Sta prendendo forma anche in Italia il dibattito sui temi della digitalizzazione e dell’automazione del Paese come strumenti di reale sviluppo economico. Centrali in questo contesto e ai fini della discussione, i temi etici e giuridici e quelli legati alla tutela dei consumatori e alla protezione dei dati personali.La persona e i suoi diritti devono essere, insomma, al centro dello sviluppo digitale.E’ su questi temi che, a partire da quest’articolo di Giuseppe d’Acquisto e uno di Franco Pizzetti, vogliamo promuovere il confronto sulle pagine di Agendadigitale.eu, testata che negli anni si sta distinguendo per un’attenzione ai valori dell’umano all’interno della trasformazione digitale.Ci auguriamo di pubblicare nelle prossime settimane altri contributi di chi, interessato al dibattito, ci contatterà all’indirizzo del direttore alessandro.longo@agendadigitale.eu |
Nella sua Comunicazione su “L’intelligenza artificiale per l’Europa”, la Commissione europea pone l’accento sulla necessità di assicurare un quadro etico e giuridico adeguato e creare un ambiente improntato a fiducia e responsabilità per lo sviluppo e l’utilizzo dell’Intelligenza artificiale.
Sulla scia delle risoluzioni Ue, il dibattito sulle priorità inerenti allo sviluppo dei sistemi basati su IA sta prendendo forma anche in Italia. Tra i temi maggiormente dibattuti, quali il futuro del lavoro, l’equità, la sicurezza, l’inclusione sociale e la trasparenza degli algoritmi.
La persona al centro dello sviluppo tecnologico
Il mio contributo può essere interessante non tanto per la mia personale opinione su questi argomenti quanto per l’osservatorio da cui questi spunti sono formulati, ossia quello della protezione dei dati personali, diritto fondamentale il cui scopo è il mantenimento di uno spazio di libertà per la persona e una sua centralità anche, e a maggior ragione, all’interno di un contesto sociale ed economico fortemente influenzato, e in misura progressiva con il procedere del tempo, dallo sviluppo delle tecnologie digitali.
Se dunque mettiamo al centro la persona, emergono con chiarezza alcune priorità, persino preliminari rispetto alle scelte tecnologiche, su cui occorre una riflessione di lungo termine e, verosimilmente, un radicale cambio di prospettiva rispetto al passato. Le questioni su cui mi soffermerò, con inevitabile sintesi, riguardano il concetto di lavoro digitale, la formazione, l’incentivo della domanda, gli investimenti, la questione nota come “i dati sono il petrolio della nuova economia”, i diritti e le libertà.
Digitalizzare il lavoro
Digitalizzare il lavoro significa inevitabilmente ridurre il numero dei lavori più ripetitivi, a causa dell’innovazione di processo che spingerà verso una loro automazione e verso il trasferimento a macchine o programmi delle mansioni più ripetitive, ma può significare aumentare considerevolmente quelli meno seriali, per via dell’innovazione di prodotto. Se dividiamo per semplicità le fasi lavorative in progettazione, realizzazione, distribuzione, l’introduzione del digitale influenzerà sicuramente, e con ricadute significative sul numero di occupati, la fase della realizzazione. Prima di digitalizzare un processo produttivo occorre dunque preoccuparsi di potenziare le fasi preliminari alla realizzazione, ossia quelle più creative, e anche quelle successive alla realizzazione, legate alla logistica distributiva, alle strategia di vendita, alla qualità del servizio post-vendita, al customer care. Anche la comunicazione e personalizzazione di beni e servizi, in uno scenario caratterizzato da un elevato grado di digitalizzazione, avranno un ruolo fondamentale grazie alla raccolta di dati sulla risposta dei clienti all’offerta e al servizio, in misura crescente mediante l’uso di piattaforme social.
L’introduzione massiva del digitale ci deve inoltre fare riflettere su possibili discontinuità nella relazione lavoratore-datore di lavoro. Le esperienze di maggior successo in ambito digitale (Google, Facebook, Instagram giusto per citarne alcune) ci mostrano una organizzazione della produzione basata pressoché uniformemente su un elevato grado di parcellizzazione e distribuzione del lavoro. Non è azzardato affermare che esse non potrebbero esistere e prosperare se noi utenti non lavorassimo alla creazione dei contenuti e della rete di connessioni tra contenuti necessaria per il loro funzionamento. Dunque, un’ulteriore considerazione da fare è che in un contesto produttivo a forte digitalizzazione il rapporto produttore-cliente non può concludersi con la consegna del prodotto, ma questo momento è solo l’inizio di una relazione più duratura, in cui il soggetto a cui si rivolgono i servizi diventa egli stesso un lavoratore integrato nel processo di post-produzione.
