l'approfondimento

La demenza digitale esiste? Impariamo a distinguere, con la ricerca “single case”

“Demenza digitale” è un libro di Manfred Spitzer, neuropsichiatria e professore di Università a Ulm, che ci dà lo spunto per riflettere su come la funzione, di crescita o di stagnazione, che l’oggetto digitale determina su un soggetto va valutata in base alle sue caratteristiche e alla specificità del momento attraversato

Pubblicato il 08 Mar 2023

Roberto Pozzetti

Psicoanalista, Professore a contratto LUDeS Campus Lugano, Professore a contratto Università dell'Insubria, autore del libro 'Bucare lo schermo. Psicoanalisi e oggetti digitali', già referente per la provincia di Como dell'Ordine degli Psicologi della Lombardia

Big data e Big drain: cervello, reti, intelligenza artificiale

La ricerca in psicoanalisi è sempre ricerca “single case”, basata sull’insegnamento che possiamo trarre da ciascun essere umano con la propria singolarità; al contrario, le ricerche a proposito degli effetti della diffusione del digitale nel nostro mondo e dell’eventuale deterioramento indotto dal digitale tendono a basarsi sovente su statistiche che stentano proprio a cogliere la singolarità di ogni posizione soggettiva.

Non a caso, da questi dati viene eliminato qualunque riferimento alle strutture cliniche, lasciando indistinto quanto avviene a proposito degli schermi in bambini autistici, in bambini con debilità mentale o che provengono da famiglie con importanti carenze educative e formative, in bambini con una struttura di tipo psicotico oppure ancora in bambini con struttura rigidamente ossessiva.

Bambini troppo soli davanti agli schermi: i rischi per il presente e il futuro

Danni fisici e psicologici da digitale: pregiudizio o realtà?

La recente normativa del Ministero dell’Istruzione e del Merito volta a proibire l’utilizzo dello smartphone a scuola ha suscitato un aspro dibattito, più per i modi imperativi e categorici che per il contenuto in quanto non introduce di fatto delle innovazioni radicali a livello attuativo.

Ribadisce che l’uso dello smartphone è o quantomeno dovrebbe essere vietato a scuola. Peraltro, sul concetto di merito si potrebbe aprire un’ulteriore discussione dalla quale ci asteniamo in questa sede. Tale intervento restrittivo e dai toni rigidi attingibili fra le righe di questo documento del Ministero si basa anche e soprattutto sugli Atti Parlamentari della Settima Commissione del Senato della Repubblica; composta da figure di svariati colori politici, frutto di un lavoro biennale che ha occupato undici sedute, ha attraversato diverse esperienze di governo e i momenti più drammatici della pandemia.

Nel giugno del 2021, con Andrea Cangini di Forza Italia come relatore, la suddetta Commissione, dopo aver ascoltato per due anni diversi esperti del settore nell’ambito di un’indagine conoscitiva sull’impatto del digitale sugli studenti soprattutto a proposito dell’apprendimento, prendeva posizione a proposito della diffusione dei dispositivi digitali fra i bambini. Sono stati ascoltati Paolo Moderato, professore ordinario di psicologia generale, così come il valido pedagogista Raffaele Mantegazza e altri docenti universitari e noti studiosi di età evolutiva; i video di queste audizioni sono agevolmente rintracciabili sul sito del Senato della Repubblica.

Nel suddetto documento, la Commissione riferiva “danni fisici: miopia, obesità, disturbi muscoloscheletrici” includendo fra questi addirittura “ipertensione e diabete”; con altrettanta se non maggior preoccupazione elencava i “danni psicologici: dipendenza, alienazione, depressione, irascibilità, aggressività, insonnia, insoddisfazione, diminuzione dell’empatia”. Fonte maggiore di inquietudine apparivano soprattutto le conseguenze attribuite a videogiochi e smartphone sul piano intellettivo: questa Commissione del Senato si riferiva a “progressiva perdita di facoltà mentali essenziali che sommariamente chiamiamo intelligenza: la capacità di concentrazione, la memoria, lo spirito critico, l’adattabilità, la capacità dialettica”. In questi termini “lo smartphone non è più uno strumento ma un’appendice del corpo. E’ per questo che risulta così difficile convincerli a farne a meno, a mettere da parte il telefonino almeno per un po’: per loro, privarsene è doloroso e assurdo quanto subire l’amputazione di un arto”[1]. Constatiamo le parole forti, la lettura della situazione relativa alla digitalizzazione orientata in modo perentorio verso un atteggiamento critico. Verrebbe da stupirsi e da considerare questi interventi come il frutto di una sorta di pregiudizio ideologico. Troviamo infine davvero del tutto enigmatico il modo in cui l’utilizzo smodato dei dispositivi digitali potrebbe in qualche modo determinare effetti clinici drammatici come ipertensione e diabete.

