cultura digitale

La disinformazione paga: come funziona la filiera delle fake news

Autori, testate, piattaforme, inserzionisti, utenti: ogni elemento della filiera è corresponsabile della diffusione della disinformazione, soprattutto se interpreta il suo ruolo in maniera asettica, strumentale, razionale nel suo significato deteriore. Le conseguenze sono gravi e le paghiamo tutti

Pubblicato il 26 Ott 2021

Sabino Di Chio

Docente di Media e Consumi Culturali, Università degli Studi di Bari

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Nuovi dati confermano quanto la lotta alla disinformazione sia un percorso lastricato di buone intenzioni costrette ad infrangersi contro gli interessi di una filiera retta da troppe convenienze.

Due ricerche riportano l’attenzione sulla correlazione tra coinvolgimento e appartenenza politico-culturale e sulla forza finanziaria di un business apparentemente irrinunciabile nell’attuale modello di sviluppo.

  • La prima, congiunta tra New York University e la francese Grenoble-Alpes rivela che le fake news su Facebook ricevono sei volte più like, condivisioni e interazioni rispetto alle notizie verificate. Su 2.500 editori di notizie postate tra agosto 2020 a gennaio 2021, il 40% delle fonti di estrema destra e il 10% delle fonti di centro o di sinistra hanno promosso contenuti disinformativi che rappresentano il 68% del coinvolgimento per le prime e il 36 % per le seconde. I ricercatori hanno usato le metriche di due organizzazioni, NewsGuard e Media Bias/Fact Check, che hanno classificato migliaia di pagine sulla base delle convinzioni politiche.
  • Proprio da NewsGuard, azienda specializzata nel monitoraggio, arriva il secondo campanello d’allarme: uno studio realizzato con Comscore evidenzia come gli inserzionisti ogni anno involontariamente spendano 2,6 miliardi di dollari (l’1,67% del mercato) in pubblicità programmatica su siti che pubblicano disinformazione.

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La filiera della disinformazione

La filiera della disinformazione, com’è noto, coinvolge autori, testate, piattaforme, inserzionisti, utenti. Si è generalmente spinti a puntare il dito contro uno degli anelli: è tutta colpa dei social che ci guadagnano, dei giornali che inseguono il clickbaiting o degli utenti boomer che non sanno distinguere. Le ultime evidenze, però, invitano a fare un passo indietro per comprendere il fenomeno guardando all’intera catena e le sue interdipendenze. Partiamo dall’inizio.

Gli autori

Gli autori sono una categoria vasta che si divide in dilettanti e professionisti. I primi, a vent’anni dall’adozione del digitale nella vita quotidiana, non hanno perso l’entusiasmo di poter finalmente rendere pubblico tutto ciò che passa loro per la testa. I confini della libertà d’espressione sono cambiati in maniera irreversibile: alcuni sono amatori che immettono nei flussi contenuti freschi, necessari, rari. La maggior parte esercita senza pensarci troppo un diritto ormai acquisito, senza riverenze gerarchica né obbedienze a doveri deontologici. Le cerchie raggiunte spesso sono ristrette (è la difesa abituale delle corporation), l’impatto sul dibattito minimo, a differenza di una minoranza che, invece, ha trovato nella diffusione di complotti, aggressioni o allusioni una via per la popolarità, il consenso politico o un modo per guadagnarsi da vivere.

I professionisti

I professionisti lavorano in testate che competono con la vasta marea dei content creator e con meme, tweet, tiktok, le chat di videogiochi e tutto il sistema ibrido dell’info/intrattenimento[1] in un mercato senza confini che si contende la risorsa scarsa dell’attenzione degli utenti, secondo Lisa Iotti (e Microsoft) quantificabile in circa otto secondi[2]. Da qui la spinta a colorare i pezzi, far leva sulle emozioni primarie, spettacolarizzare, rinunciare alla verifica e tutti le pratiche di churnalism, per nulla esclusive dei social media. Sono solo alcuni degli strumenti base per trattenere un pubblico ondivago, in fuga dalla fatica della dissonanza cognitiva, che sembra rivolgersi ai social media per confermare le proprie certezze più che per sfidarle. E che sembra pronto ad abbandonare da un momento all’altro l’esigenza stessa di informarsi, come rivela il Digital News Report 2021, perché ha smarrito la percezione di una sfera pubblica e della sua utilità.

