ritorno al passato

La Cina verso una nuova “rivoluzione culturale”? Le Big tech prime vittime del nuovo corso

La rivoluzione culturale “in piccolo” avviata in Cina dal leader supremo Xi Jinping pone pesanti vincoli all’iniziativa privata e limita la presenza di investitori internazionali. A farne per prime le spese sono le principali aziende tech

Pubblicato il 16 Set 2021

Umberto Bertelè

professore emerito di Strategia e chairman degli Osservatori Digital Innovation Politecnico di Milano

Fonte Immagine: http://www.xinhuanet.com/english/2020-03/31/c_138935645_9.htm

Sono passati esattamente quarant’anni da quando – nel 1981 – il Partito Comunista Cinese dichiarò ufficialmente che la rivoluzione culturale era “responsabile della più grave battuta d’arresto e delle più pesanti perdite subite dal Partito, dal Paese e dal popolo dalla fondazione della Repubblica Popolare Cinese“. Deng Xiaoping era salito al potere tre anni prima, nel 1978, e aveva lanciato un programma di prudenti aperture al mercato e agli investimenti esteri, formalmente finalizzato a creare una “società moderatamente prospera” e a riparare i pesanti danni creati dalla rivoluzione culturale: rivoluzione lanciata da Mao Zedong nel 1966 – per riprendersi il controllo del Partito dopo il totale fallimento della sua politica economica volta a realizzare il grande balzo in avanti (per trasformare la Cina in un Paese industriale) – e chiusasi nel 1976 con la morte di Mao e l’arresto della cosiddetta banda dei quattro (che capeggiavano la rivoluzione stessa).

Cina “matrigna” con le sue Big Tech: ecco i rischi di questa strategia

Sono passati quasi vent’anni da quando – alla fine del 2001 – la Cina, dopo molti anni di trattative, fu ammessa nel WTO (Organizzazione Mondiale del Commercio), con una successiva fortissima crescita del suo export (era denominata all’epoca la fabbrica del mondo) e del suo PIL, che l’ha portata a essere la seconda economia del mondo e addirittura la prima se si ragiona a parità di potere di acquisto. Con ovvie preoccupazioni degli Stati Uniti, per la prospettiva del sorpasso e per la parallela crescita della potenza militare cinese e delle sue vocazioni espansive: preoccupazioni scoppiate durante la presidenza Trump e tradottesi in una serie di misure – la più famosa il bando di Huawei e l’arresto della figlia del fondatore – mantenute in vita con poche eccezioni da Biden.

Così il Partito vuole riprendere il controllo del Paese

È in questo quadro, che meriterebbe un’analisi molto più approfondita, che si collocano le mosse più recenti – sul piano economico e su quello più squisitamente politico – del governo cinese, sotto lo stimolo del Partito Comunista e del leader supremo Xi Jinping: quest’ultimo simbolicamente presentatosi vestito come Mao alla celebrazione dei cent’anni di vita del Partito. Una serie di mosse (io ovviamente mi limiterò a parlare di quelle economiche) che sembrano indicare la volontà del Partito stesso di riprendere il completo controllo sulla vita del Paese, ponendo pesanti vincoli all’iniziativa privata (“less capitalism, more state” il sintetico commento di The Economist), considerata colpevole di

  • favorire, con lo sviluppo delle grandi imprese (quali le big tech Alibaba e Tencent), la formazione di centri di potere potenzialmente antagonisti;
  • rubare crescentemente spazi, con la continua espansione delle fintech, alle grandi banche pubbliche;
  • mettere a rischio, con l’espansione delle attività su scala globale e/o con la quotazione nelle Borse estere (sostanzialmente NYSE e Nasdaq), la riservatezza dei dati considerati sensibili per la sicurezza nazionale;
  • sviare gli investimenti rispetto agli obiettivi confermati come prioritari dall’Assemblea Nazionale del Popolo di marzo 2021: privilegiando ad esempio le più redditizie tecnologie consumer rispetto a quelle (semiconduttori, intelligenza artificiale) rilevanti per l’indipendenza tecnologica e la potenza militare del Paese,
  • sviluppare attività che anche involontariamente entrino in collisione con gli obiettivi pubblici: quale quella di after-school tutoring, ritenuta disincentivante – dati i maggiori costi per le famiglie – rispetto all’obiettivo di espansione delle nascite.

Cosa è successo da novembre 2020

Senza pretesa alcuna di completezza, riporterò alcune delle mosse più significative che si sono succedute dall’inizio di novembre 2020: mosse molto spesso ad hoc, studiate per colpire specifiche imprese disintegrando i punti di forza dei loro (quasi sempre innovativi) business model; mosse impressionanti per velocità e virulenza – ben diverse da quelle cui siamo abituati negli Usa e nella Ue – con una vita resa però facile sia dalla totale assenza di tribunali cui ricorrere sia dai rischi personali (esemplare il caso del mitico Jack Ma) dei capi impresa che non dichiarino immediatamente la loro obbedienza.

Nuove regole anti-Ant

Il primo caso clamoroso è stato quello di Ant, il braccio finanziario di Alibaba, il cui IPO – destinato a essere il più grande della storia per entità della raccolta (37 miliardi di $) con una capitalizzazione attesa superiore ai 300 miliardi – è stato di fatto bloccato a un passo dal lancio, all’inizio di novembre 2020, con un cambio delle regole del gioco. Ant, utilizzando l’enorme mole di dati a sua disposizione, realizzava i profitti più elevati indicando alle banche pubbliche i soggetti più sicuri cui fare prestiti.