Una delle sfide principali della digitalizzazione sarà l’introduzione di un approccio crowd al lavoro, con il coinvolgimento di una base molto ampia di “lavoratori”, che va ben oltre il ristretto gruppo dei “dipendenti”, reclutabili anche tra i soggetti stessi a cui il prodotto digitale si rivolge, che compiono lavori molto parcellizzati, non necessariamente retribuiti in termini monetari tradizionali ma con forme di incentivo innovative, sotto una orchestrazione centralizzata e fondata su obiettivi molto specifici. Un’altra sarà la capillarità dei punti di contatto tra fornitore e utente, sempre più prossimi al cliente finale: un modello che iniziamo a sperimentare con la logistica distributiva (il modello Amazon), che dovrà estendersi alle fasi di post-produzione (sostituzione, riparazione) e più in generale alla cura della relazione con il cliente, ma anche con il cittadino se il servizio è offerto da una pubblica amministrazione.
Incentivi alla formazione
Secondo le stime dell’OECD[2] nei prossimi 15 anni il 14% dei posti di lavoro tradizionali e seriali sarà sostituito da processi automatizzati, mentre il 30-40% delle mansioni attuali dovrà cambiare radicalmente. Altre previsioni ci dicono che il 65% degli studenti di oggi nel 2025 farà lavori che ancora non esistono[3]. Di certo, in questo scenario, sarà molto più complesso guardare al lavoro e all’istruzione come a dei diritti. Il rischio concreto è quello di scegliere oggi un percorso formativo e non riuscire a mettere in pratica domani competenze a causa dell’enorme volatilità dei mestieri/professioni indotta dal quadro tecnologico. Tutto diventerà enormemente più rischioso[4].
Due sono gli elementi su cui occorre avviare una riflessione:
- il primo, la necessità di sollevare la persona, con interventi di riqualificazione, anche pubblici, e persino assicurativi, dal rischio di insuccesso per una formazione acquisita in passato e non più spendibile;
- il secondo, la necessità di una condivisione di rischio tra datore di lavoro e lavoratore per gestire queste nuove incertezze, con una vera e propria assunzione di responsabilità, in qualche modo vincolante, da parte del datore di lavoro sui percorsi formativi dei lavoratori e sulla loro spendibilità futura nel processo produttivo.
Non considerare questi effetti può produrre nel lungo termine forti disincentivi a formarsi per le nuove generazioni e esacerbare il fenomeno dell’accesso al lavoro in base all’appartenenza a “caste”[5], in particolare per le mansioni apicali ma via via, al procedere dell’automazione, anche per mansioni a minore impatto decisionale, con potenziali forti ricadute in termini di tensioni sociali.
Pianificazione strategica degli investimenti
Le scelte digitali e di automazione diffusa sono caratterizzate, in particolare quelle più efficaci, da costi fissi molto elevati, sia infrastrutturali sia organizzativi. Solo i costi marginali sono molto bassi e tali da rendere conveniente il binomio digitalizzazione-automazione. Perdere questa percezione può condurre a una sottovalutazione della necessità strategica di una pianificazione preliminare molto accurata, e dunque a scelte errate in partenza che determineranno gravi inefficienze nel lungo termine. Questa considerazione è di particolare rilievo in una fase economica recessiva in cui bisogna scegliere verso quali iniziative indirizzare i limitati investimenti possibili. Non bisogna porsi l’obiettivo semplicistico di digitalizzare l’esistente analogico, che in molti casi può voler dire sclerotizzare le inefficienze. Occorre invece essere molto selettivi sulle scelte, individuando alcune aree di intervento prioritarie di digitalizzazione in ragione delle specificità nazionali. Le eccellenze da cui partire non mancano: design, moda, turismo, enogastronomia, arte, meccanica di precisione, distretti industriali.
Sostegno alla domanda di servizi digitali
Per la creazione e il successivo sostegno della domanda di servizi digitali, oltre alla classica opzione dell’intervento pubblico nell’acquisto, nel recente passato si sono rivelate vincenti anche scelte di discontinuità forzata, o phase-off, di tecnologie pronte ad essere sostituite da nuove soluzioni con migliori prestazioni e minori costi operativi (il phase-off della telefonia radiomobile analogica e digitale di seconda generazione, il phase-off della TV analogica).
