Si narra che l’imperatore Tiberio facesse mettere a morte un inventore che aveva scoperto il segreto per rendere infrangibile il vetro: come si sarebbero sostentati tutti gli artigiani che lavoravano quella materia?
Nell’età preindustriale due chiavi spiegano il lento passo della tecnologia: da una parte la grande offerta di forza lavoro a basso costo; dall’altra proprio la preoccupazione dei governanti di non permettere l’alterazione di un equilibrio sociale fautore di ordine politico. Tutto cambia alla fine del Settecento quando lo sviluppo degli Stati-nazione imperiali in feroce competizione tra loro getta una luce nuova su innovazioni tecnologiche cui nessuno aveva prestato fino ad allora particolare attenzione. Le tecniche capaci di sostituire la forza lavoro vengono allora percepite come possenti volani per lo sviluppo, costi quel che costi per il prezzo da pagare sociale.
The Technology Trap
No, non è un excursus bensì il punto di partenza del maestoso itinerario tracciato da Carl Benedikt Frey in The Technology Trap. Capital, Labor, and Power in the Age of Automation, Princeton, 2019, il quale tributa tutti gli onori dovuti a una ricostruzione storica di ampio respiro per illuminare i dilemmi del presente. È abbastanza naturale allora che la prima domanda investa la grande rivoluzione industriale dell’Ottocento: quali sono state le sue dinamiche? Non c’è dubbio che questo primo esperimento di sinergia tra tecnologia e modernità ha preteso un pedaggio sociale elevato. La ragione ne è che la tecnologia non incrementava il lavoro ma lo sostituiva, come avevano perfettamente compreso i Luddisti. Non solo, la cosiddetta “Pausa di Engels” determinava l’appropriazione dei profitti da parte del capitale con nessuna ricaduta sull’incremento dei salari che stagnano fino allo svoltare del XIX secolo. La virata in favore dei lavoratori è allora possibile dalla necessità crescente di competenze professionali che rendono via via obsoleto l’uso dei bambini nelle fabbriche, complice anche la legislazione sociale.
Ecco quindi che i salari ricominciano a salire, innescando un processo che si consolida con la seconda grande industrializzazione che marca il Novecento. Non assistiamo in quel contesto a rivolte contro la tecnologia perché la stessa dissemina largamente i suoi benefici, sotto forma di condizioni di vita più alte e della costruzione di una solida classe media. Icone di questa fase sono l’elettricità e la macchina a combustione, tanto quanto lo era stata nella prima rivoluzione industriale il vapore. E’ la prima volta in cui il lavoratore diviene consumatore, sperimentando nel recinto domestico tutti i benefici della tecnologia, la quale viene percepita come un apparato di emancipazione dal bisogno. L’effetto è talmente potente che persino durante la Grande Depressione i lavoratori non avvertono la tecnologia e la meccanizzazione come fonte del loro disagio. In sintesi la tecnologia concorreva al benessere e all’uguaglianza sulle ali della dilatazione costante della classe media e dell’istruzione.
L’avvento dell’automatizzazione
Scenario questo che comincia a cambiare negli anni Ottanta del XX secolo con l’avvento dell’automatizzazione. La fortuna del computer ha assestato un colpo al processo di espansione della classe media e all’aumento dei suoi salari ancorché – come nell’età classica dell’industrializzazione – la produzione sia aumentata. Tanto da spingere Frey a parlare di una nuova manifestazione della “Pausa di Engels”, scandita dall’aumento della produzione e dalla stagnazione dei salari, per tacere della liquidazione delle mansioni dei colletti blu. Le ripercussioni si sono viste anche sul versante della politica dove la polarizzazione rispecchia un vecchio adagio: niente borghesia, niente democrazia. Eppure a divenire bersaglio della protesta è stata la globalizzazione e non la tecnologia, i cui benefici vengono ancora percepiti come superiore agli svantaggi.
Intelligenza artificiale, effetti a medio e lungo termine
Ma veniamo alla dimensione che più ci preoccupa, che è quella del futuro rappresentato dall’Intelligenza artificiale – la terza rivoluzione. Frey non si iscrive da subito al partito dei pessimisti in quanto ritiene che occorra distinguere tra effetti a medio e lungo termine. Se i secondi potrebbero rivelarsi potenzialmente positivi (chi può dirlo?), creando nuove occupazioni in grado di compensare quelle liquidate o marginalizzate, più preoccupanti sono quelli a medio termine, dove si concentrerà la protesta. Ed è qui che l’Autore propone un energico programma pubblico fatto di istruzione, sconti fiscali, voucher di riqualificazione e addirittura modifica della pianificazione urbanistica. Molto americana questa ricetta, va detto, e non del tutto persuasiva nei dettagli: di sicuro non è la parte più convincente del libro, un po’ troppo riecheggiante il “nuovo umanesimo” tanto alla moda. Semmai va registrato il messaggio fondamentale: senza un energico intervento pubblico perequativo nel medio termine si corre il rischio di un nuovo luddismo, allorché nel lungo termine non è dato ancora sapere se l’intelligenza artificiale riserverà le amare sorprese che si attendono i tecno-ottimisti.
In sintesi? Un’opera fondamentale che ha il merito di restituire alla musa della storia la parte che le compete nel mettere in prospettiva mutamenti che rischiano altrimenti di rimanere opachi, in assenza di una bussola adeguata.
Non è un risultato da poco in una congiuntura, che dura almeno dagli anni Novanta, che vede la storia marginalizzata ad ancella di altre scienze sociali e, ovviamente, della onnipresente tecnologia, verso la quale si riprende una vigorosa riscossa.