La nuova regola del gioco ha trasformato Ant in una sorta di banca – obbligandola a partecipare con il 30 per cento ai prestiti che essa consigliava – distruggendo di fatto un business che era basato sulla mera utilizzazione dei dati raccolti attraverso il sistema di pagamenti Alipay e la consistente vendita di prodotti finanziari.

L’attacco postumo a Didi

Il secondo, recente, è quello di Didi, la “Uber cinese” che aveva costretto Uber ad abbandonare la Cina, che si era appena quotata a New York arrivando nei giorni successivi a toccare gli 80 miliardi di dollari di capitalizzazione, per poi perderne il 40 per cento a causa della violenta reazione postuma della Cina all’operazione, motivata con il rischio della perdita del controllo sui dati da parte di Didi: accusa di dubbia consistenza dal momento che Didi già prima dell’IPO aveva azionisti esteri in posizione di grande rilievo, quali il Vision Fund della giapponese Softbank con il 21,5% e Uber con il 12,8% (quota ricevuta a fronte della cessione a Didi della sua sussidiaria cinese).

Un attacco postumo, a differenza di quello ad Ant, con ovvi danni per gli investitori.

Un segnale forte, immediatamente compreso da imprese come ByteDance (la società nel cui ambito si colloca il social di grande successo TikTok), di evitare le quotazioni nelle Borse statunitensi.

L’introduzione del digital yuan: i danni al business di Alipay e WeChat Pay

Il terzo, in atto, è l’introduzione del digital yuan, la moneta elettronica cinese. È vero che anche nell’UE è ipotizzata la nascita del digital euro, ma nella situazione cinese (a differenza di quella europea o statunitense) ci sono due potenziali grandi vittimeAlipay (che fa capo ad Ant e Alibaba) e WeChat Pay (che fa capo a Tencent) – che si dividono attualmente la grandissima parte dei pagamenti nel Paese. La banca centrale cinese non nasconde i suoi scopi, come appare da un white paper sul tema riportato da The Wall Street Journal: “China needs payment services that are more convenient, safe, inclusive and privacy friendly and a payments infrastructure that is interoperable across platforms”. E non è un caso che la sperimentazione del digital yuan coinvolga solo marginalmente Alipay e WeChat Pay.

I danni in termini di valore, per Alibaba e Tencent, sono già stati molto pesanti: soprattutto se il paragone viene effettuato con le big tech statunitensi.

Alibaba, alla fine di ottobre 2020 (pochi giorni prima dell’IPO di Ant), valeva 850 miliardi di dollari circa e ora (fine luglio 2021) ne vale 530; mentre nel frattempo Apple è passata da poco più di 1900 miliardi agli attuali 2410. A sua volta Tencent, prima di finire anche sotto la scure delle authority antitrust per le sue attività nei giochi e nella musica, era arrivata a toccare a fine gennaio i 940 miliardi di capitalizzazione, per poi scendere ai 590 attuali; mentre nello stesso intervallo di tempo Microsoft passava da 1730 a 2150 miliardi di capitalizzazione.

Azzerato il valore delle imprese edtech

L’ultima mossa che ha letteralmente terrorizzato gli investitori internazionali è stata la decisione di condannare a morte il comparto di after-school tutoring – edtech con un’altra denominazione – obbligando le imprese in esso operanti a trasformarsi in nonprofit e proibendo future nuove quotazioni nelle Borse estere.

Una mossa che ha ovviamente azzerato il valore delle imprese quotate (100 miliardi di dollari circa complessivamente) e che ha creato da un lato una forte inquietudine relativamente alle imprese già quotate a New York (Alibaba e molte altre) – che hanno portato a perdite in questi giorni superiori ai 400 miliardi – e dall’altro il timore che mosse simili possano ripetersi nel futuro per altri comparti: un timore che ha spinto addirittura la CSRC – China Securities Regulatory Commission – ad assicurare a un gruppo delle principali banche e fondi internazionali che l’edtech crackdown rappresentava un episodio isolato e che Pechino si stava impegnando per rendere più trasparenti e prevedibili le sue scelte economiche.

Conclusioni

Al di là delle rassicurazioni, forse dovute a una sottovalutazione di quelle che sarebbero state le reazioni dei mercati finanziari, restano i dubbi con cui voglio chiudere questo articolo.

Il primo dubbio. Il ritorno dopo oltre quarant’anni a una forte presenza dello stato – una sorta di rivoluzione culturale in piccolo che comporta una mortificazione dell’iniziativa privata, una maggiore burocratizzazione, una minore o molto minore presenza degli investitori internazionali e una maggiore tendenza alla chiusura del Paese in sé stesso – sarà compatibile con gli incrementi dei livelli medi di vita della popolazione cui la Cina si era ormai abituata?

Il secondo dubbio, più inquietante. Nel caso di scarso successo o di palese insuccesso di questa politica, il Partito – per non perdere prestigio e consenso – giocherà la carta del nazionalismo, ad esempio con l’occupazione di Taiwan cui Xi ha fatto cenno (anche se in termini ambigui) in occasione alla celebrazione del centenario)?

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