Oggi questo phase-off può riguardare servizi già resi in digitale e occorre una visione capace di definire con largo anticipo (in un arco decennale, ad esempio) le tecnologie di cui programmare nel tempo la sostituzione e il grado di maturità delle tecnologie con cui rimpiazzarle. In questo esercizio bisogna considerare gli inevitabili aspetti di interoperabilità tecnologica sovranazionale, per non correre il rischio di digitalizzare l’isolamento e di restare tagliati fuori da benefici “effetti rete”.
Società digitale, perché il Gdpr è presidio dei diritti fondamentali
I dati
I dati sono il petrolio della nuova economia. Così si dice. Se guardiamo la realtà dell’impatto dei dati sull’economia, tuttavia, c’è un effetto di scala di cui tenere conto: la quantità di dati è preponderante rispetto alla loro qualità, e la loro disponibilità unita all’incremento della capacità di trattare i dati spinge naturalmente verso il loro uso e riuso, piuttosto che verso la verifica della loro affidabilità o dell’impatto che dal loro uso deriverà sulle nostre vite.
Ciò che occorre tenere ben presente perché l’associazione dati-petrolio funzioni è il valore che può essere generato da dati di elevata qualità e che invece è disperso dalla loro scarsa qualità. Esiste un costo che grava su ciascuno di noi dalla mancata qualità dei dati che vengono impiegati nei processi decisionali da parte di soggetti privati, ma anche delle pubbliche amministrazioni, e che si può tradurre in ritardi, disservizi, inefficienze di varia natura, ma anche, ciò che è più grave, in mancate opportunità, sia a livello individuale sia a livello di sistema. La mancanza di qualità dei dati costituisce un costo sociale e che può incidere su significative quote di prodotto interno lordo[6]. Proseguendo nella metafora, potremmo dire che i dati-petrolio richiedono ancora una complessa fase di raffinamento prima di diventare benzina.
Raffinare dati grezzi per ottenerne di qualità, o creare direttamente dati di qualità, sono opzioni molto costose. Per questo passaggio dati-informazioni-conoscenza occorre il coinvolgimento di un ampio numero di “lavoratori della quantità” (più che della qualità) capaci di costruire una rete semantica che lega dati e significati, estremamente complessa e costosa da realizzare (la più completa ed efficace è quella di Google e siamo noi utenti a realizzarla). Esistono ampi bacini sociali da cui attingere per questo necessario passaggio senza il quale il digitale non potrà dispiegare compiutamente i propri benefici: vi sono fasce di popolazione svantaggiate o meno acculturate (anche di ritorno) a cui possono essere offerte opportunità concrete di riqualificazione; vi sono le fasce dei più giovani che si apprestano a entrare stabilmente nel mondo del lavoro e quelle dei più anziani che si apprestano a lasciarlo per sopraggiunti limiti di età.
Un piano di digitalizzazione di questo tipo deve richiedere il contributo di tutti sotto un’orchestrazione molto specializzata e, soprattutto, finalizzata. Da questo punto di vista, una seria riflessione sul digitale impone anche un ripensamento radicale di categorie consolidate che richiedono nuove definizioni e una nuova veste: il pensionato digitale, lo studente digitale, il NEET digitale, l’operaio digitale. La digitalizzazione, se deve riguardare tutti e non essere un’opzione di nicchia, non può basarsi soltanto sul contributo degli specialisti. Una riflessione si impone sulle mansioni che, per effetto del digitale, ogni categoria sociale potrà svolgere a beneficio della collettività.
Si parla anche di internet delle cose, ma a ben riflettere, il numero di “cose” da portare su internet è ancora elevatissimo: tutta la produzione artistica, i luoghi, gli stessi prodotti industriali sono ancora generalmente disconnessi. In tal senso, il digitale può essere impiegato innanzitutto per l’arricchimento nella nostra esperienza di “fruizione” delle cose. Dall’ esperienza di visitatori di un museo, a quella di consumatori di un bene, dall’esperienza di spettatori televisivi, a quella di utilizzatori di un prodotto tecnologico o di turisti.
Questo passaggio necessita di uno sforzo collettivo che richiede l’interazione di molte competenze a vari livelli e opportunamente orchestrate. Non è possibile concepire iniziative digitali di simili dimensioni senza una adeguata strategia. La finalizzazione “semantica” dei dati (che possiamo chiamare Big Data) è fondamentale, e potrà essere rivolta alla promozione dei luoghi, oppure alla messa in sicurezza degli ambienti di lavoro o domestici, o ancora all’accrescimento culturale della popolazione, giusto per citare alcuni possibili obiettivi. È un’esigenza assolutamente prioritaria individuare la roadmap che un Paese come l’Italia deve darsi per questo passaggio cruciale. Il petrolio deve diventare benzina, ma ha anche bisogno di un motore per produrre valore.
