la riflessione

La comunicazione pietra angolare della Storia: le nuove sfide sociali

La comunicazione, nell’era digitale, è contraddistinta da uno straordinario impatto sociale. Ma al suo avvento è mancato il necessario dibattito che ha invece accompagnato la nascita degli altri grandi media mainstream. Serve allora una riflessione che individui i limiti nell’approccio delle comunità scientifiche

Pubblicato il 18 Dic 2020

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Definire oggi la comunicazione è un’impresa ardua anche per chi ne ha studiato la sua progressione lungo il passaggio dalla tecnologia meccanica ed analogica a quella digitale. Oggi si assiste ad una strettissima convergenza tra l’industria delle telecomunicazioni e quella dei media che sta ridelineando i contorni del settore ICT ricreando quello che di fatto assume la forma di un ecosistema digitale complesso e articolato, in cui gli scambi tra operatori di rete, service provider e contenuti generati dagli utenti restituiscono una realtà immersiva di cui gli “Over The Top” hanno saputo far tesoro affermandosi come principali stakeholder a livello globale.

Siamo però solo all’inizio di un processo di trasformazione che sta per cambiare la storia umana. L’invenzione della macchina a vapore ha trasformato la società agricola (Economia 1.0) in società industriale (Economia 2.0), poi mutata in una società dei servizi (Economia 3.0). Internet, il World Wide Web, social media e big data la stanno convertendo ora in una società digitale (Economia 4.0), in cui gli scambi mediati dalle tecnologie per le comunicazioni riconfigurano velocemente la mappa del cambiamento accelerato.

Passiamo ora a una riflessione che, partendo da una definizione della centralità assunta dalla comunicazione digitale, individui qualche possibile limite nell’approccio delle comunità scientifiche e, più ampiamente, nel dibattito pubblico, concentrandosi in particolare sull’impatto sociale straordinario che la contraddistingue.

Il (mancato) dibattito che ha accompagnato l’avvento di internet

La prima questione da porsi è la differenza tra il tipo di dibattito che ha accompagnato la nascita dei grandi media mainstream, e in particolare della tv, e quello – a prima vista più scarso – che si è sviluppato sull’avvento di internet e soprattutto dei media digitali. Sembra paradossale che le comunità scientifiche della metà del Novecento abbiano infatti assunto un atteggiamento prevalente di preoccupazione, ben simbolizzato dalla fortunata formula echiana “apocalittici e integrati”, mentre per la rete è prevalso un atteggiamento di benevola attenzione non sempre accompagnata dall’interrogativo di cosa si nasconde dietro un fatto sociale così luccicante.

È infatti raro trovare un’attenzione e un’osservazione scientifica non ispirate a un tono euforico, quasi da consumatori più che da studiosi, e questo lascia indietro la domanda fondamentale che ci ha insegnato la sociologia della comunicazione e la sua storia: quali sono gli effetti di lungo termine di una tecnologia così pervasiva?

Questo interrogativo non è eludibile se vogliamo avviare una prima sistematizzazione del dibattito, attenta anche alle criticità che inevitabilmente non mancano nelle fasi aurorali e di primo insediamento sociale (è possibile infatti che il passaggio a una fase di maggiore “acquisizione” dei media digitali addolcisca gli interrogativi critici, a fronte magari di prove di ricerca empirica, senza escludere anche l’intervento di una regolamentazione meno ingenua di quella attuale).

La dimensione di economia politica e la rimozione dei valori preesistenti

Il secondo nodo del dibattito, relativamente carente, è la presa d’atto di quanto manchi una chiara percezione che l’infrastruttura digitale è vista senza riconoscerne l’ovvia dimensione di economia politica, che nasconde così il dominio incontrastato degli Over the Top nella produzione degli immaginari, nella loro penetrante profilazione, e dunque nella circostanza che essa diventa la forma culturale del nostro tempo, ad onta della capacità di presentarsi come nuovo spazio di espressione dei soggetti sociali (Van Dijck et al. 2018).

