La pubblicazione del Reuters Digital News Report 2022, condotto in 46 Paesi, accende i fari sullo stato del giornalismo digitale (e dell’informazione in generale) nell’era della fuga dalle notizie e del business della disinformazione sui social media.
Secondo lo studio, la larga maggioranza degli intervistati non nutre fiducia nel giornalismo e non sa stabilire se le notizie siano vere o fake news. Ma non è solo una questione di mancanza di fiducia. Infatti c’è anche il problema di monetizzazione delle notizie, mentre stenta a decollare il pagamento dell’informazione digitale perché non le si dà valore.
Oggi manca ancora un modello di business sostenibile per il giornalismo digitale, mentre fra gli Under 25 si diffonde l’utilizzo della piattaforma TikTok anche per informarsi.
Tuttavia “la risposta, anzi, l’antidoto alla fuga dalle notizie è il buon giornalismo“, afferma Gianni Riotta, giornalista e direttore dell’IDMO (Italian Digital Media Observatory), uno degli otto hub selezionati dalla UE per sostenere le attività dell’Osservatorio Europeo dei Media Digitali (EDMO) nella lotta contro disinformazione e fake news a livello europeo. Ecco come e perché.
Crolla la fruizione di notizie: la gente comincia a evitarle
Il timido ottimismo che si respirava nel 2021 nell’industria dell’editoria – grazie ai segnali positivi di maggiori consumi e crescente fiducia nella fruizione di notizie – è stato spazzato via da una nuova ondata di sfiducia. La fog of war sta acuendo la deriva della post-verità, allontanando le persone dall’informazione corretta e trasparente.
Il report di quest’anno dell’Istituto Reuters di Oxford fotografa, infatti, un’inversione di rotta rispetto all’anno precedente, quando la pandemia aveva invece regalato spiragli di ottimismo. Oggi guerra e inflazione, o meglio il racconto che ne viene fatto (tranne le eccezioni dei reporter di guerra e di chi combatte le fake news), stanno provocando la fuga dalle notizie.
Il fenomeno unisce 46 Paesi: in particolare è una fuga dalle notizie cartacee, mentre tiene la Tv e, fra i giovani, si fa largo l’utilizzo di nuove piattaforme digitali come TikTok anche per informarsi.
Agcom, equo compenso per il giornalismo digitale
L’Agcom informa che entra in consultazione pubblica, per trenta giorni, lo “Schema di regolamento in materia di individuazione dei criteri di riferimento per la determinazione dell’equo compenso per l’utilizzo online di pubblicazioni di carattere giornalistico di cui all’articolo 43-bis della legge 22 aprile 1941, n. 633” (allegato A alla presente delibera).
La consultazione per il giornalismo online serve a recepire la Direttiva Copyright, con cui l’Europa fissa un equo compenso a vantaggio dell’editore. L’Authority distingue fra prestatori di servizio e aziende di monitoraggio dei media e rassegna stampa. L’Autorità vuole promuovere intese fra editori e prestatori, ispirandosi a “criteri di ragionevolezza e proprzionalità” oltreché a business model presenti sul mercato.
Nel frattempo Bruxelles ha incassato la gratificazione per il Codice di Best practice rafforzato sulla disinformazione, con 34 firmatari, piattaforme comprese. La Commissione europea ha pubblicato il Codice, sulla scorta delle lezioni impartite dalla pandemia e del conflitto in Ucraina, per offrire ai cittadini europei un ecosistema digitale “trasparente, sicuro ed affidabile”.
Fra i 34 firmatari spiccano Google, Meta, TikTok, Twitter e Microsoft. Il Codice va ad affiancarsi anche alla Legge sui servizi digitali, che ha appena ricevuto semaforo verde, rivolto alla trasparenza e al targeting nell’advertising politico, sempre per contrastare la diffusione di fake news in Unione europea.
