista del vantaggio competitivo atteso dalla governance dello sviluppo tecnologico e delle applicazioni di intelligenza artificiale.
Ed è in tale scenario regolatorio che si inserirà anche l’imminente provvedimento sugli algoritmi di raccomandazione dei servizi di informazione (pilastro principale del modello di business di tutte le piattaforme social ed e-commerce), promosso dalla Cyberspace Administration of China, il cui obiettivo sarà quello di regolamentare l’utilizzo dei software di filtraggio dati alla base delle principali applicazioni di servizi internet: un ulteriore tassello normativo che andrà ad incrementare il livello di complessità del già robusto framework legislativo destinato al cyberspazio cinese e che metterà di fronte a scelte importanti numerose aziende e i loro modelli di business, non solo Apple e WeChat.
La stoccata della Corte Suprema cinese mina le certezze di Apple
Altro evento di spessore è costituito dalla vicenda che vede Apple e la sua divisione cinese al centro di un contenzioso recentemente definito dalla Corte Suprema della Cina: un qualunque consumatore cinese può validamente adire un tribunale di Shanghai e intentare una causa per motivi antitrust contro la filiale cinese di Apple. Lo ha stabilito la sentenza resa dalla Corte Suprema cinese che ha respinto l’appello di Apple secondo cui la sua entità cinese non dovrebbe essere citata in giudizio per problemi relativi alle operazioni dell’App Store.
La pronuncia della Corte Suprema del Popolo in Cina ha pertanto ritenuto validamente incardinata la causa intentata a febbraio dai legali di Jin Xin, con la quale l’utente cinese ha inteso contestare alla Apple Computer Trading Shanghai Co, sia l’applicazione indebita della commissione pari al 30% (ora ridotta al 15% per gli sviluppatori che producono meno di 1 milione di dollari di entrate annuali dalle loro app) sugli acquisti nell’App Store cinese, sia le limitazioni previste per gli utenti cinesi di effettuare pagamenti tramite portafogli diversi da Apple Pay, come Alipay e WeChat Pay.
Jin Xin ha richiesto la cifra di 100.000 yuan (15.500 dollari) a titolo di risarcimento oltre alle pubbliche scuse dell’azienda americana.
È chiaro come la sentenza della Corte Suprema, al di là dell’esame del merito delle recriminazioni avanzate, stabilisca un principio importante che definisce il perimetro del diritto d’azione attribuito ai privati e che funge da premessa d’eccezione per scenari dagli impatti piuttosto dirompenti. Ciò a maggior ragione poiché direttamente incidente nell’ambito dell’abuso di posizione di mercato e alterazione delle regole della concorrenza. Ovvero il terreno d’elezione in cui operano le grandi piattaforme digitali, artefici delle strutture sociali in cui viviamo e promotrici di quel processo, ormai avanzato, per cui la trasformazione dei dati degli utenti in valore costituisce un meccanismo di accumulazione estremamente prezioso, che tuttavia cela un processo di scambio fra soggetti con diseguale potere e dunque, di fatto, una limitazione della sfera pubblica.
Apple in Cina, due pesi e due misure
Nell’ecosistema Apple, l’App Store, nel 2020, ha prodotto 643 miliardi di dollari di fatturato e vendite; il 47% grazie alla Cina; solo il 27% è invece attribuibile ai successi riscontrati negli Stati Uniti. Questo malgrado dal 2017 oltre 55.000 app invise al regime siano scomparse dall’App Store cinese: quelle di messaggistica crittografata, le app VPN, quelle dei media occidentali, tra cui il New York Times, quelle dei dissidenti politici e quelle del mondo gay e tutte quelle che hanno, di volta in volta, catturato l’esplicita attenzione dei funzionari governativi della Cyberspace Administration of China, come l’app del dissidente politico e miliardario cinese in esilio a Manhattan, Guo Wengui[1].
Dopotutto non è una novità che quella tra la Cina e Apple sia una bella storia di successo ma anche di incoerenza frutto dell’insieme di patti “faustiani” che hanno consentito al colosso di Cupertino di consolidare nel tempo i rapporti commerciali con Pechino[2], e di centrare le aspettative di profitto e successo delle proprie strategie di marketing, a patto, però, di favorire le velleità autoritarie del regime comunista cinese, espressione della censura e della ben nota sorveglianza governativa.