Il concetto di demenza digitale

Tuttavia alcuni colleghi hanno sottolineato i rischi di un deterioramento delle potenzialità umane, soprattutto fra soggetti in età evolutiva, a seguito della sostituzione di attività tradizionalmente svolte senza supporti digitali con attività analoghe effettuate con dispositivi digitali. A questo proposito, le difficoltà di apprendimento e l’eclissarsi di capacità mentali, come quelle relative al mantenimento dell’attenzione e della concentrazione, sono correlate a un concetto formulato una dozzina d’anni or sono da clinici della Corea del Sud in maniera forte: la demenza digitale. La popolazione giovanile coreana fruisce da tempo di molteplici dispositivi digitali. Una decina di anni or sono, quando tale denominazione ha conosciuto un certo successo, le statistiche riportavano dati come quello di un 12% circa di minorenni di quella nazione che manifestavano una severa dipendenza da oggetti quali tablet, piattaforme per videogiochi e smartphone. Nel dettaglio, si indicava in 160.000 circa il numero di bambini fra i 5 e i 9 anni alle prese innanzitutto con la dipendenza dai videogiochi ma anche più estesamente con una certa Internet addiction. I clinici sudcoreani riscontravano in questi ragazzi aumento di disturbi della memoria, dell’attenzione e della concentrazione tanto quanto un certo appiattimento affettivo – emotivo.

Tale concetto, il concetto di una deprivazione delle facoltà mentali indotto dalla diffusione dei dispositivi tecnologici soprattutto fra i nativi digitali, fornisce il titolo a “Demenza digitale”. Si tratta di un libro abbastanza divulgativo ma corposo e ricco di riferimenti a ricerche svolte in varie parti del mondo, scritto da Manfred Spitzer, neuropsichiatria e professore di Università a Ulm, in Germania. Spitzer è stato il primo fra gli studiosi ascoltato dalla suddetta Commissione del Senato. Posizioni analoghe alle sue vengono espresse dal peraltro serissimo collega Nicola Artico, docente a contratto all’Università di Pisa e direttore di struttura complessa nella ASL Toscana Nord Ovest. Ho approcciato allora la lettura di questo poderoso volume, pagina per pagina. Non nascondo di essermi trovato però, in una sorta di condizione di perplessità dinanzi a tre elementi specifici di questo libro: un primo è di carattere temporale; un secondo quanto al riferimento alle neuroscienze che si basa su una frequente confusione, riscontrabile sia in questo volume sia nella letteratura del settore, fra mente e cervello; l’altro relativo al titolo del libro.

Primo argomento. A livello di tempi, un libro sul digitale scritto in tedesco nel 2012 sarebbe già assolutamente datato, considerata la rapida evoluzione delle dinamiche e delle abitudini in questo ambito; sembra proprio di un’altra era geologica dopo l’accelerazione della digitalizzazione del mondo indotta da lockdown, quarantena, confinamenti e coprifuochi del 2020.

Secondo punto da problematizzare. Per quanto concerne il titolo del volume, demente ovvero de-mente significa letteralmente mancante della mente: mi risulta difficile credere che un nativo digitale sia demente, mancante della mente. Amo poco il termine di deficit, comune in una certa clinica neurologica; sin dall’inizio della mia pratica come psicoanalista, ho sempre considerato le varie forme di psicopatologia più come particolarità soggettive tali da insegnarci qualcosa anziché come dei deficit. A questo proposito, per portare un esempio molto affine al campo del digitale, credo che un bambino autistico abbia una propria diversità e una propria singolarità ma senza doverla rubricare nel campo del deficit o della de-menza. Si prendano in conto per questo le testimonianze di famosi soggetti autistici come lo scienziato Daniel Tammet e la docente di zoologia Temple Grandin.