Gli impegni delle big tech
Fra i punti salienti, gli impegni si riferiscono a:
- maggiore partecipazione, anche di player minori, nella lotta alla disinformazione;
- taglio degli incentivi finanziari contro chi diffonde fake news (niente introiti pubblicitari ai responsabili della disinformazione);
- focus su account dediti alla manipolazione (bot, deep fake malevoli, account falsi ecctera);
- miglioramento dei metodi di segnalazione degli account manipolatori;
- remunerare chi si dedicata al fact-checking e alla verifica dei fatti;
- assicurare trasparenza della pubblicità politica;
- ottimizzare l’accesso dei ricercatori ai dati delle piattaforme;
- monitoraggio periodico del codice stesso;
- istituzione di un centro per trasparenza e task force per rendere il Codice sempre aggiornato ed efficace.
Nick Newman, senior research associate del Reuters Institute for the study of Journalism, parla di senso d’impotenza da parte delle persone che, di fronte all’impossibilità di cambiare le cose, preferiscono lo switch off. Spegnere la propaganda è uno scudo per non farsi avvolgere dalla fog of war e proteggere il proprio spirito critico.
Del resto, spiega Newman in un podcast, “poiché il consumo di news avviene principalmente sullo smartphone, su questo dispositivo è sempre possibile trovare app più divertenti su cui intrattenersi”, invece di informarsi e deprimersi per gli eventi tragici e traumatici che accadono nel mondo che ci circonda.
Dallo studio Reuters Digital News Report 2022 emergono le seguenti tendenze:
- il 38% evita le news consapevolmente (in Uk la quota è del 46% ed è raddoppiata dal 2017);
- il 43% denuncia l’infodemia;
- lamenta di sentirsi triste il 36%;
- dice di essere esausto il 29% degli intervistati.
La pandemia aveva sollevato l’interesse nei confronti di un’informazione verificata e certificata. Invece l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia e l’inflazione hanno generato un declino di interesse per le notizie “complesse” e “traumatiche”. Le persone tendono a non leggere le notizie che li fanno sentire tristi o esausti.
La nebbia di guerra
Ma non è un problema di umore dei lettori. La “nebbia di guerra” sta erodendo la fiducia. Il problema vero riguarda infatti la rinuncia di certi produttori di notizie a cercare la verità, provocando il calo della fiducia. Una doccia fredda per il giornalismo, dopo l’impennata di voglia di informarsi per il Covid-19.
Dal 44% del 2021, la fiducia è dunque passata al 42%. La Finlandia, uno fra i Paesi più istruiti al mondo, è l’unico che mantiene i livelli di fiducia più elevati (69%).
Invece gli Stati Uniti si piazzano al livello più basso (26%). Il motivo è che la polarizzazione è a livelli altissimi (già prima della sentenza della Corte Suprema sull’aborto), tanto che Ian Bremmer, esperto di geopolitica e analista di Eurasia, afferma che gli USA stanno prendendo la deriva di Ungheria e Turchia, in merito a post-verità e a decadimento della democrazia. Una china molto pericolosa per quella che è ancora, nonostante tutto, una delle prime democrazie nel mondo.
L’Italia è passata dal 40% del 2021, quando il balzo di buon giornalismo aveva fatto registrare +11%, all’attuale 35%. Un crollo di cinque punti percentuali, mentre in Tv si susseguono talk show che paiono in gara a cavalcare la tigre e a rinunciare a ricercare la verità, alla missione principale del giornalismo.
Lo studio ha inoltre osservato che in cinque Paesi (Gran Bretagna, Germania, Polonia, Stati Uniti e Brasile), nell’arco di tempo fra il 29 marzo e il 7 aprile scorsi, le persone seguono abbastanza da vicino il conflitto in Ucraina, travolta dall’invasione russa. In molti si aggiornano ai telegiornali.
Ma la natura difficile e perfino traumatica della crisi ha un effetto opposto rispetto all’urgenza di informarsi che si è manifestato all’inizio della pandemia. Infatti, la difficoltà a comprendere accentua la tendenza alla fuga dalle notizie. Eppure le persone vorrebbero un’informazione corretta e trasparente, come a inizio pandemia.
Spesso in Tv, dietro allo scudo di un fasullo pluralismo, si nasconde la pura propaganda. Invece pluralismo, media indipendenti ed equilibrio fra diritti sono il sale del buon giornalismo.
