Le parole scritte da Elon Musk ai suoi dipendenti, “tutti quelli che intendono lavorare da remoto devono essere in ufficio per un minimo di 40 ore a settimana, oppure devono lasciare Tesla”, ricordano quelle (mai) pronunciate da Maria Antonietta sulle “brioche ai poveri” ed evocano il medesimo disinteresse del padrone per la vita dei propri sudditi. C’è un ritorno all’autoritarismo, in politica ed in economia.
Ma c’è chi dice no: ingegneri informatici, programmatori geniali, web designer, esperti di intelligenza artificiale, strateghi del marketing, produttori di codici non vogliono tornare alle logiche del passato, al vecchio ufficio. Questi radical chip si chiedono: per quale motivo rinunciare al lavoro da remoto e ritornare ad un passato fatto di case costose, città congestionate e bassa qualità della vita?
C’è un vantaggio per l’impresa misurabile in termini di produttività, qualità dei servizi erogati o valore prodotto che giustifichi questo passo indietro o è solo l’egocentrismo del capo?
Sono persone razionali, fanno valutazioni oculate, hanno facilità di collocazione: non le convinci con le chiacchiere e non le spaventi alzando la voce.
Lo YOLO approach e le contromisure delle aziende
Il Cigno Nero, composto da crisi economica, sanitaria, climatica, geopolitica, in questi anni si è fatto vedere spesso anche alle nostre latitudini. Così, molte persone hanno riconsiderato il proprio set valoriale, il senso da dare al proprio transito terreno, ammainando l’idea che la cifra di una persona sia nel suo riconoscimento economico per un yolo-approach: “You Only Live Once”, ovvero “si vive una volta sola”.
Sembrerebbe una nuova variante del morbo di Baumol, la malattia dei costi, che questa volta, anziché le retribuzioni, riguarderebbe la qualità della vita. L’idea è sempre la stessa: suddividiamo le attività economiche in settori progressivi e non progressivi.
Il primo è caratterizzato da un aumento della produttività che sostiene i salari e i costi restano costanti. Il secondo – stagnante – non riesce ad alimentare le richieste salariali con la produttività così i costi aumentano.
Se anziché sui salari l’attenzione si pone sulla qualità della vita (garantita dal lavoro da remoto), abbiamo altre due ripartizioni: attività telelavorabili e non telelavorabili, con aspettative simili nella forza lavoro ma costi diversi nelle imprese per soddisfarle.
Le imprese iniziano a temere esodi di massa della loro forza lavoro più pregiata e mettono in campo strategie diverse: alcune intendono il lavoro da remoto come un benefit, come la macchina aziendale o le stock option, mentre altri, secondo il più classico dividi et impera, fanno concessioni ai profili nevralgici.
I dati Inapp sullo smart working in Italia
In una recente pubblicazione sul lavoro da remoto basata sull’indagine Inapp Plus 2021 emerge proprio questa eterogeneità per professioni, settori produttivi, dimensione dell’impresa, territori.
Il 30% dei colletti bianchi (lavoratori con istruzione, responsabilità e professionalità elevate) già oggi possono erogare oltre il 70% delle loro attività da remoto, invece, il 70% dei colletti blu hanno lavorato meno del 30% da remoto. L’ibridazione delle mansioni e nuovi processi produttivi consentiranno quote sempre maggiori di tele-lavorabilità.
Uno degli impatti più rilevanti è il versante urbanistico: oggi il 54% della popolazione mondiale vive in aree urbane ma le proiezioni ONU per il 2030 davano un 70%. Dai dati Inapp Plus 2021 emerge che, se il regime di lavoro da remoto fosse ordinario, in Italia, una persona su tre andrebbe volentieri a vivere in un piccolo centro e quasi uno su due si sposterebbe in un luogo più vicino alla natura e a misura d’uomo. Pensate a Parigi, Londra, New York o Roma con qualche milione di cittadini in meno: si produrrebbe una urbanizzazione inversa tutta da governare.
Va detto che il lavoro da remoto non è osteggiato solo da certe imprese, tipicamente dietro i tentativi di restaurazione ci sono i poteri forti: banche, costruttori, fondi di investimento che premono perché l’interesse sul patrimonio immobiliare di pregio delle città rimanga alto. Infatti, il valore degli immobili si trovano nei bilanci delle aziende e il deprezzamento di questi asset strategici comporterebbe l’avvio di una serie di turbolenze che porterebbero a nuovi equilibri (sgraditi a chi difende lo status quo).
Una transizione complessa (sia tecnologico/organizzativa che sociale/urbanistica) non è mai uniforme, pertanto serve tempo affinché si dispieghino per intero gli effetti positivi dell’innovazione. Si pensi all’avvento dell’automobile negli anni ’20 o alla diffusione del personal computer negli anni ’80. Ma abbattere un totem come il binomio “lavoratore-posto di lavoro” su cui gira gran parte della nostra società non sarà semplice né indolore. Servirà un’adeguata elaborazione culturale per trasformarlo in benessere e non in altre disuguaglianze.
Conclusioni
Nel mondo del lavoro, sorprendentemente, si creano senza soluzione di continuità nuove caste un attimo dopo averne abrogate di vecchie (cottimo, precari, a chiamata, gig worker). È come se il lavoro rimanga sempre irrisolto, in perenne disequilibrio, incapace di coniugare completamente le esigenze di flessibilità delle imprese con quelle di stabilità dei lavoratori.
Generalizzando, la trasversalità del piano digitale richiede un profondo aggiornamento delle relazioni tra tutte le componenti del sistema: vanno adeguati i codici, i sistemi di premialità, i costumi sociali… insomma vanno trovati nuovi assetti e ridiscusso il patto sociale.
Leggendo i numeri, su entrambe le sponde dell’Atlantico, la great resignation sembra essere un massiccio job-turnover (passaggi da un impiego ad un altro) per risolvere un po’ di mismatch e trovare migliori equilibri lavorativi e personali. Le comunicazioni obbligatorie registrano un 3% di dimissioni volontarie in Italia.
Questa fuga da posti di lavoro prestigiosi è, dunque, la rivendicazione lavorativa di una élite con un alto potere di contrattazione oppure è la prima crepa in un muro di convenzioni sociali ereditate dal mondo analogico, “la fine di routine secolari”, come notava l’Economist nel 2021.