Che negli ultimi cinque anni le aziende italiane si siano attrezzate per garantire la propria presenza online è un dato di fatto, anche se – rispetto alla media europea – c’è ancora un considerevole margine di miglioramento. La criticità più evidente però, che pregiudica la crescita qualitativa dell’approccio digitale nelle PMI in Italia è duplice: ignoranza culturale a livello di impresa da un lato e incapacità di uniformare i codici, soprattutto a livello di performance del digital.
Appena il 66% delle PMI possiede un sito, così come emerso da una ricerca condotta dall’Osservatorio IULM. Ora, che il sito sia responsive, accessibile, usabile, navigabile, intuitivo e perché no, esteticamente accettabile non possiamo pretenderlo nemmeno dai giganti dell’industria e dalle istituzioni, eppure a maggior ragione le PMI dovrebbero prestare davvero attenzione al dettaglio, perché l’utente, oggi, nel suo percorso decisionale d’acquisto, osserva, confronta e ascolta, prima di scegliere un prodotto o un servizio e lo fa all’interno di una propria community.
Sul fronte e-commerce, confortano i dati resi noti dal Netcomm Forum, che attestano un 17% di crescita in più rispetto al 2015, con un andamento positivo soprattutto nei settori che hanno sempre creduto nel commercio elettronico, come abbigliamento (+25%), informatica ed elettronica (+22%), editoria (+16%) e turismo (+11%). Tuttavia, sono solo 40.000 le imprese italiane, che vendono online. Poche, se si considerano le 200.000 presenti in Francia, e pochissime, se si considerano i valori della media europea (800.000).
Il presidio dei canali social ha registrato una crescita significativa negli ultimi tre anni: attualmente, se il 62% delle piccole imprese governa i social media (+12% rispetto al 2013), il 67% delle medie imprese impiega questi canali nella propria strategia di marketing (+14% rispetto al 2013). Facebook rimane il mezzo più battuto e a seguire troviamo YouTube (55%), Twitter (48%), LinkedIn (45%), e Instagram (34%).
Che cosa c’entra tutto ciò con la cultura digitale? I numeri delle statistiche confermamo che il processo di digitalizzazione è ancora in corso e anzi, non sta conoscendo battute d’arresto. Tuttavia, non è il “cosa” della digital transformation ma il “come”, che dovrebbe farci preoccupare.
È ormai radicata e diffusa l’opinione che per ritagliarsi uno spazio in rete ed essere visibili basti poco: un sito realizzato facilmente in pochi minuti, una SEO “leggera”, un Social “leggero”, un e-commerce improvvisato, un blog aggiornato una volta al mese e possibilmente con i commenti disabilitati, perché non si sa mai.
Così come è diventata pervasiva e pericolosa l’idea che “attraverso facebook”, si venda, quando ancora, gli imprenditori a malapena distinguono un profilo personale da una fanpage.
Se da un lato c’è l’urgenza di fare tutto e velocemente, dall’altro c’è la tendenza a voler essere presenti ovunque, su tutti i canali social, senza una strategia, senza un piano editoriale, senza obiettivi, senza strumenti di monitoraggio e analisi, senza aver compreso dove stiano le nicchie di consumatori interessati al brand, senza una conoscenza anche più basilare del marketing tradizionale, quello delle famose 4P (product, price, promotion e placement), che dovrebbe essere alla base di qualsiasi impresa.
La cultura digitale o semplicemente la cultura aziendale di oggi si fonda sul rapporto alla pari tra azienda e cliente – o meglio persona – che si traduce in brand reputation, ossia in reputazione, che il consumatore costruisce attorno al brand. E la percezione positiva o negativa del brand passa anche dalla gestione del customer care sui social, il cosiddetto community management, che spesso viene snobbato e si limita, nella migliore delle ipotesi ad un mero copia-e-incolla di risposte preconfezionate.
Un’auspicabile gestione della community rientra quindi all’interno di un piano di social media policy, in cui l’azienda sa come affrontare una crisi e non si fa cogliere impreparata.
L’impresa che si prepara quindi alla digital trasformation, sa bene che prima di tutto, il vero passo da compiere è quello culturale. Basterebbe un’autoanalisi della PMI sulle proprie capacità, sia a livello di organizzazione, che di competenze e ancora di risorse per definire in maniera ragionata e non abbozzata una strategia di web marketing.
Cultura digitale o più semplicemente cultura è anche la stessa che mette il piccolo o medio imprenditore nelle condizioni di comprendere che non si può calcolare il ROI di una attività digital allo stesso modo in cui si misura il ROI di una qualsiasi altra attività promozionale legata ai media tradizionali, perché la propagazione del messaggio online segue meccanismi che sfuggono spesso al controllo di qualsivoglia mezzo di tracciamento.
Se pensiamo alle performance digitali ad esempio, non sono i “like” ad una fanpage a determinare il successo di un brand. Eppure, vanity number come questo, ancora oggi fanno gongolare alcuni imprenditori. Altri invece potrebbero aver superato l’ansia da prestazione generata dall’allargamento del bacino della fanbase ed essersi concentrati sul tasso di engagement (il rapporto tra fan coinvolti e reach totale di un post sponsorizzato su Facebook) e quindi misurare le performance in base alla percentuale maturata mensilmente. Per non parlare di coloro che potrebbero calcolare diversamente il tasso di engagement, escludendo o includendo altri parametri a proprio piacimento. E così ogni PMI avrà valori difficilmente confrontabili, perché a monte non vi è uniformità in termini di codici.
In breve, la corsa al digital è sicuramente sintomo di crescita economica per l’Italia, eppure, la trasformazione che si chiede alla piccola media impresa prima di essere tecnologica, è culturale: quando gli imprenditori si renderanno conto che comunicare oggi in maniera autoreferenziale è controproducente, allora avranno capito come ci si dovrà adattare al nuovo ecosistema economico e non viceversa.