È stato da tempo appurato che i sistemi di intelligenza artificiale attualmente in uso non forniscono sempre risposte corrette o aderenti ai quesiti posti ai loro modelli di linguaggio (LLM) da parte dei soggetti che se ne avvalgono[1]. E se usati come strumento di ausilio giornalistico in maniera impropria, possono rovinare la reputazione di persone poi costrette a difendersi, con conseguenze morali e legali significative.
Il recente caso di diffamazione che ha coinvolto il conduttore televisivo e radiofonico irlandese David Fanning, il quale conduce il “Dave Fanning Show” sulla stazione radio nazionale irlandese RTÉ 2fm, impresa con cui egli collabora dal 1979, è emblematico di quanto possa incidere sulle vite di ciascuno di noi la diffusione di informazioni errate frutto delle cosiddette “allucinazioni” cui sono soggetti i sistemi di intelligenza artificiale.
L’azione legale avviata da Fanning
L’azione legale avviata da Fanning il 23 ottobre 2023 nei confronti del sito web MSN (Microsoft News) e della società BNN Breaking (BNN)[2], è stata originata dalla pubblicazione di un articolo recante il seguente titolo: “Importante broadcaster irlandese affronta un processo per asseriti abusi sessuali”. L’immagine del conduttore radiofonico della RTÉ, noto per il suo legame professionale con il gruppo degli U2, è stata accostata all’articolo pubblicato da BNN, posizionandola in cima allo stesso. Secondo fonti collegate alla BNN tale marchiano errore risoltosi in un atto diffamatorio deriverebbe dall’uso fatto dalla redazione del giornale di un assistente virtuale – ChatGPT – allo scopo di parafrasare un articolo in precedenza pubblicato da un altro sito web. La notizia oggetto di controversia pubblicata da BNN è stata poi ripresa e diffusa in maniera globale dal sito web di informazione Microsoft’s News Service (MSN).
La denuncia per diffamazione e la richiesta di risarcimento
Seppure il pezzo in questione sia stato rimosso il giorno successivo alla sua pubblicazione, il giornalista diffamato ha convenuto in giudizio di fronte all’High Court di Dublino sia la BNN che la società Microsoft per ottenere il risarcimento del danno derivante dall’attribuzione alla sua persona di atti criminali, implicanti un basso livello di moralità, idonei a determinare una situazione di pericolo per i minori, facendo apparire il conduttore come un pedofilo.
Responsabilità dei fornitori di servizi digitali e IA
Questo caso, tutt’altro che isolato nel panorama giornalistico mondiale, pone crescenti problemi circa l’impiego degli algoritmi di intelligenza artificiale al fine di fornire contenuti informativi, che si presentano talvolta come raffazzonati e confusi, distorti e privi di coerenza per effetto delle operazioni ripetitive che contraddistinguono l’uso dei contenuti elaborati dall’intelligenza artificiale.
Protezione contro la diffamazione: ruolo del Titolo 47, U.S. Code § 230
Negli Stati Uniti, il problema della diffamazione commessa con l’impiego di apparati di IA presenta un primo punto di riferimento nella normativa vigente, segnatamente nel Titolo 47, U.S. code § 230[3] il quale recita: “Nessun fornitore o utente di un servizio informatico interattivo sarà ritenuto responsabile per:
(A) qualsiasi azione intrapresa volontariamente in buona fede per limitare l’accesso o la disponibilità di materiale che il fornitore o l’utente considera osceno, lascivo, indecente, eccessivamente violento, molesto o altrimenti censurabile, indipendentemente dal fatto che tale materiale sia o meno costituzionalmente protetto; o
(B) qualsiasi azione intrapresa per dare accesso o rendere disponibili ai fornitori di contenuti informativi, o ad altri, i mezzi tecnici diretti a limitare l’accesso al materiale descritto al paragrafo (1).”
Legislazione USA su diffamazione e protezione del primo emendamento
A ben guardare, tale disposizione di legge, riferita a fornitori e utenti della rete informatica, è derivata dall’interpretazione evolutiva del “primo emendamento” della Carta Costituzionale degli Stati Uniti d’America[4], norma cardine che garantisce a tutti i cittadini un ampio diritto di esprimere le proprie idee e i propri convincimenti anche al di fuori di talune limitazioni che – ad esempio – la Costituzione italiana pone in talune fattispecie, prima fra tutte quelle che impediscono qualsiasi forma espressiva che possa istigare all’odio razziale o alle discriminazioni tra razze e religioni[5].
Il confronto fra le norme costituzionali italiane e statunitensi avuto riguardo alla libertà di pensiero e, di riflesso, alle fattispecie diffamatorie, indica che negli U.S.A. è lecita l’espressione di contenuti razzisti, discriminatori e spesso, seppure con alcune limitazioni, di frasi ad elevato contenuto denigratorio[6].