Le piattaforme

Le piattaforme diventano gatekeeper utilizzando come criterio guida non una valutazione sulla rilevanza pubblica del contenuto ma una proiezione probabilistica sull’interesse privato che l’utente o la sua cerchia di contatti possano riservarvi. I filtri attivati possono ben poco rispetto all’inclinazione degli algoritmi regolatori a prediligere la diffusione di contenuti virali. Un report interno a Facebook recentemente diffuso dalla MIT Technology Review rivela che le troll farm controllano le pagine più seguite delle comunità cristiane, afro-americane e native americane grazie ad un sistema di promozione che non penalizza il copia-incolla, fa apparire e spinge in alto nel feed i contenuti più coinvolgenti anche sulle bacheche dei non iscritti.

L’obiettivo principale non è mai stato informare (e non può esserlo per statuto) ma aumentare il tempo permanenza sulla piattaforma dell’utente che, attraverso la cessione dei suoi dati, diventa “coautore”, più o meno inconsapevole, del suo palinsesto. Il tempo trascorso dall’utente serve a profilarlo per offrire agli inserzionisti il sacro Graal di una pubblicità programmatica ovvero dagli effetti finalmente misurabili, puntuale, personale, capillare, prevedibile. Un metodo irrinunciabile che ha nei 2,6 miliardi segnalati da NewsGuard come finanziamento involontario alla disinformazione, un danno collaterale, trascurabile nel suo pesare l’1,68% del mercato totale.

Le conseguenze della disinformazione

Il risultato è l’alterazione del dibattito politico perché, come avverte lo studio NYU-Grenoble, esiste una correlazione tra camere dell’eco e polarizzazione delle opinioni, che magari non contagia i moderati ma crea un clima aggressivo e favorisce la spirale del silenzio; inoltre le piattaforme surrogano il ruolo di intermediazione informativa promuovendo una sostanziale “indistinzione dei contenuti” ovvero la piena equivalenza tra interpretazioni, visioni e opinioni, racchiuse in formati identici indipendentemente dal loro contenuto vero o falso, costruttivo o discriminatorio. Nella cornice omologante del post, a rimanere indefinito è il “peso” dell’informazione, il portato di valore misurato sulla scala della missione pedagogica dell’informazione, assolto nel suo compito etimologico di “dare forma” all’opinione. Le verità coesistono in un affollamento senza sintesi che permette all’utente, ultimo anello, di assolvere l’esigenza di espressione e la fame di novità senza che queste si coagulino a sufficienza in decodifica dei processi che determinano lo status quo e, conseguentemente, in ambizione a mutarlo attraverso un’azione persistente nel tempo.

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Conclusioni

Ogni elemento della filiera è corresponsabile della diffusione della disinformazione, soprattutto se interpreta il suo ruolo in maniera asettica, strumentale, razionale nel suo significato deteriore.

Il lettore blindato nelle sue certezze, la testata in cerca di click, la piattaforma interessata al coinvolgimento, l’inserzionista indifferente rispetto ai canali che diffondo il suo brand agiscono nel mondo dell’informazione osservandolo come un campo di massimizzazione di un profitto personale, che può essere economico ma anche relazionale, reputazionale, emozionale.

E questa mancanza di generosità verso un interesse generale sembra fomentare la disinformazione, più di ogni altro singolo elemento.

  1. Chadwick A., The Hybrid Media System: Politics and Power, Oxford UP, 2013
  2. Iotti L., Otto secondi, Il saggiatore, Milano, 2020

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