Un terzo nodo è quello dei processi di sostituzione a cui la dominazione digitale dà luogo; noi siamo abituati a leggere il nuovo per la sua capacità di gratificare e inseguire i nostri bisogni e il legittimo “piacere dei testi”. Senza un’adeguata formazione, e senza riflessività, si staglia sullo sfondo la domanda di che cosa perdiamo in termini di tempo dedicato e di rimozione di precedenti priorità assorbendo le nuove, spesso senza alcuna consapevolezza di ciò che c’era prima e dei valori che la cultura preesistente portava con sé.

Le tre dimensioni su cui concentrarsi per verificare quanto la comunicazione sia diventata strategica

Dobbiamo dunque scrutinare criticamente la frase che, un po’ stancamente, accompagna la presa d’atto che l’ipercomunicazione digitale è la novità radicale del nostro tempo. Essa è assolutamente vera, e persino timida, rispetto alla fenomenologia dei cambiamenti, ma certamente insufficiente da sola a sollecitare un passo avanti nel processo di conoscenza (Gillespie, 2018). Dunque, per verificare quanto la comunicazione sia diventata strategica occorre concentrarsi su tre dimensioni:

  • Intanto, essa è centrale quale soggetto promotore di cambiamento radicale delle priorità, dei gusti, delle dinamiche di relazione, e quindi motore culturale principale dei nostri tempi.
  • Lo è altrettanto come oggetto, anzitutto di studio, ma non solo. La comunicazione digitale è il veicolo con il quale apportiamo modernità e complessità alla nostra società, stimolando comunque una presa di parola che potenzia l’autonomia del soggetto moderno, anche se talvolta nasconde forme di imitazione “subita”.
  • È centrale infine come contesto, sia formativo che culturale, perché è la principale fonte di approvvigionamento simbolico e informativo[1].

Se si tiene conto della debolezza di stimoli del contesto sociale e istituzionale, coinvolto in una crisi di credibilità e di fiducia che la pandemia ha in parte attenuato, non possiamo non porci la questione della possibile inculturazione posta unicamente in capo all’universo discorsivo digitale. Anche su questo sarebbe logico interrogarci su quanti discorsi pubblici, e quanta letteratura empirica, si sono accumulati intorno all’interrogativo chi forma davvero il soggetto moderno.

Gli effetti della cultura digitale

Cerchiamo dunque di approfondire proprio il primo item del trittico proposto, spostandoci letteralmente sul fronte dei soggetti, e dunque aprendo con decisione la tematica degli effetti della cultura digitale. Essa è centrale nella vita quotidiana, soprattutto dei giovani, e molti dati, con inconsueta coerenza, indicano parametri di esposizione ai device digitali sicuramente tali da ridurre la varietà della socializzazione e da competere da posizioni di forza con i processi formativi.

Dove allora dobbiamo sfidare idee nuove per sorreggere sia una visione positiva della nuova centralità digitale intesa come cultura quotidiana e aumento di disponibilità alla comunicazione, e perfino alla presa di parola? È indiscutibile che siamo di fronte a un doppio fenomeno da valutare in termini di principio di precauzione: da un lato, registriamo una forte pressione sociale della rete, certamente legata alla debolezza del tessuto culturale circostante e dunque più capace di “attaccare” soggetti impreparati al potere suggestivo degli schermi (Morcellini, 2015). Dall’altro, non possiamo nasconderci l’aspetto di iperstimolazione della mente e della emotività dei soggetti, non accompagnata da un minimo dosaggio di formazione al tempo nuovo e alle sue macchine sapienti. Assemblando questi due ragionevoli motivi di preoccupazione si può profilare l’ipotesi sconcertante che, al di là di qualunque imputazione di responsabilità, la crisi della socializzazione contemporanea, definibile come postsocializzazione, sia sotto il segno della conquista di tutti gli spazi e gli interstizi riconducibili allo scambio culturale da parte dell’impero digitale. Non è avvenuto quel processo di domiciliazione del nuovo che costruisce incessanti mediazioni con le culture preesistenti; in altre parole, il motto oraziano Graecia capta ferum victorem coepit non si è per il momento avverato.