Nei giorni della grande rivoluzione pro privacy sugli iPhone, criticata da Facebook e da diverse organizzazioni private, un’inchiesta giornalistica pubblicata dal New York Times ha già ampiamente rivelato la dimensione delle grandi concessioni di Apple, operanti sul fronte dei diritti, a favore del Governo cinese.
A cominciare dall’inaugurazione del suo data center a Guiyang, una modesta città nel sud-ovest della Cina, gestito da una società cinese che gode del placet del governo, la Guizhou-Cloud Big Data Industry Development Co., Ltd. – 云 上 贵州 公司- (GCBD), pre-annunciata da Apple nel 2017 come risposta necessaria per il rispetto degli adempimenti richiesti dalle disposizioni della China Cybersecurity Law che ha imposto alle aziende, agli operatori di rete e agli operatori di infrastrutture critiche informatizzate, di archiviare i dati degli utenti locali nel territorio cinese.
In altri termini, in ottemperanza alla legislazione cinese sulla cyber sicurezza, i server dell’azienda tecnologica americana, contenenti gli archivi dei dati degli utenti locali, sebbene crittografati, verrebbero resi disponibili alle autorità governative con tanto di “specifico supporto tecnico e assistenza”, qualora vi fossero esigenze di accesso agli stessi, a prescindere dalla presenza o meno di uno specifico mandato rispondente alle leggi statunitensi. Stando alle osservazioni del NYT, anche le chiavi di decifrazione di tali file, solitamente archiviate su dispositivi specializzati chiamati moduli di sicurezza hardware, normalmente realizzati da Thales, un’azienda tecnologica francese, per l’occasione verrebbero conservati in Cina adeguando all’uopo anche le relative tecnologie di sicurezza.
Come si stanno muovendo le altre Big Tech
Ad ogni modo, se le relazioni commerciali tra Apple e Cina sono connotate da forti elementi di interdipendenza, a cominciare dalla filiera produttiva, con Foxconn di Zhengzhou che è la più grande fabbrica di iPhone al mondo (Apple è leading company nel settore di riferimento, tuttavia, sebbene non abbia fatto mistero della possibilità di uno spostamento di parte delle proprie catene di fornitura al di fuori del suolo cinese verso altre destinazioni più convenienti del Sud-Est asiatico oppure verso l’India, ciò non è parso realisticamente perseguibile stante la necessità di una forza lavoro altamente qualificata, di una eccellente capacità infrastrutturale nonché di una velocità di innovazione hardware senza pari che solo la Cina è in grado di mantenere), per cui ogni singola mossa avventata potrebbe ben provocare instabilità anche al di fuori delle loro relazioni, altrettanto non vale per le altre Big Tech dove le pretese di controllo e le recenti norme restrittive del governo di Xi hanno già richiesto ai vertici aziendali di dover rivalutare l’opportunità della propria permanenza nel paese: dopo Facebook, Twitter e Microsoft, lasciano la Cina anche Fortnite e Yahoo.
Proprio Epic Games ha recentemente annunciato come gli utenti cinesi non potranno più registrarsi o scaricare Fortnite a partire da lunedì 15 novembre quando Epic Games chiuderà i server di Fortnite in Cina, probabilmente a causa delle severe restrizioni di gioco previste per bambini del paese. Pechino ha infatti previsto rigorosi limiti all’utilizzo dei videogiochi: come annunciato dall’organo di stampa statale cinese Xinhua, piattaforme come Tencent e NetEase potranno offrire l’accesso al gaming ai minori di 18 anni solo per tre ore alla settimana – massimo una al giorno – il venerdì, nei giorni del weekend, durante le feste e solo dalle 8 alle 9 di sera.
La stretta cinese contro l’ascesa della network/connected society e delle aziende tech locali
L’egemonia della Repubblica popolare cinese sul mercato internazionale e sulla data driven economy, già espressione del Golden Shield Project (il progetto di censura e sorveglianza del partito comunista), così come la priorità assoluta attribuita alle esigenze di sovranità e governance dei dati, se da una parte stanno mettendo a dura prova le Big Tech americane, dall’altra non risparmiano neppure quelle cinesi il cui valore azionario, non a caso, viene esposto a drastiche riduzioni di prezzo e ingenti perdite finanziarie.