La difficoltà di comprendere
In Germania il 36% si sottrae alle notizie sulla guerra (+7% rispetto a prima). In due mesi, la crescita della percentuale di chi rifugge le news supera quello del quinquennio 2017-2022. “Tuttavia il conflitto non sta affatto volgendo al termine, dunque, le redazioni sono obbligate a ri-orientare l’impegno sul racconto dell’impatto del conflitto”, commenta Newman.
Una quota di giovani e di persone con un livello d’istruzione inferiore, inoltre, attribuiscono la fuga da queste notizie alla difficoltà di comprensione. Nick Newman propone dunque di concentrarsi sull’accessibilità dei contenuti: è l’ora di uscire dalla “bolla di Westminster” ovvero del racconto fatto dalla politica, per affrontare invece lezioni, discussioni e tematiche più vicine ai giovani, spiegate anche in maniera chiara e semplice. “Dobbiamo rendere le notizie più rilevanti e accessibili, anche scegliendo nuovi format per provare a semplificare i modi con cui le persone interagiscono e capiscono le news“, spiega Newman.
Infatti la fascia d’età dei giovanissimi fruisce delle news in modalità digitale e social. In alcuni Paesi emergenti, l’informazione prova a farsi largo su TikTok. In UK invece cresce l’uso di Spotify e dei podcast, in particolare sulla Bbc. Il podcasting è una modalità di fruizione dell’informazione che conquista nuovi spazi e serve per approfondire tematiche, da ascoltare mentre si fa jogging.
Il fenomeno TikTok
Il 40% degli Under 25 utilizza TikTok ogni settimana e ben il 15% lo consulta proprio per informarsi. Questa tendenza, fotografata dal al Digital News Report 2022, si sta diffondendo in particolare in Africa, Asia e America Latina. Una scossa al giornalismo digitale arriva dunque dai social media, dai meme ai video di TikTok in particolare.
Oggi il social rappresenta uno dei canali di distribuzione di contenuti di maggior successo a livello globale. Innanzitutto cresce a ritmi significativi, al contrario di Facebook.
Inoltre, pur non essendo nato né quasi mai impiegato per la fruizione delle news, TikTok sta diventando il social che più catalizza l’attenzione dei giornali e siti informativi. Il problema è che non consente di monetizzare la diffusione delle news.
PressGazette, sito britannico specializzato in innovazione nel giornalismo, ha analizzato la presenza delle principali testate su TikTok: alcune reti televisive hanno un’ampia platea, grazie ai numerosi contenuti video caricate. Tuttavia non mancano sperimentazioni da parte di testate cartacee tradizionali come il Washington Post (invece il New York Times non usa questo social).
Secondo PressGazette, l’invasione russa dell’Ucraina ha prodotto un piccolo, ma significativo salto di qualità sulle news anche su TikTok. Non si tratta tanto di contenuti video tragfhettati dai loro mezzi abituali (Tv e YouTube) nei loro formati abituali, ma a funzionare è la modalità in cui – grazie anche all’aumento della durata massima dei video – i fatti vengono raccontati, illustrati e ri-confezionati. Altro aspetto rilevante è che la confezione si mimetizza meglio con gli altri contenuti di TikTok, per evitare la riconoscibilità delle news che invece è di ostacolo alla loro diffusione e viralità.
Dunque, può sembrare temerario, ma suscita un indubbio interesse il nuovo esperimento del Los Angeles Times: intende formare un team di produttori di contenuti pensati per l’engagement nei canali social, disancorati dalle priorità giornalistiche. Il giornale parte da un progetto di creazione di “meme” ribattezzato 404 e svincolato dal lavoro del giornale, ma in grado di rilanciare il giornalismo fra gli Under 25.
“Il 404 è sostanzialmente un team di innovazione incaricato di inventare continuamente nuovi generi di contenuti sperimentali. Il che significa che ci aspettiamo fallimenti e ci aspettiamo di essere sorpresi dai successi. Ci dedicheremo a ogni lancio, a ogni meme, a ogni TikTok con la speranza di imparare qualcosa. Significa anche che il lavoro del team non si allineerà sempre con i temi e le priorità del Los Angeles Times, e questo è un bene!”, dichiara il gruppo editoriale, senza però spiegare come la presenza dei giornali su TikTok, oggi trattata alla stregua di un investimento di marketing del brand e della sua visibilità per conquistare pubblici nuovi e giovani, possa invece diventare un business model sostenibile sulla piattaforma.