Inculturazione e disintermediazione

Questo significa che siamo di fronte a una novità storica assoluta, paragonabile forse a quanto è successo nel passaggio dal latino alle lingue volgari all’alba del Medio Evo, per non citare l’impatto esercitato dalla scoperta della scrittura e della riproduzione di testi nell’età di Gutenberg.

Per un cambiamento di questo genere serve una cultura scientifica di svolta che non si faccia irretire dai parametri di impatto che decretano non solo una vittoria ma un consenso profondo da parte degli utenti, evidentemente gratificati dal nuovo stato di cose culturali. L’approccio corretto non è quello delle PR, a cui non pochi studiosi si sono adagiati. Più utile alla società è un assiduo lavoro di ricerca delle prime manifestazioni di cambiamento dei comportamenti degli utenti, attento alla dimensione della graduazione degli effetti; e in questa direzione chi studia comunicazione è in vantaggio nello scorgere sia il vistoso aumento di possibilità e stimolazioni culturali che le criticità o ad esempio lo shock che può determinare nella celebrazione dell’atto formativo.

È comunque l’inculturazione il tema di cui stiamo parlando, sia perché la ventata culturale proviene prevalentemente da un unico contesto avanzato come gli Stati Uniti, sia perché essa non è mai uniforme ma neppure neutra. In generale, sembra plausibile l’ipotesi che il rischio di omologazione, suggerito dalle tecniche massificate di profilazione degli utenti, resti ancora sullo sfondo, ma la sfida alla cultura scientifica è comunque posta dalla presa d’atto che siamo di fronte per la prima volta ad una cultura fondata rigorosamente sulla disintermediazione, rendendo più complesso per l’utente il processo di generazione del senso.

I processi di sostituzione scolpiti dalla comunicazione digitale

Avviando la dimostrazione dei trend sopra descritti, osserviamoli ora sotto la lente dei processi di sostituzione che la comunicazione digitale scolpisce:

La comunicazione sostituisce la politica

È in corso da tempo un processo tutt’altro che graduale di sostituzione della politica con la comunicazione in tutte le sue declinazioni. Ad una lunga fase storica in cui i media si ponevano in un atteggiamento di narrazione e mediazione di temi e discorsi politici, si è avvicendata una stagione in cui essi finiscono per surrogare la politica, divenendone così la piattaforma vincente di interazione con la domanda “dal basso” e con gli stessi pubblici. Si ha così la riprova di quanto sia più centrale che mai, nell’esperienza sociale degli uomini moderni, la dimensione simbolica e in particolare quella virtuale: diventa sempre più il terreno privilegiato di conflitto nel mercato dell’influenza e nell’economia dell’attenzione[2].

La comunicazione riposiziona scuola e formazione

La nuova situazione degli individui, e in particolare dei giovani, è ostentatamente quella di una forte rivendicazione di una socializzazione lineare, fondata sullo scambio tra simili e poco disponibile ad aprirsi a qualunque funzione di guida e mediazione “dall’alto”. Si salva a malapena una riverenza formale nei confronti dell’università, ma in un contesto in cui salta agli occhi un vero e proprio deficit di desiderio nei confronti della società nella percezione giovanile.

Mai come oggi si può dire che il destino del sistema formativo è fortemente influenzato dal clima culturale di una società, a sua volta intensamente compenetrato dalla presa di possesso da parte della comunicazione, soprattutto digitale.

La comunicazione impatta il “clima culturale” circostante

Negli ultimi anni abbiamo assistito ad una progressiva distrazione collettiva, caratterizzata da un vero e proprio cedimento strutturale dei punti di riferimento valoriali (Morcellini, 2013); un tale contesto ha incoraggiato la crisi di reputazione della scuola, sostanzialmente ingiusta rispetto alla continuità dell’impegno dei docenti e delle Istituzioni, persino a fronte di un’esperienza durissima come quella del Covid, con il suo implicito lascito di una didattica a distanza tecnologicamente poco preparata. Ma la questione non riguarda certo solo la scuola, poiché mette sotto osservazione l’assoluta propensione alle culture dell’intrattenimento e del disimpegno che segnano il panorama degli immaginari dominanti, soprattutto prima della sferzata della pandemia.