In modo particolare le recenti strette antitrust cinesi preoccupano gli investitori e i dirigenti delle grandi imprese globali, da Gafam (Google, Apple, Facebook, Amazon, Microsoft) a Natu (Netflix, Airbnb, Tesla, Uber) fino a Batx (Baidu, Alibaba, Tencent, Xiaomi).
Tanto però non costituisce un evento inaspettato, come fosse un fulmine a ciel sereno.
Il programma Made in China 2025 – MiC2025, lanciato nel 2015 con una dotazione stimata di 300 miliardi di yuan, aveva reso noto, all’interno e all’esterno, gli obiettivi tecnologici perseguiti dalla nazione cinese, e rivelato al mondo il grado di consapevolezza della Cina sul potenziale vantaggio di leadership globale rispetto ai global player tradizionali USA, Europa e Giappone.
Nel 2018 Pechino, attraverso l’istituzione dell’Amministrazione statale per la vigilanza e l’amministrazione del mercato, le cui funzioni di supervisione e gestione del mercato erano fino ad allora sparse tra i diversi dipartimenti, tra cui anche l’Amministrazione centrale del cyberspazio della Cina e l’Amministrazione statale delle tasse, aveva già posto le basi, a livello istituzionale, delle proprie velleità sulla regolamentazione del mercato e sul controllo del comportamento monopolistico.
Entro i confini della nazione la Cina si rivela, dunque, fermamente intenzionata ad allenare i suoi muscoli normativi rivolgendosi tanto ad operatori esteri quanto a campioni nazionali particolarmente “aitanti”.
Proprio in riferimento a questi ultimi, la presa regolatoria preannunciata da Pechino con le “Linee guida per l’anti monopolio nel campo dell’economia delle piattaforme” emanato dal Comitato anti monopolio del Consiglio di Stato il 7 febbraio 2021 – composte da 24 articoli e sei capitoli – così come l’enfasi pubblica di Xi sulla rinascita della “missione originale” del partito, sarà parte integrante dei piani strategici cinesi.
Le grandi società digitali, strette nella morsa della fiorente produzione di azioni normative, che negli ultimi mesi ha messo alla prova dirigenti ed investitori in Cina, si destreggiano come meglio possono fino a convertirsi a improvvise quanto generose svolte filantropiche e benefiche, in nome della “prosperità comune” e del perseguimento degli obiettivi del Partito: “favorire la legittima creazione di ricchezza e promuovere lo sviluppo regolamentato e sano di tutti i tipi di capitale” (Alibaba avrebbe donato 15,5 miliardi di dollari, un terzo della liquidità dell’azienda, in beneficenza per campagne sociali in Cina).
Alla soglia del suo terzo mandato, il presidente Xi, durante la decima riunione della Commissione centrale per gli affari finanziari ed economici, ha infatti ribadito come in Cina non sarà tollerata alcuna “espansione disordinata del capitale” e come il Partito “ [Lo Stato] dovrà necessariamente rafforzare la regolamentazione e l’adeguamento dei redditi elevati… adeguare in modo ragionevole i redditi eccessivi e incoraggiare i lavoratori e le imprese ad alto reddito a restituire di più alla società.”
Tanto si pone in linea anche con la famosa sospensione dell’IPO da 35 miliardi di dollari di Jack Ma’s Ant Group del novembre 2020 (Ant group è il braccio fintech di Alibaba, una delle più grandi aziende cinesi che da sempre ha potuto godere di un’ampia cooperazione con il partito-stato cinese. Lo stesso Jack Ma è un membro del PCC e si è ripetutamente espresso a sostegno delle politiche di Pechino. Ora il suo alto profilo pubblico lo rende temibile tanto per il suo potere di mercato quanto per il rischio che il suo modello di business possa contaminare il sistema finanziario cinese nel suo insieme), avvenuta solo due giorni prima della quotazione prevista nelle borse di Shanghai e Hong Kong, destinata a diventare la più grande IPO del mondo, che avrebbe consentito alla fintech cinese (730 milioni di utenti al mese) una valutazione di oltre 310 miliardi, e che invece ha “regalato” alla società controllata dal fondatore di Alibaba una multa dell’antitrust cinese per quasi 3 miliardi di dollari.