La questione della fiducia
Secondo Nick Newman, alcune persone rifuggono le notizie perché non ci credono: qui è in gioco la questione della fiducia e della credibilità. L’abbandono, per esempio, delle breaking news da parte della CNN è un addio all’overload informativo e al sensazionalismo. Invece, focalizzarsi sul contesto aiuta a capire le notizie, e a contestualizzarle, evitando il fenomeno del rifiuto.
Infatti, spiegare gli scenari e i contesti permette di capire la complessità, senza farsi travolgere da uno tsunami informativo (e opaco), da cui, al contrario, si esce confusi e disorientati. Invece informarsi su media trasparenti e che verificano le notizie conduce le persone ad avere una visione chiara e limpida di ciò che accade e del contesto in cui maturano certi eventi.
L’esperto dell’istituto di Reuters fa l’esempio del referendum della Brexit: prima di esso, le persone nutrivano alta fiducia nel giornalismo, ma, dopo la vittoria del Leave, si è verificata una caduta verticale del 15-16 per cento. Più i Paesi sono polarizzati, come gli USA, più la fiducia si abbassa.
“Per far risalire il livello della fiducia, bisogna fare fact checking per combattere la disinformazione e focalizzarsi sui fatti“, sottolinea Newman. Ma per chi si informa dai social media, bisogna cambiare strategia: occorre aumentare l’engagement delle persone e rendere le news più accessibili sulle piattaforme dove i giovani, fra l’altro, sono più scettici.
Ma invece di rafforzare la fiducia nel buon giornalismo, si tende a fondare “partisan media”, dunque media faziosi perché di parte, attraverso donazioni e modelli di abbonamento che favoriscono una fiducia solo su particolari gruppi e non nell’ecosistema dei media. Questo modello tende a polarizzare società già fortemente divise, invece di unire.
L’antidoto alla disaffezione è il buon giornalismo
Innanzitutto c’è il fenomeno della polarizzazione: solo il 14% di chi si definisce di destra contro il 39% di chi si identifica a sinistra ha fiducia nelle notizie diffuse dai media. Il motivo è che le persone non leggono o ascoltano le notizie, ma si limitano ad ascoltare la propaganda dei politici, secondo Nick Newman. “L’eccessiva polarizzazone politica fa sì che in Occidente una crescente fetta della popolazione di natura conservatrice-populista abbia deciso che giornali e televisioni mainstream fanno parte dell’establishment e dunque si è di fatto alienata”, afferma Riotta, “ma c’è un altro fattore: ancora oggi giornali e televisioni mantengono un modello di comunicazione verticale che dà notizie dall’alto in basso e questo modello allontana i media mainstream dalla gente“.
Invece, “servirebbe da parte dei media mainstream uno sforzo per diventare molto più dialogici con l’opinione pubblica. Al tempo stesso occorre da parte delle autorità un investimento nella formazione e nell’educazione dei giornalisti e delle redazioni per renderli al passo con l’innovazione giornalistica“, continua Riotta.
Invece, “le redazioni europee si stanno svuotando di giornalisti. Ogni tanto eliminano i giornalisti che vanno in pensione e non li rimpiazzano con i giovani giornalisti che escono dalle scuole e non trovano lavoro”, conclude Riotta. Secondo il giornalista, serve più Europa anche per salvare il buon giornalismo: “Come l’Europa investe nell’agricoltura, nella cultura, nella pesca, dovrebbe investire nella formazione della comunicazione. Ma non con investimenti a fondo perduto. Dovrebbero essere investimenti europei nella tecnologia. In questo modo, i giornalisti di mid-career fra i 40 e i 50 anni potrebbero ricevere corsi sponsorizzati dall’Unione europea nel digitale per rilanciare un buon giornalismo di cui abbiamo necessità“, conclude Riotta.