Esiste un’intelligenza digitale e può essere dimostrato

Terzo fattore critico è quello della sovrapposizione fra la dimensione mentale e quella cerebrale. Mente e cervello hanno ben poco in comune. La mente prescinde in larga misura dal cervello così come il corpo si distingue dall’organismo. Cervello e organismo si situano su un piano organico mentre corpo e mente – peraltro accostabili a livello psicocorporeo – implicano il campo del soggetto. Soggetto umano, soggetto influenzato nella sua formazione dalla società, dalle strutture ambientali, economiche, culturali, linguistiche, soggetto frutto di interazioni che variano e si evolvono secondo una storicità dell’inconscio e della psiche la quale non potrebbe non risentire dei cambiamenti sociali. Fra i cambiamenti sociali che incidono sullo sviluppo mentale, hanno evidentemente un posto preminente quelli inerenti alla digitalizzazione del mondo. Non è tuttavia detto che si possa disgiungere in modo manicheo, dicotomico l’oggetto digitale quale oggetto cattivo o persino persecutorio da altri oggetti come buoni oggetti. Vi sarebbe l’eventualità di idealizzare altri oggetti tradizionali come il libro, il quotidiano, l’album musicale, il pallone, il quadro attribuendo soltanto ad essi una funzione di sviluppo positivo a scapito degli oggetti digitali che sarebbero finanche nocivi. In realtà potrebbero semplicemente fornire un’altra forma allo sviluppo della mente.

Differenze di età

Ascoltando il video dell’audizione di Raffaele Mantegazza da parte della suddetta Commissione del Senato, ci troviamo a concordare sui rischi relativi all’utilizzo dei dispositivi digitali nella fase di acquisizione della letto-scrittura: in quella fascia di età e in quel momento critico dell’apprendimento, l’utilizzo di strumenti tradizionali come carta e penna o matita si fa preferire in quanto include un percorso di approfondimento maggiore. Spitzer riporta dati che indicano come un persistente utilizzo del computer nella fascia d’età della scuola dell’infanzia ha un ruolo nel determinare disturbi dell’attenzione, difficoltà a riconoscere le lettere e successivamente dislessia. Fino all’età dell’asilo nido e della scuola dell’infanzia, l’utilizzo di tablet o smartphone andrebbe dunque assolutamente limitato. Spitzer si riferisce a studi di neuroimaging condotti con la risonanza magnetica funzionale (RMI) che mostrano come il riconoscimento di lettere imparate per mezzo della scrittura tramite matita porta a una maggiore attività nelle regioni motorie del cervello rispetto a quando per questo si utilizza la tastiera. Del resto, è evidente anche per gli adulti come leggere un concetto e trascriverlo metta al lavoro in forma diversa rispetto a quanto avviene con la funzione del PC denominata “copia e incolla”. Una norma ragionevole è che i figli nei primissimi anni di vita assistano soltanto a brevi video, alla TV o sullo smartphone; per esempio, meglio far loro seguire soltanto a pochi episodi di cartoni animati rivolti a bambini come Peppa Pig, giusto per citare un personaggio celebre i cui episodi basati sulla rassicurante routine della vita quotidiana della più tenera infanzia e con personaggi stilizzati secondo una semplicità tipica di quella fascia d’età hanno durata compresa fra i 5 e i 15 minuti.

Vi è accordo sul nesso fra disturbi dell’apprendimento o da iperattività nell’infanzia e l’evoluzione di questi soggetti verso le dipendenze in adolescenza o nella giovinezza. La riscontriamo ogni giorno nella nostra pratica clinica. Del tutto apprezzabile ci sembra anche il parere di diverse organizzazioni di pediatri, in molteplici nazioni, da noi già riportato più volte nelle nostre pubblicazioni, circa il limite di tempo dinanzi agli schermi da dare ai bambini a iniziare dal limite di un’ora fino ai tre anni di età. Del resto, anche quando si svolgevano Didattica a Distanza e poi Didattica Digitale Integrata in occasione di lockdown e zone rosse o arancioni, al primo anno della scuola primaria, era consuetudine quella di svolgere soltanto un paio d’ore di lezione in tale modalità online e neppure quelle alla scuola dell’infanzia onde evitare di far restare per un tempo inadeguato all’età i bimbi dinanzi al video. Non sono così convinto, tuttavia, che risulti condivisibile quanto afferma Angela Biscaldi quando scrive che “i nuovi media digitali, costitutivamente, indeboliscono l’attenzione, la concentrazione e l’empatia” né tantomeno che “non siano adatti per l’approfondimento critico”. Del resto, si tratta di una posizione affine a quella esposta e pubblicata negli Atti Parlamentari del Senato della Repubblica sopra citati.