Le azioni volte al rafforzamento del controllo politico sulle major cinesi del web
E certo, dalla fine del 2020 ad oggi, le azioni volte al rafforzamento del controllo politico sulle major giganti cinesi del web non si sono fermate ad Alibaba, coinvolgendo ogni società operante del “settore dei bits” come Tencent Holdings di Pony Ma e altri giganti tecnologici.
Sempre sul fronte delle procedure di quotazione dei mercati esteri sono sintomatici sia il caso che ha coinvolto Lenovo, l’azienda cinese produttrice di PC che ha dovuto rinunciare a caro prezzo all’Ipo secondaria prevista a Shanghai, un’operazione valutata 10 miliardi di yuan (1,8 miliardi di dollari), sia quello dell’azienda di ride hailing Didi, fondata dal miliardario Cheng Wei nel 2012, (di cui Tencent è azionista per la quota del 6,8%) che, a fine giugno, si è vista intimare dai funzionari della Cyberspace administration of China di ritardare l’Ipo prevista a New York stanti i problemi di sicurezza nazionale legati all’operazione che avrebbero potuto dare adito a pesanti accuse di tradimento verso lo Stato. Sappiamo tutti come è finita: sebbene Didi non si sia lasciata intimidire delle recriminazioni dell’autorità cinese e abbia comunque proceduto con la diffusione dei titoli tra gli investitori del mercato americano, pochi giorni dopo il debutto a Wall Street, la stessa è stata accusata di raccolta illecita di dati personali degli utenti e immediatamente rimossa dagli app store cinesi. Stessa sorte per Full Truck Alliance, la società che mette in contatto spedizionieri e camionisti, conosciuta come Manbang in Cina, sostenuta da Vision Fund di Softbank e Tencent, che a giugno aveva raccolto quasi 1,6 miliardi di dollari nella sua offerta pubblica iniziale di New York e che a luglio insieme a Khanzhun Ltd, proprietario di Zhipin.com è stata oggetto di rigorose indagini da parte della Cyberspace Administration of China.
MacroPolo, il think tank del Paulson Institute con sede a Chicago, ha condotto un esame denominato “Is There a Method Behind China’s Tech Crackdown Madness?” sulle 500 aziende private di maggior valore nell’elenco Hurun cinese – circa la metà delle quali operano nel settore tecnologico (campione di 238) – che fornisce un punto di vista ulteriore ed interessante sulla logica antimonopolistica che segna la direzione delle recenti azioni di “repressione tecnologica cinese”. Gli esperti hanno analizzato nel dettaglio quali tra le aziende oggetto del paniere considerato fossero state prese di mira dai provvedimenti cinesi.
Delle 238 aziende tecnologiche, previamente suddivise secondo una tassonomia che prevede la distinzione tra aziende “bits”- software e aziende “atoms”- hardware (a seconda della linea di business principale di ciascuna azienda o della quota maggiore di entrate), circa un quarto, ovvero 62, è risultato destinatario di misure normative e sanzionatorie durante il 2020 e la maggior parte di queste erano entità “bits”. E dunque almeno il 75% delle principali aziende tecnologiche private è rimasto illeso, lasciando intendere che molto probabilmente la “tempesta normativa” in atto a Pechino potrebbe rivelarsi più un temporale estivo che qualcosa di simile a un uragano.
Farebbero parte del “target selettivo” dei favoriti appena sfiorati dalla morsa anti Big Tech, aziende come Xiaomi, Li Auto, Xpeng Motors, Mindray Bio-Medical Electronics e Cambricon, oltre a Baidu con la sua piattaforma MaaS (mobility as a service) di guida autonoma multimodale.
Secondo gli esperti di MacroPolo “la spiegazione più appropriata, basata sui risultati dello studio e sul contesto normativo, sembrerebbe economica. Cioè, il governo cinese si stava preparando da tempo all’azione nel settore tecnologico. Ma sapendo che gli shock normativi avrebbero avuto ripercussioni economiche, in particolare nel mercato azionario, aveva bisogno di una finestra di opportunità.
Finestra di opportunità che si è appunto presentata all’inizio del 2021 quando l’economia cinese sembrava riprendersi dalla pandemia.”
