Osservatorio disinformazione

La guerra nell’era social: caccia al consenso a suon di propaganda, fake news e odio online

Inauguriamo con questo articolo l’Osservatorio su disinformazione, propaganda e odio online: uno spazio in cui verranno analizzati tutti gli strumenti – inediti – derivanti dalla combinazione di media tradizionali, rete e social media

Pubblicato il 04 Apr 2022

Massimo Borgobello

Avvocato a Udine, co-founder dello Studio Legale Associato BCBLaw, PHD e DPO Certificato 11697:2017

fake news

La guerra in Ucraina si sta combattendo su vari fronti. Come in tutte le guerre, la propaganda e la disinformazione fanno parte dell’arsenale delle parti in conflitto, per creare consenso interno e muovere le opinioni pubbliche estere, di Stati alleati e non.

Nell’epoca dei social network, il fenomeno ha preso una portata globale nuova, per la rapidità delle comunicazioni e per la facilità delle stesse.

Guerra in Ucraina: così propaganda e disinformazione online inquinano il dibattito

Non solo: disinformazione e incitamento all’odio si connettono costantemente.

Il “fronte” dei social media

Dopo la presa di posizione di Meta, società che gestisce Facebook e Instagram, che ha “liberalizzato”, in alcuni Stati, i messaggi di incitamento all’odio contro il Presidente della Federazione Russa, Vladimir Putin, è TikTok il social network su cui si è concentrata maggiormente la stampa nei giorni scorsi.

Domenica 20 marzo 2022 Il Corriere della Sera pubblicava i risultati di una ricerca statunitense sulle informazioni false fornite sul social media cinese, evidenziando, tra le altre cose, le 1,7 milioni di visualizzazioni del messaggio in cui il Presidente Putin afferma che in Ucraina avrebbero preso potere i neonazisti.

Il problema evidenziato è che non si avvisa che si tratta di un messaggio di propaganda filorussa, e sarebbe presentato, quindi, come una “verità assoluta” (così Simone Ravizza su Il Corriere della Sera).

Si individuano poi i video della guerra del – o dal – 2014 nel Donbass, in cui si afferma che il conflitto odierno trova le proprie cause negli scontri di 8 anni fa.

Inutile dire che il social cinese TikTok è il più utilizzato dai teenagers perché è nato per postare brevissimi video di balli con sottofondo musicale.

Che negli USA, quindi, non siano entusiasti del fatto che TikTok sia sempre più scaricato ed utilizzato anche per influenzare l’opinione pubblica occidentale, pare ovvietà da non sottolineare oltre.

Anche Telegram, app di messaggistica e condivisione di contenuti, viene sempre più utilizzata e accusata di veicolare notizie non filtrate sulla guerra in Ucraina.

Anche questa app non è propriamente amata nella Silicon Valley, dato che si pone in aperta concorrenza con Whatsapp, di proprietà di Meta (che, ricordiamolo, controlla Facebook e Instagram) ed è di proprietà di un imprenditore – o oligarca – russo.

Perché la Russia non blocca anche Telegram: il suo ruolo nella guerra

La voce Telegram di Wikipedia inizia, infatti, così: “Telegram è un servizio di messaggistica istantanea e broadcasting basato su cloud ed erogato senza fini di lucro dalla società Telegram LLC, una società a responsabilità limitata con sede a Dubai, fondata dall’imprenditore russo Pavel Durov. I client ufficiali di Telegram sono distribuiti come software libero per Android, Linux, iOS, MacOS, Windows. Caratteristiche di Telegram sono la possibilità di scambiare messaggi di testo tra due utenti o tra gruppi fino a 200.000 partecipanti, effettuare chiamate vocali e videochiamate cifrate punto-punto, scambiare messaggi vocali, videomessaggi, fotografie, video, sticker e file di qualsiasi tipo fino a 2 GB. Attraverso i canali è anche possibile la trasmissione in diretta di audio/video e testo verso i membri che si uniscono. È inoltre possibile programmare l’orario di invio di un messaggio audio/testo; impostare un timer per l’autodistruzione dei messaggi che permette l’eliminazione automatica del messaggio una volta visualizzato dal destinatario, così come cancellare messaggi anche per il destinatario, e modificarne il testo dopo l’invio”.