La Commissione in questione ha audito pure Lamberto Maffei, il quale ha insegnato Neurobiologia alla Normale di Pisa ed è direttore dell’Istituto di Neuroscienze del CNR oltre ad avere all’attivo numerose pubblicazioni, il quale mi risulta sia giunto a conclusioni sul valore della funzione della parola e sul campo del linguaggio analoghe a quelle di Ferdinand de Saussure. Cent’anni or sono, nel suo celebre “Corso di linguistica generale” – peraltro molto ben presentato nell’edizione italiana a cura di Tullio De Mauro – pone al centro della struttura umana la funzione della parola e della lingua. Distingue il significato come concetto e il significante come immagine acustica: dunque la mente è una macchina di significanti, oltre che di significati. Ricevere significanti dalla radio, dalla televisione, da YouTube o da Spotify non impedisce strutturalmente che si giunga a organizzarli in un significato.

La Biscaldi stessa cita le quattro principali rivoluzioni della comunicazione iniziando con il passaggio dall’oralità alla scrittura. E’ nota la posizione di Platone, espressa 2.500 anni or sono: la scrittura va intesa come farmaco. Farmaco con la duplice accezione, ampiamente sottolineata da Jacques Derrida, di rimedio e di veleno: la scrittura è un rimedio per i limiti della nostra memoria; la scrittura è tuttavia anche un veleno perché ci porta a smarrire il valore della parola orale fino a determinare una “de-menza” – per citare il titolo del testo che riporti e che mi appresto a leggere. L’autrice sembra lucida quando riconosce come i nuovi strumenti di comunicazione convivano con i precedenti, senza sostituirli del tutto: la scrittura convive con l’oralità, i mass media con i libri. Noi potremmo aggiungere che la Play Station convive con i tornei di calcio o di pallavolo, che il sesso online convive con quello offline, che gli incontri sulle app di dating convivono con quelli avvenuti in luoghi tradizionali.

Vi sono senza dubbio fattori preoccupanti nella diffusione esponenziale dei dispositivi digitali come il cyberbullismo, il sexting, il revenge porn, l’impatto che i social hanno sulla formazione dell’identità con la conseguenza di favorire lo sviluppo di disturbi alimentari o della cosiddetta disforia di genere.

Spitzer giunge alle stesse posizioni di Sherry Turkle sul trovarsi Insieme ma soli, titolo di quello che è probabilmente il più celebre libro della collega statunitense. Lo cita esplicitamente. Peccato che la Turkle abbia molto ammorbidito la propria posizione in parte forse anche moralistica, in questi ultimi anni, senza dubbio non senza nessi con la pandemia che ha implicato un upgrade nella digitalizzazione del mondo per tutti e – ricordiamolo – ha permesso di salvare molte vite umane in quel periodo.

Mantegazza stesso afferma nella suddetta sede che, una volta acquisite le competenze della letto-scrittura, l’ipertesto digitale può invece costituire una preziosa opportunità di arricchimento tramite cui acquisire ulteriori e più dettagliate informazioni.

Se tutti noi non ricordiamo i numeri di telefono che abbiamo memorizzato nel nostro cellulare, a differenza di quelle che componevamo sulla tastiera del ricevitore di casa, perché non considerare uno sviluppo mentale meno mnemonico e maggiormente volto a cogliere i concetti in quanto tali? Se la diffusione dei sistemi di geolocalizzazione relativi al GPS porta a sviluppare meno la capacità di orientamento quando ci spostiamo per gite e vacanze, perché non capire che vi sarà più tempo da dedicare all’acquisizione di informazioni culturali, storiche, politiche sui luoghi che frequentiamo? Del resto, la dimenticanza non è soltanto un effetto di un deficit neurologico come quello specifico di demenze tipo morbo di Alzheimer ma anche una formazione dell’inconscio. Freud la annovera addirittura come esempio eclatante della psicopatologia della vita quotidiana dedicando a queste forme di oblio il primo capitolo dell’omonimo libro.