“Non esiste un tempismo ottimale per tali azioni regolamentari che causeranno inversioni di mercato, ma il 2021 è molto più sicuro della pandemia di metà o dell’imminente anno politico del 2022. Se non fosse stato per la guerra commerciale USA-Cina e la pandemia che inietta una notevole incertezza economica per la parte migliore di due anni, queste azioni sarebbero probabilmente arrivate già nel 2019 o 2020.”
L’imperialismo delle piattaforme sotto la lente dei regolatori del mondo
Arginare l’avanzata della sfera di potere delle aziende tecnologiche non è una prerogativa esclusivamente cinese, bensì fa parte di una tendenza globale piuttosto evidente.
Il rapporto tra la politica e le grandi aziende tecnologiche è, infatti, al vaglio dei regolatori del mondo.
Europa, Stati Uniti, Russia, India, ovunque, gli stati intendono ristabilire il giusto equilibrio tra poteri pubblici e poteri privati tentando di definire i contorni delle rispettive aree di influenza politica, economica e digitale.
In entrambe le sponde dell’oceano i giganti tecnologici vengono richiamati al rispetto delle regole sulla concorrenza: il Dipartimento di giustizia degli Stati Uniti denuncia Google per aver violato le regole antitrust, la FTC apre un dossier su Facebook per fare luce sulle possibili condotte anticoncorrenziali per le faraoniche acquisizioni di Instagram e Whatsapp; Amazon, Apple e Google (oltre l’onnipresente Facebook) si trovano costantemente nel mirino delle autorità antitrust tanto americane quanto europee.
L’Unione Europea è prossima all’introduzione del quadro regolatorio denominato Digital Markets Act volto allo sviluppo di mercati digitali equilibrati ed aperti e alla promozione di condotte concorrenziali eque e vantaggiose per tutti gli operatori, non solo per le grandi piattaforme “gatekeeper”, che hanno assunto il ruolo di controllori dell’accesso al mercato digitale.
L’evoluzione dirompente dell’imperialismo delle piattaforme, potenziato dallo sviluppo del capitalismo digitale, per usare le parole dello studioso coreano Dal Yong Jin, cattura l’attenzione della Corea del Sud che, se da una parte, con la multa da 207 miliardi di won – 177 milioni di dollari, imposta il 14 settembre dalla Korea Fair Trade Commission (KFTC) a Google (Google avrebbe abusato della propria posizione dominante nel mercato dei sistemi operativi per indurre i produttori di dispositivi mobili come Samsung Electronics a firmare accordi che impedissero loro di installare i sistemi operativi detti “Android fork), si conferma uno dei paesi con la maggior verve verso la repressione delle condotte anticoncorrenziali attuate dagli intermediari digitali americani , dall’altra, spinta dal Partito democratico liberale del presidente Moon Jae-in, detentore della maggioranza parlamentare, si rivela anche il primo paese ad aver approvato una legge che intende contrapporsi con fermezza al duopolio Apple-Google sui pagamenti in-app applicato a tutti i contenuti digitali presenti sui loro App store.
La stretta della Corea del Sud
Il controverso ed osteggiato disegno di legge noto come “Anti-Google”, è stato approvato all’unanimità il 31 agosto scorso dall’Assemblea nazionale coreana, e modifica il Telecommunications Business Act che fino al 14 settembre (data di entrata in vigore del provvedimento) non si opponeva a che i sistemi di pagamento digitale dettati da Apple e Google agli sviluppatori indipendenti potessero convivere in maniera piuttosto indisturbata con l’altrettanto consolidata pratica di esigere commissioni fino al 30% per l’elaborazione dei pagamenti in-app.
Gli emendamenti introdotti mirano appunto ad imporre ai giganti tecnologici la previsione di sistemi di pagamento digitale multipli e reprimere le pratiche penalizzanti o ritorsive attuate verso quegli sviluppatori che decideranno di utilizzare soluzioni alternative.
Una misura di non poco conto se si pensa che ad essere minato è l’impero di Google ed Apple. Un duopolio che in Corea del Sud, beneficia di lauti guadagni, non inferiori rispettivamente a 5, 2 miliardi e 2 miliardi. Gli sviluppatori clienti dell’azienda di Cupertino ammonterebbero a 482 mila da cui deriverebbero entrate complessive di oltre 7 miliardi di dollari.