Clickbaiting e fake news allontanano le persone dalle notizie
“Quando parliamo di giornalismo digitale, ci sono due aspetti principali: la produzione dell’informazione e il consumo”, afferma Andrea Maselli, che ha insegnato al master in giornalismo in Cattolica ed è stato direttore di Computer Idea fino a dodici anni fa. “Il problema principale è che negli ultimi dodici anni sono cambiati sia i modelli di produzione che i modelli di consumo“.
La trasformazione è stata disordinata e inattesa: siamo passati dall’informazione che seguiva ritmi tradizionali (la mazzetta dei quotidiani, i bollettini, le agenzie, poi il settimanale, il mensile eccetera: momenti diversi di metabolizzazione delle notizie) a una rottura improvvisa di tutti i paradigmi”, continua Maselli.
“A quel punto è cambiato tutto: la distribuzione, la sincronizzazione co-temporale coi fatti, la manipolabilità. Le notizie non ti arrivano più da un certo posto, autorevole e dove la verifica dei fatti è l’Abc, ma da ogni dove”.
Tuttavia il giornalismo non era pronto per questa rivoluzione e si è fatto cogliere impreparato: “Ha cercato di cavalcare la tigre”, sottolinea Maselli, “attraversando varie fasi. Il primo periodo è stato quello di prendere il cartaceo e metterlo online; la seconda fase è stata quella di filtrare l’online (cerco di riprodurre l’online, ma sempre con la modalità del cartaceo). Poi il mondo editoriale ha subodorato la possibilità di tagliare i costi (la carta, la distribuzione…): pensando che fosse arrivata una nuova età aurea, ha cercato di passare dal giornalismo (costoso) all’editing, al content management, al copyrighting, sminuendo l’attività del giornalista e riducendola in un’attività di desk. Infine, a determinare la crisi attuale, è l’impossibilità di trovare un business model ovvero trovare un modello di revenue per pagare il buon giornalismo“.
“Mentre una volta il giornalismo era considerato un mestiere che produceva un valore (è una gamba della democrazia), adesso questo concetto si è perso. A sua volta il consumatore di notizie ha perso fiducia nel giornalismo e non è disposto a pagare. Così, gli editori hanno iniziato una guerra al ribasso. Pagano un tanto al mese o ad articolo o trovano altre forme. Ma tutto ciò provoca un surrogato di giornalismo che va ad inseguire un pubblico, a sua volta sempre più sfiduciato e dunque meno disposto a dare valore a ciò che legge.
Dunque, il lettore lamenta la superficialità e l’assenza di obiettività e competenza. E non ha torto: non è giornalismo, ma un’attività fatta con il copia-incolla e con le traduzioni automatiche, dove domina, oltretutto, la sindrome del tempo reale, dove online si pubblica – magari una sola riga – appena il giornalista ha una labile traccia, e poi l’aggiornamento avviene ogni dieci minuti.
Anche la pagina Web è costruita senza una selezione delle priorità, ma solo per mostrare che l’update è continuo e magari, l’aggiornamento successivo smentisce la labile traccia iniziale, che neanche era stata verificata.
L’uso abnorme della titolazione, inoltre, innesca il Clickbaiting. Ma anche questo abbassamento della qualità ha ridotto la soglia di attenzione del lettore che non è più disposto a perdere più di qualche minuto oltre alla lettura del titolo. Ciò, a sua volte, spinge il sito a scrivere un titolo che ‘dica tutto’ per evitare il crollo della soglia di attenzione. Così, le persone non dedicano più tempo e attenzione a ciò che leggono. Ma in questo circolo vizioso, il giornalismo perde per strada la possibilità di contestualizzare, ciò che invece serve oggi.
Dalla pandemia alla guerra, ciò che è mancato sempre è stato il contesto: un’infodemia, uno tsunami di dati, in cui mancava sempre il contesto, il quadro generale in cui inserire quei dati, qualcuno che spiegasse il significato vero di quei dati.
Il giornalismo sui generis, che si è creato in questo scenario, a un certo punto della pandemia, si è perfino tirato indietro e ha delegato tutto agli opinionisti e agli esperti. Il giornalismo ha scelto la strada della de-responsabilizzazione, preferendo una passerella di opinionisti e (sedicenti) esperti in cui uno dice il contrario dell’altro.