Soggetto e struttura clinica

Manfred Spitzer riporta dei fatti di cronaca a riprova delle proprie tesi palesemente critiche nei confronti delle nuove tecnologie. Scrive dei suicidi compiuti per emulazione, dopo aver trascorso del tempo dinanzi al video della TV a vedere un film nel quale si compie un gesto estremo. Auspica, giustamente, un intervento dei mass media nella prevenzione degli agiti autodistruttivi. Lui stesso, però, scrive del celebre “effetto Werther”. Come abbiamo studiato al Liceo, dopo la pubblicazione avvenuta nel 1774 del noto e splendido romanzo di Goethe, vi fu un’epidemia di suicidi effetto della suggestione indotta dalla lettura de “I dolori del giovane Werther” che narra dell’amore impossibile del protagonista per Charlotte, detta Lotte. L’effetto suggestivo si imprimeva e si imprime tuttora anche attraverso la lettura e portava soggetti strutturalmente volti al passaggio all’atto a suicidarsi.

La violenza fine a sè stessa esiste a prescindere dal digitale

Del resto, sono risapute le polemiche sui suicidi indotti da brani musicali di alcune band. In qualità di perito del tribunale di Cottbus, nel Brandeburgo, si è occupato di un omicidio senza apparente motivo. Un giovane, dopo aver giocato tutto il giorno con un amico a un videogame violento, aveva incrociato un cinquantenne senzatetto; questi era caduto e il ragazzo lo aveva colpito ripetutamente fino a ucciderlo. Peccato che gli omicidi senza movente siano ampiamenti documentati nei trattati della psichiatria francese classica, ben prima che esistessero la televisione e Internet. Bruce Springsteen ne canta nel suo celebre brano Nebraska, che fornisce il titolo al suo album del 1982. Racconta l’inquietante vicenda realmente accaduta del diciannovenne Charles Starkweather e della sua fidanzata quattordicenne, Caril Fugate i quali compirono una serie di assassini senza un movente ben preciso. In carcere, Charles scrisse poi al papà che non era dispiaciuto per quanto aveva fatto perché perlomeno lui e Caril si erano un po’ divertiti. Omicidi immotivati capitano di frequente come tentativo di guarigione in casi di psicosi poiché il soggetto trova o pensa di trovare una pacificazione in certi drammatici passaggi all’atto oppure in quanto si sente paradossalmente finalmente salito al rango di soggetto.

Manca completamente nei testi di Spitzer, così come in “Insieme ma soli” di Sherry Turkle qualsiasi riferimento alla diagnosi differenziale: l’effetto di suggestione indotto dalle immagini degli schermi così come dalla lettura o dall’ascolto di un certo tipo di musica suscita fantasie, pensieri intrusivi, angoscia in soggetti non psicotici mentre può determinare un passaggio all’atto quasi esclusivamente in soggetti psicotici.

Affermo inoltre convintamente che ci insegnano maggiormente le esperienze cliniche di quanto ci insegnino ricerche nel campo delle neuroscienze. Apprendiamo dalla ricerca single case. A questo proposito, con le giuste accortezze relative alla privacy, possiamo succintamente riferirci a genitori succubi loro per primi dei dispositivi digitali, loro stessi da sempre con lo smartphone in mano, dipendenti dalle immagini del tablet. Si tratta forse di soggetti con una forma di debilità (ecco di nuovo la de già incontrata con il termine de-menza), che non riescono a installarsi saldamente nel campo della parola e nel discorso tanto da sopperire grazie agli oggetti digitali alle proprie condizioni di difficoltà relazionale? Se così fosse, l’apprendimento dei loro figli potrebbe venirne evidentemente condizionato a prescindere dall’uso della tecnologia. Si tratta invece di soggetti psicotici, caratterizzati da una forma di psicosi ordinaria, socialmente quasi invisibile, compatibile con l’ordine costituito? Se così fosse, essere figli di genitori psicotici e con carente funzione riflessiva, avrebbe delle ripercussioni sullo sviluppo da valutare accuratamente. Con o senza dispositivi digitali.