A nulla pertanto sono valse le proteste di Apple che a monte del provvedimento aveva già paventato i rischi di frode a cui sarebbero stati esposti i consumatori nel momento in cui avessero avuto a disposizione più metodi di pagamento, e anche di Google che ha giustificato l’applicazione delle esose commissioni con questioni legate alla sicurezza e all’impegno di «mantenere Android un sistema libero.
Rappresentativo in tal senso il tweet di Tim Sweeney, Ceo di Epic Games, il produttore di Fortnite che ha fatto causa ad Apple per comportamento monopolistico.
L’esempio lanciato da Seoul viene seguito con vivo interesse anche dall’Australia che, tramite il proprio ministro del Tesoro, Josh Frydenberg, rende chiare le proprie intenzioni sul fronte della governance del digitale: “Se non facciamo nulla per riformare il quadro, la Silicon Valley determinerà il futuro di una parte fondamentale della nostra infrastruttura economica”. Per i giganti del tech, dunque, si preannunciano tempi duri”. Non solo Google Pay ed Apple Pay, ma anche WeChat Pay rientra a pieno titolo nelle mire regolatorie australiane.
Ed è altrettanto eloquente il report “Digital platform services inquiry” reso dall’Australian Competition and Consumer Commission (ACCC) nel quale si esprime evidente preoccupazione sulle modalità attraverso le quali Apple e Google gestiscono le app preinstallate by default ed i conseguenti rischi di duopolio che tanto potrebbe comportare.
Conclusioni
Avendo ben presente la natura totalitaria del regime cinese, la scelta della Cina di dotarsi di una stringente normativa in materia di protezione dei dati e di controllo del mercato non stupisce. Nulla può esistere al di fuori del Partito, della sua narrazione, della sua visione.
Storicamente, inoltre, i regimi autocratici si sono rivelati i migliori “amministratori politici” della modernità e dell’innovazione, forti dell’adesione di milioni di persone di cui hanno plasmato il comportamento individuale e sociale e di cui controllano ogni espressione. A maggior ragione in Cina dove, a partire dagli insegnamenti di Confucio (551-479 a.C), ogni manifestazione dell’autorità di governo viene intesa dal popolo cinese come un assioma ontologico fondamentale per il benessere, e dove annientare tutti i flussi contrari al sistema di controllo diventa un imperativo categorico.
E dunque, al netto di tanto, appare evidente come proprio il controllo e la circolazione dei dati rappresentino una risorsa dal valore immenso, che per di più in Cina viene prodotta in enorme quantità da player tanto cinesi quanto internazionali e che proprio per questo Pechino non intende sottovalutare.
Ciò non è certo privo di importanti implicazioni geopolitiche il cui tracciato, peraltro, appare già segnato a livello globale, da Seattle a Pechino, tanto ad Oriente come in Occidente: regolamentare lo spazio digitale appare un’esigenza ineludibile ben al di là del “dovere” di promuovere la tutela dei valori e dei diritti fondamentali.
La lotta per l’industria dei dati è iniziata e il potenziale legato al mercato oligarchico condotto dalle multinazionali digitali ne costituisce il principale campo di battaglia.
Note
- L’esame dei dati più recenti forniti da Apple stessa evidenzia come, a fronte di esplicite richieste da parte delle autorità cinesi dal giugno 2018 al giugno 2020, nel 91% dei casi queste venissero assecondate, generanto rimozioni per un valore pari a 1.217 app eliminate dallo Store, senza considerare i tagli proattivi autonomamente gestiti dalla società. ↑
- La relazione di Apple con la Cina è iniziata almeno 20 anni fa, quando la società Foxconn con sede a Taiwan, ormai storico partner asiatico per la produzione degli iPhone, ha iniziato ad assemblare l’iPod nel 2001 e l’iPhone nel 2007 all’interno di efficienti fabbriche di dimensioni urbane – sorte intorno a Shenzhen (e non replicabili in nessuna altra parte del mondo per quantità e velocità di produzione) – dotate di un esercito ben nutrito di centinaia di migliaia di lavoratori qualificati e formati dalla stessa Apple, dando luogo a ciò che il Wall Street Journal ha descritto come un “triangolo di interdipendenza”. La dipendenza di Apple dalla Cina sembrerebbe oggi addirittura cresciuta, forte delle intuizioni imprenditoriali e del temperamento pacato e diplomatico dell’erede di Steve Jobs, Tim Cook. ↑