Telegram è un mare magnum di gruppi che sono stati censurati su Facebook e che hanno preferito “migrare” invece di sottostare alle regole – spesso insensate – dell’algoritmo di Mark Zuckerberg.

Su Telegram opera, ormai dal 2014, il giornalista di Byoblu Vittorio Nicola Rangeloni; pubblica video e documenti, anche in lingua originale documentando la guerra civile che imperversa da 8 anni al confine tra Ucraina e Russia.

Chi scrive moltissimo su Facebook, invece, è il notissimo reporter Tony Capuozzo, con posizioni mai preconcette e sempre ponderate.

Così come ha raccontato la guerra nei Balcani, ora commenta, dal suo punto di vista, quella in Ucraina, dando chiare indicazioni su cosa ritiene essere disinformazione, da una parte e dall’altra.

Twitter, per parte sua, è impiegato dal governo ucraino per “spiegare” la guerra d’invasione russa con meme: nient’altro che vignette con brevi commenti o fumetti.

Amnesty International, nel frattempo, ha aperto un sondaggio/studio per verificare se gli utenti percepiscono più o meno odio online rispetto al passato.

Criptovalute per il gas

Dopo il rublo digitale e il progetto del dollaro digitale, si inizia a ventilare l’ipotesi di impiego di Bitcoin per i pagamenti degli asset energetici, con conseguente ed immediato aumento del valore della criptovaluta più nota al mondo.

L’utilizzo dei Bitcoin per questo tipo di transazioni è stato ipotizzato dopo la presa di posizione russa sul pagamento delle forniture energetiche ai Paesi occidentali in rubli.

Ironia delle transazioni economiche: il Bitcoin è la criptovaluta che “consuma” la maggior quantità di energia per funzionare.

Bitcoin al boom, ecco che ruolo giocano nella guerra

I media tradizionali

Il panorama “classico” vede un unico elemento di nota: la posizione della Rai sul professor Alessandro Orsini.

Quest’ultimo, docente di Sociologia del terrorismo internazionale presso l’Università Luiss, è noto per le proprie posizioni filo-russe o, comunque, ritenute “troppo” filo-russe in un panorama mediatico apertamente pro Ucraina.

Il Foglio aveva dato la notizia dei compensi percepiti da Orsini per le “ospitate” alla trasmissione Carta Bianca su Rai 3: due mila euro a puntata.

Da qui la decisione di Viale Mazzini, comunicata con una nota, che ha interrotto la collaborazione.

Guerra nel cybespazio

Mentre si cerca di capire se l’attacco alla rete informatica di Trenitalia è stato orchestrato da hacker russi o meno, e se l’antivirus Kaspersky è affidabile o meno (sempre diffidare della politica del massimo ribasso), la lotta nel cyberspazio è simile a quella in trincea.

Oltre al celeberrimo Anonymous, che ha dichiarato apertamente di aver aggredito siti strategici russi, sarebbero circa 50 i gruppi schierati nel conflitto cibernetico russo-ucraino, con esiti difficilmente valutabili dai non addetti ai lavori.

Quello che colpisce, comunque, è la seraficità con cui si riferisce di gruppi privati o facenti parte di corporation che operano apertamente in un conflitto armato tra Stati.

Microsoft, per esempio, ha comunicato che il suo Threat Intelligence Center (MSTIC) ha rilevato attacchi informatici distruttivi diretti contro l’infrastruttura digitale dell’Ucraina” poche ore prima dell’inizio del conflitto armato il ​​24 febbraio.

Che società private operino come i “famigerati” – ma ora nemmeno più tanto – contractors senza che nessuno, nell’informazione generalista, appaia scandalizzato, è già una notizia.

Media digitali nella guerra, quale potere di “testimonianza”

Conclusioni

Propaganda, disinformazione e linguaggio d’odio parlano la stessa lingua, che viene impiegata in vari scenari.

L’oggetto del contendere è l’opinione pubblica, interna ed estera, delle parti in conflitto e dei rispettivi alleati.

Anche i mercati, volatili ed influenzabili, rientrano nel contesto del conflitto, che si gioca sul piano militare ed economico, secondo l’assunto pericleo riferito da Tucidide.

Nel mezzo le persone, le vittime della guerra in primis.

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