Il caso degli hikikomori

Quanto al caso degli adolescenti gamer e dei cosiddetti hikikomori, qual è la loro diagnosi differenziale al di là del dato meramente fenomenico? Si tratta forse di una prepsicosi che riesce a intrattenere relazioni soltanto dietro il rassicurante velo dello schermo che fissa la sua libido sull’immagine narcisistica? Sono tutti interrogativi aperti ai quali non possiamo dare risposta in questa sede ma tali da ricordarci il valore della singolarità di ogni posizione soggettiva che va colta nell’intimità dello spazio clinico, della stanza d’analisi. Dietro l’imperante propagarsi degli oggetti digitali in età evolutiva vi sono storie, persone, ragazzi e ragazze con la propria unicità. Le incontriamo come clinici, come docenti, come genitori, come zii, come educatori, come allenatori nelle società sportive.

D’altro canto, i tanto vituperati strumenti digitali risultano spesso preziosi nella pratica clinica, negli ambiti della cura. Si considerino le nuove prassi relative ai trattamenti svolti tramite la cosiddetta realtà virtuale. Riportiamo nello specifico l’esempio di due settori clinici nei quali i dispositivi digitali si stanno dimostrando sempre più importanti e dei quali abbiamo ampiamente scritto nel quarto e ultimo capitolo del volume di 240 pagine “Bucare lo schermo. Psicoanalisi e oggetti digitali”: attacchi di panico e autismo. Da anni mi capita di ricevere richieste di appuntamenti online da parte di giovani con forme di panico e di agorafobia marcate i quali non potrebbero mai venire all’appuntamento in presenza; non di rado, dopo un percorso preliminare online, riescono a intraprendere una vera e propria esperienza psicoanalitica in studio. Quanto all’autismo, nel novembre 2019, si è svolto un importante convegno internazionale all’Università di Rennes 2 sull’utilizzo del digitale (numérique in francese) e della robotica nella relazione educativa e nel trattamento clinico con ragazzi autistici.

A fianco agli interventi di Jean-Claude Maleval del quale ho l’onore di aver tradotto l’unico libro pubblicato in italiano e di Eric Laurent (senza dubbio uno fra i maggiori esponenti della psicoanalisi lacaniana a livello mondiale), vi sono state testimonianze di adolescenti autistici come Théo Fache e di scienziati autistici come il già citato Daniel Tammet. Sottolineavano quanto la relazione regolata dagli oggetti digitali, che possono venire padroneggiati dal bambino autistico, divenga fondamentale per ridurre l’angoscia o la persecutorietà nell’incontro con gli altri sino a permettere lo sviluppo di competenze, di forme di apprendimento secondo le propensioni e le affinità di ciascuno. Un esempio famoso di Affinity Therapy è quello di Owen Suskind, riportato da suo padre Ron il quale vinse a suo tempo un premio Pulitzer per la propria attività giornalistica: dai 3 ai 9 anni, non parlava; trascorreva gran parte delle proprie giornate dinanzi allo schermo per vedere cartoni animati di Walt Disney finchè il papà capì che i “versi” emessi da Owen erano versioni storpiate delle parole dei cartoon. Da lì uno sviluppo soggettivo importante fino al punto di arrivare a 20 anni a poter parlare in conferenze e in contesti universitari come appunto quello di Rennes, la maggiore realtà universitaria della Francia dopo Parigi. “Life animated” è il film che narra la vicenda Suskind.

Conclusioni

In ultima istanza, approcciare gli interrogativi sollevati dalla diffusione imperante dei dispositivi e degli oggetti digitali, nell’epoca nella quale gli oggetti sopravanzano per rilevanza gli ideali tradizionali, ci impone di considerare la peculiarità di ogni posizione soggettiva. Per motivi etici e per problemi clinici, la peggiore fra le operazioni che si potrebbero attuare sarebbe quella di fare di tutta l’erba un fascio. La nostra tesi fondamentale è che vada sottolineata la funzione, di crescita o di stagnazione, che l’oggetto digitale determina su un soggetto in base alle sue proprie caratteristiche e alla specificità del momento attraversato. Anche e soprattutto in età evolutiva.

Bibliografia

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  1. A. Cangini, Sull’impatto del digitale sugli studenti, con particolare riferimento ai processi di apprendimento, Documento della Commissione Parlamentare (Istruzione Pubblica, beni culturali), seduta del 9 giugno 2021.

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