Diritto alla reputazione vs libertà di espressione: il dilemma etico-legale
Ci troviamo di fronte a un ordinamento giuridico, quello d’oltreoceano, che punisce il reato di diffamazione, come pure altre forme aberranti di manifestazione del pensiero non quanto al contenuto del messaggio diffuso, ma in relazione alle circostanze e alle modalità con cui il fatto viene attuato.
Come è stato evidenziato dalla giurisprudenza statunitense vi è la tensione a punire le fighting words, nell’accezione del termine attribuitagli dalla sentenza Chaplinsky del lontano 1942 secondo cui il Primo Emendamento della Carta costituzionale non scrimina le “parole di combattimento”, in quanto esse causano un danno intrinseco, ovvero possono provocare un disturbo immediato all’ordine pubblico, traducendosi in una violenta reazione da parte della comunità al loro manifestarsi[7].
A differenza di quanto accade in Italia e nell’Unione Europea, le Corti negli Stati Uniti non applicano in maniera uniforme i precedenti giudiziari di common law derivati dai procedimenti in tema di diffamazione di volta in volta portati di fronte ai tribunali, ma riprendono per certi versi il principio romanistico della “giustizia del caso singolo”[8], valutando caso per caso le diverse fattispecie, soprattutto quando esse abbiano un impatto devastante sulle scelte politiche del governo ovvero incidano sull’ordine costituito[9].
Ciò non impedisce che l’offesa diretta di una persona verso un’altra non sia punita dall’ordinamento giuridico degli Stati Uniti. La condotta diffamatoria che – in base alla giurisprudenza sviluppatasi successivamente al caso Zenger[10] – può essere commessa per iscritto (libel) o a voce (slander), è stata sanzionata penalmente sulla base delle norme introdotte con l’“Alien and Sedition Act” del 1798,il quale puniva chiunque criticasse l’operato del governo degli Stati Uniti[11].
Dopo che numerosi pubblici ufficiali sono stati colpiti dall’applicazione di tali norme, l’adozione dei rimedi penali venne abbandonata dal Congresso e dagli stessi giudici, facendo rientrare la fattispecie della diffamazione nell’alveo delle lesioni personali contro l’individuo, fonte di risarcimento del danno in sede civile.
Precedenti giuridici rilevanti negli USA: da Sullivan a oggi
Dall’anno 1964, con la sentenza della Corte Suprema nel caso “New York Times Co. vs. Sullivan”[12], la giurisprudenza in tema di diffamazione negli U.S.A. ha assunto l’orientamento che abbiamo sopra brevemente evidenziato in applicazione del Primo Emendamento. Infatti, a seguito della pubblicazione di un annuncio a tutta pagina firmato da un gruppo attivisti per i diritti civili che si lamentavano per i maltrattamenti dagli stessi subiti dalla polizia di Montgomery, il commissario della polizia dell’Alabama L.B. Sullivan ha convenuto in causa il giornale newyorkese per diffamazione.
Egli sosteneva che la propria immagine sarebbe stata danneggiata dalla diffusione del comunicato stampa in quanto una parte della descrizione dei fatti riportati nell’annuncio degli attivisti era falsa. Il tribunale di legittimità statunitense nella sua sentenza ha riformato le decisioni favorevoli a Sullivan rese nei primi due gradi del giudizio, stabilendo che la pubblicazione non aveva lo scopo di danneggiare la reputazione di Sullivan ed era comunque protetta dal Primo Emendamento
La Corte Suprema degli Stati Uniti si è pronunciata all’unanimità a favore del giornale, statuendo che il diritto di pubblicare dichiarazioni è protetto dal Primo Emendamento. La stessa Corte ha inoltre affermato che, per dimostrare la diffamazione, un pubblico ufficiale deve dimostrare che ciò che è stato detto contro di lui è stato fatto con “actual malice”, cioè con la consapevolezza che quanto era stato affermato era falso o era stato espresso con sconsiderato disprezzo per la verità.
Da quel momento in avanti i criteri adottati dai giudici americani per stabilire la responsabilità per diffamazione si sono incentrati sulla sussistenza o meno della pubblicazione di affermazioni che risultino lesive della reputazione di una persona e siano al contempo false, non rientrando nelle scriminanti previste dalla legge[13].
Diffamazione via podcast: la causa contro Amazon
Avuto riguardo agli atti di diffamazione commessi sulla rete informatica, vi è un caso recente che è stato promosso nei confronti di Amazon da parte di un ex medico operante presso un ufficio per l’immigrazione della Stato della Georgia, il quale afferma di essere stato falsamente accusato di avere eseguito isterectomie forzate su alcuni detenuti, attraverso la pubblicazione di un podcast il cui contenuto vocale lo accusa di tali fatti.
La diffusione della notizia diffamatoria è avvenuta il 16 aprile 2023 da parte di un network di podcast denominato “Morbid Network”, i cui contenuti sono stati ripresi in base a un accordo di esclusiva che “Amazon” e la società editrice “Wondery” avrebbero stipulato con i suddetti fornitori di contenuti audio. Il medico, tramite il deposito, avvenuto il 5 luglio 2024, di una “Risposta alla richiesta di rigetto” formulata dai convenuti, di fronte alla Corte Distrettuale del Sud della Georgia, ha affermato che le difese delle sue controparti non avrebbero pregio giuridico e sarebbero infondate.