Dal contenuto siamo infatti passati all’emozione che genera confusione, disaffezione e sfiducia: non c’è il talk show, ma solo uno show“, mette in guardia Maselli.
“Hanno creato un meccanismo in cui nessuno più sviscera i problemi, dove il giornalista non fa più il gate keeper che interviene e dà valore alla discussione, ma si limita ad osservare duellanti di un wrestling mediatico dentro un ring, dove a un certo uno alla fine non ci sta e se ne va sbattendo la porta”, conclude Maselli. Alla fine vince la bolla: “Ogni consumatore di notizie infatti cerca solo conferme alle proprie convinzioni (spesso non suffragate dai fatti). Il paradigma di questo giornalismo va dunque tutto nella direzione della polarizzazione ed anche i social media amplificano questa deriva. La soluzione a tutto ciò è ovviamente trovare il modo di fare e monetizzare il buon giornalismo“, ponendo fine a questo circo mediatico che ci ha condotto fin qui.
I rapporti tra Big Tech e giornali
Fra i motivi di disaffezione dalle news non ci sono solo la guerra, la pandemia e l’inflazione (fenomeni che devono essere contestualizzati per essere capiti), ma anche la paura dell’influenza delle Big Tech. Un ulteriore fattore che erode la fiducia fra media e consumatori di news è la rinuncia delle grandi piattaforme ad essere intermediari neutri. Lo riporta Nick Newman, che ricorda che per i giovani i social media sono la principale fonte di notizie.
Le Generazione Z è più scettica e rimane lontana da Tv e brand di giornali. Al contrario dei Millennials, che hanno visto i genitori informarsi in Tv e leggere il giornale in salotto. Inoltre, i più giovani sono disinteressati alla politica e sono più attratti dall’aspetto social delle news. Piace ai ragazzi il modo in cui i social media danno forma alle notizie.
Per esempio, cattura l’attenzione della Gen Z non solo chi racconta loro la storia, al di là della storia stessa, ma anche la conversazione che una storia suscita, nello sviluppo dei commenti. Per i giovani il rapporto dialogico coi media è cruciale. Dunque, raggiungere questa audience (pari al 38% di chi si informa dai social media) significa dover usare network differenti da quelli tradizionali, come Tv, radio e stampa.
Ma dobbiamo preoccuparci anche di come monetizzare l’informazione e come chiedere alle persone di pagare per accedere alle notizie. Perché il giornalismo costa e quella editoriale è un’industria che deve avere bilanci in attivo e conti in ordine per funzionare.
L’assenza di business model
Il pagamento delle news online rimane al 17% come un anno fa, segno che stenta a decollare. Servirebbero dunque più risorse per monetizzare l’informazione e anche per creare più video su TikTok. Però, al momento, “manca un business model, in grado di sostenere la possibilità di pagare un giornalista su queste piattaforme”, spiega Newman.
Le persone dunque chiedono differenti modalità per informarsi e dunque per riannodare il filo della fiducia nell’informazione. Ma senza risorse economiche, è impossibile raggiungere i giovani e gli utenti laddove vogliono consumare le notizie.
Oltre al problema della fiducia da riconquistare, “c’è anche quello della relazione fra canali social e i luoghi in avviene il consumo di news”, continua Newman.
Focus su dati e privacy
I media devono prestare maggiore attenzione ai dati. “Perché gli abbonamenti in prova gratuita non sempre si traducono in vere sottoscrizioni e la retention è all’8%, un livello basso”, continua Newman. Inoltre, “andrà calcolato il costo del carovita e il suo impatto sui media nel prossimo biennio”, per capire chi sopravviverà.
Altro fattore che avrà un impatto sui media è l’addio ai cookies di terze parti da parte di Google: sono strumenti che infatti consentivano di raccogliere dati. Ma la raccolta dei dati è un altro tema controverso e che solleva scetticismo nelle persone. Infatti, in Uk appena il 16% ha sottoscritto un nuovo abbonamento l’anno scorso: una riluttanza dovuta proprio a motivi legati alla privacy. Le persone nutrono scarsa fiducia nei siti, nella loro gestione dei dati, nella loro responsabilità in generale. Così, i lettori ormai cercano di evitare di fornire la loro email anche per sottoscrivere una newsletter. Tutto ciò, a causa di scottanti esperienze passate. “Abusi e data breach hanno eroso la già scarsa fiducia”, afferma Newman.