La comunicazione sostituisce i bisogni in tempi di crisi

Pensiamo poi a quanto la comunicazione abbia inciso sull’emergenza Covid. Essa ci ha obbligati «a uno sforzo di fantasia che in un regime normale non siamo abituati a compiere: vederci inestricabilmente connessi agli altri e tenere in conto la loro presenza nelle nostre scelte individuali. Nel contagio siamo un organismo unico. Nel contagio torniamo ad essere una comunità» (Giordano, 2020, p.36). Una citazione preziosa, che aiuta a capire tra l’altro quanto la comunicazione abbia di fatto cambiato rotta, rimarginando almeno in parte i rapporti con la vita e i bisogni degli uomini di oggi. Quasi senza accorgerci di quanto siamo in grado di cambiare, e dunque di superare una condizione che sembrava diventata naturale, ci siamo riscoperti uguali agli altri, mentre fino a ieri ci sentivamo intransigentemente diversi (Morcellini, 2020).

Conclusioni

È venuto allora il momento di riconoscere che l’attacco del contagio segna uno spartiacque per un radicale cambiamento di scenario, registrando un declino della globalizzazione e spingendo verso soluzioni nuove e più coinvolgenti per territori e comunità. È altrettanto vero però che è necessario rivendicare una sovranità culturale, non arenandola al cortile domestico ma osservando quanto i grandi players della rivoluzione digitale sono già oggi in grado di scrutare i nostri desideri e persino gli orientamenti culturali all’azione.

È sulla base di processi di sostituzione così rapidi che dobbiamo avviare una riflessione urgente sulle nuove responsabilità della conoscenza scientifica. Quando un processo di trasformazione è così rapido, dobbiamo imparare ad accompagnarlo con parole anche provvisorie ma almeno capaci di ricontestualizzare l’ignoto che si apre grazie a bussole di navigazione aggiornate e convincenti.

Rinviando ad altra occasione una mappatura delle criticità più vistose, doverosamente accompagnata dai campi in cui il digitale si rivela uno straordinario moltiplicatore di possibilità, assumiamo l’idea che solo così la conquista digitale non metterà in crisi le nostre esistenze, stressandoci a livello di emotività indotta dalla velocità, nuove interazioni significative e scelte tra i contenuti. Dobbiamo costruire con pazienza la piena consapevolezza che il tempo nuovo attiverà inevitabilmente processi altrettanto innovativi di costruzione dei significati condivisi e dunque una nuova formazione culturale postmoderna, nell’umanistica fiducia che “ogni creazione autentica è un dono al futuro” (Albert Camus).

______________________________________________________________________________

Bibliografia

A. Longo, G. Sforza, Intelligenza Artificiale. L’impatto sulle nostre vite, diritti e libertà, Mondadori Università, Firenze 2020.

T. Gillespie, Custodians of the Internet: Platforms, content moderation, and the hidden decisions that shape social media, Yale University Press, 2018.

P. Giordano, Nel contagio, Giulio Einaudi Editore, Torino 2020.

M. Morcellini, Comunicazione e media, Egea, Milano 2013.

M. Morcellini, La storia della comunicazione rivista. In «Sociologia della comunicazione», n.50, 2015, pp. 32-42.

M. Morcellini, Antivirus. Una società senza sistemi immunitari, Castelvecchi Roma, 2020.

J. Van Dijck, T. Poell, and M. De Waal. The platform society: Public values in a connective world, Oxford University Press, Oxford 2018.

  1. Per un approfondimento su questo si veda il numero 22 della Rivista “Comunicazionepuntodoc” Dati che contano per le scienze sociali, a cura di M. Antenore, M. Delmastro e G. Pecchinenda.
  2. Per un approfondimento si veda il volume 3/2020 della rivista Paradoxa, curato da me e Michele Prospero, dal titolo “La comunicazione al posto della politica”.

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