Diritti e libertà
La convivenza nella sfera digitale richiede un nuovo patto sociale tra chi genera i dati e chi li utilizza. Oggi questo patto sociale è iscritto nelle regole che disciplinano la protezione dei dati personali. Così come in passato, e oggi, il cittadino cedeva, e cede, parte della propria autodeterminazione allo Stato (ad esempio il monopolio della forza) in cambio di una convivenza civile, ai giorni nostri, e in futuro, il cittadino digitale cede, e cederà, dati allo Stato e sempre di più a soggetti privati in cambio di un maggiore “benessere”. Trovare l’equilibrio che non trasformi la cessione dei dati in una rinuncia alla libertà (sulle proprie scelte, sul proprio tempo, sul proprio risparmio) è la sfida di questo patto sociale. Il Gdpr offre molti margini di manovra per la ricerca di questo equilibrio, e per una protezione dei dati che sappia coniugare tutele e sviluppo.
Il percorso va guidato con obiettivi comuni di ampio respiro e il dispiegamento di competenze nuove (by design). Alcune direttrici di intervento su un uso dei dati rispettoso dei diritti e delle libertà individuali, anche sull’esempio di esperienze di altri Paesi o delle indicazioni delle istituzioni Europee, riguardano obiettivi di pubblico interesse, quali la riduzione dell’incidenza di specifiche patologie e più in generale una maggiore efficienza del servizio sanitario[7], la riduzione degli incidenti stradali[8], la salvaguardia dell’ambiente, un invecchiamento attivo della popolazione. Altre riguardano una nuova declinazione del tema della sicurezza informatica. Il trasferimento delle nostre vite all’ambito digitale richiede una riflessione sul concetto di sicurezza.
Non è un caso che la sicurezza sia diventata un principio nel Regolamento generale in materia di protezione dei dati personali, senza rispettare il quale nessun trattamento può avere luogo. Ecco dunque che il concetto di cyber security assume un significato più ampio da mero obiettivo di “difesa” (riduzione del numero e dell’impatto degli attacchi informatici), pur importante, a nuovo obiettivo di “safety”.
Diventa in quest’ottica obiettivo di cyber security anche la messa in sicurezza degli ambienti domestici e lavorativi, che determinano ancor oggi un numero elevato di vittime. Queste potrebbero essere assai ridotte in presenza, ad esempio, di oggetti in grado di annunciare lo stato di rischio a cui le persone sono esposte (per usura, per uso in situazioni limite o per incuria). La promozione attraverso piani di incentivazione o rottamazione di oggetti-sensori d’uso comune (caldaie, elettrodomestici, autoveicoli ecc.) che dalla generazione di dati ambientali diventano più sicuri limitando i rischi anche di incolumità fisica a cui ci esponiamo deve essere parte di una strategia di cybersecurity intesa anche come leva di crescita economica.
- Communication from the Commission to the European Parliament, the European Council, the Council, the EuropeanEconomic and Social Committee and the Committee of the Regions, COM(2018) 237 final, Artificial Intelligence for Europe, Brussels, 25 April 2018. The European Commission’s High-Level Expert Group on Artificial Intelligence, Draft Ethics Guidelines for Trustworthy AI, Brussels, 18 December 2018. ↑
- OECD, Transformative technologies and jobs of the future. Background report for the Canadian G7 Innovation Ministers’ Meeting, Montreal, Canada 27-28 March 2018 ↑
- https://enterprise.blob.core.windows.net/whitepapers/futureproof_tomorrows_jobs.pdf ↑
- La questione di un possibile risk based approach alle questioni del lavoro e della formazione è stata posta nel saggio di Jerry Kaplan “Le persone non servono. Lavoro e la ricchezza nell’epoca dell’intelligenza artificiale”, LUISS University Press 2016 ↑
- Ernesto Galli della Loggia, Le élite senza ricambio, https://www.corriere.it/opinioni/18_dicembre_30/elite-senza-ricambio-27d7f932-0c6a-11e9-a68b-18db728c9ce6.shtml ↑
- Thomas C. Redman, Bad Data Costs the U.S. $3 Trillion Per Year, Harvard Business Review, September 2016. ↑
- https://www.ema.europa.eu/en/human-regulatory/marketing-authorisation/clinical-data-publication/technical-anonymisation-group ↑
- https://ec.europa.eu/transport/themes/its/c-its_en ↑