Le persone chiedono dunque maggiore trasparenza e responsabilità anche nell’uso dei dati e nella pubblicità digitale. I media devono prestare maggiore attenzione a queste richieste per non fomentare altri attriti.
Ma dal report emergono anche altri dati interessanti. Il 6% dei britannici preferisce comunque guardare video invece di leggere testi scritti. Una percentuale più bassa rispetto al 25% dei filippini e dei brasiliani. Anche i giovani preferiscono leggere che guardare video: è un dato in controtendenza. Soprattutto, sfata la leggenda che giovani trascorrano ore ipnotizzati, inghiottiti dai display, a consumare video su TikTok. Il motivo è che giovani non vogliono perdere tempo con l’advertising che anticipa i video (la pre-roll ads) su Youtube ed altre piattaforme di video-sharing. Dunque, ecco un altro ostacolo per trarre guadagni dal giornalismo.
Il ruolo di Google e Meta
Sul fronte Big Tech, qualcosa si sta muovendo. Google ha rinunciato al ricorso contro gli editori transalpini ed ha accettato di pagare 500 milioni di sanzione dell’antitrust francese. Infatti il colosso di Mountain View si è impegnato a trattare in buona fede un compenso per gli editori. La proposta di Google è prevista entro tre mesi dall’inizio dei negoziati. E, in caso di disaccordo, interverrà un tribunale arbitrale ad identificare il giusto compenso per le notizie che Google usa sulle sue piattaforme.
Inoltre, la BigG riapre Google News in Spagna, dopo sette anni di assenza provocati da un contenzioso. Lo ha annunciato Alphabet, la capofila di Google, per inizio del prossimo anno.
Ma per un fronte che si chiude, se ne spalanca un altro. L’attrito è sempre in Europa. dove Facebook sta pensando di eliminare l’accordo economico con i giornali. Potrebbe perfino chiudere i battenti in Europa.
Mark Zuckerberg and team consider shutting down Facebook and Instagram in Europe if Meta can not process Europeans’ data on US servershttps://t.co/3W7mvhqq5a
2022 is really starting to look up!
— Aral Balkan (@aral) February 6, 2022
Il colosso di Menlo Park ha dichiarato alla SEC che potrebbe perfino cessare di fornire i suoi servizi (Facebook e Instagram) in Europa. Meta teme infatti il Privacy Shield che regola la gestione della privacy e dei dati degli utenti nella UE. La piattaforma dice che non può operare senza trasferire, archiviare e gestire i dati dai suoi utenti europei su server con sede negli Stati Uniti. Ma la soluzione consiste nell’aprire server nella UE.
Conclusioni
Come nel 2021 si era invertita la rotta, oggi è di nuovo ancora possibile riconquistare la fiducia dei lettori di notizie. Con un giornalismo, non solo digitale, che valorizzi le competenze e dimostri di essere obiettivo e trasparente.
La strada è in salita, ma le competenze ci sono, l’importante è interrompere subito le cattive pratiche che hanno eroso la fiducia. La ricerca della verità è infatti la via maestra per riportare le persone a volersi informare attingendo a notizie verificate. Invece è più in salita la strada della monetizzazione dell’informazione. In questo campo, occorrerebbe aprire due fronti: uno istituzionale con l’Europa e uno con le Big tech, al fine di rendere il giornalismo sostenibile.
L’Europa può e deve aiutare i giornali, come già oggi la UE sostiene caccia e pesca, sapendo che non c’è democrazia senza buon giornalismo. Il supporto alla digitalizzazione dei giornali affidabili è un modo per combattere le fake news. Queste infatti sono una potente arma di propaganda dei dittatori per cercare di minare e distruggere le nostre democrazie.
Gli editori, infine, possono negoziare con Google e le piattaforme per trovare buoni accordi. L’obiettivo è monetizzate le notizie e rendere sostenibile il giornalismo digitale e non, anche su TikTok. Da questi passaggi è possibile tornare alle ragioni fondanti del giornalismo e riconquistare la fiducia delle persone.