In particolare, secondo il ricorrente non risponderebbe al vero che Amazon e Wondery, al pari degli altri chiamati in causa, possano essere considerati come semplici fornitori di “un servizio informatico interattivo”. Per tale ragione i convenuti non godrebbero dell’esimente prevista dal “Communication Decency Act” (CDA) del 1996, normativa originariamente rivolta a reprimere la diffusione dei contenuti pornografici on-line[14], che ha poi integrato nel suo testo il Titolo 47, U.S. Code § 230, cui abbiamo fatto più volte cenno. Secondo le tesi dell’attore, infatti, il podcast “Seven Deadly Sinners” che lo ha presumibilmente diffamato è “più simile a un’etichetta discografica o a una casa editrice” che a un fornitore di servizi on-line, tanto da doversi escludere la scriminante in caso di atti diffamatori commessi per mezzo di registrazioni vocali diffusi al pubblico con qualsiasi mezzo[15].
Implicazioni dell’esclusione della responsabilità dei fornitori sulle politiche pubbliche e sulla legislazione
È di tutta ovvietà che l’escludere, almeno negli Stati Uniti, la responsabilità dei fornitori di servizi digitali sui contenuti potenzialmente diffamatori pubblicati sulla rete e, di conseguenza, anche di quelli sviluppati dagli apparati di intelligenza artificiale, pone diverse questioni non solo squisitamente legali che vanno affrontate in sede politica internazionale e poi legislativa, per evitare distonie interpretative e veri e propri conflitti di giudicati secondo i principi applicabili dai singoli Stati in tema di diffamazione e di violazioni on-line[16].
Note
[1] Secondo il recente studio condotto dall’Università di Stanford avuto riguardo ai sistemi di intelligenza artificiale collegati alle ricerche in materia giuridica, la percentuale di errore nelle risposte date dai sistemi di IA in tale settore presentava nell’anno 2023 una percentuale di “allucinazioni” comprese in un range fra il 58% e l’82%. Con l’applicazione della tecnologia denominata RAG (Retrieval Augmented Generation) la percentuale di errore diminuisce: qui il testo della ricerca svolta da sei professori dell’Università di Stanford: chrome-extension://efaidnbmnnnibpcajpcglclefindmkaj/https://dho.stanford.edu/wp-content/uploads/Legal_RAG_Hallucinations.pdf
[2] La società risulta non essere più operativa secondo le notizie raccolte qui: https://en.wikipedia.org/wiki/BNN_Breaking
[3] La norma sopra ricordata è al centro di un disegno di legge che mira a affermare la responsabilità civile e penale per gli atti di comunicazione posti in essere per il tramite dei sistemi di IA, proposto dai Senatori Josh Hawley e Richard Blumenthal, cui abbiamo fatto riferimento nel contributo pubblicato in questa pagina web: https://www.hbritalia.it/homepage/2023/06/26/news/intelligenza-artificiale-le-regole-limitano-lo-sviluppo-tecnologico-15591/
[4] Questo il testo in lingua italiana della norma: “Il Congresso non promulgherà leggi per il riconoscimento ufficiale di una religione, o che ne proibiscano la libera professione; o che limitino la libertà di parola o di stampa; ovvero il diritto delle persone di riunirsi pacificamente in assemblea e di rivolgere petizioni al governo per la riparazione delle violazioni dei diritti” All’articolo VI la Costituzione USA prescrive che: “Nessuna prova di fede religiosa potrà essere richiesta come requisito per qualsiasi ufficio o incarico pubblico alle dipendenze degli Stati Uniti”. Il primo dei dieci emendamenti aggiunti alla Costituzione statunitense statuisce che “Il Congresso non potrà promulgare leggi per il riconoscimento ufficiale di una religione, o che ne proibiscano la libera professione”.
[5] L’ultimo comma dell’art. 21 della Costituzione italiana stabilisce che “Sono vietate le pubblicazioni a stampa, gli spettacoli e tutte le altre manifestazioni contrarie al buon costume. La legge stabilisce provvedimenti adeguati a prevenire e a reprimere le violazioni”. In base alla Legge Mancino (Decreto-legge 26 aprile 1993, n. 122, coordinato con la legge di conversione 25 giugno 1993, n. 205, recante: “Misure urgenti in materia di discriminazione razziale, etnica e religiosa“) in Italia i giudici, anche delle Corti superiori, si sono pronunciate in processi che hanno avuto – ed hanno tuttora – ampia risonanza mediatica. Si trovano sul tema anche le seguenti notizie:
[6] Nel caso “Stormfront” di cui alla nota precedente, mentre la magistratura italiana ha disabilitato l’accesso al sito web www.stormfront.it, negli U.S.A. ciò non è avvenuto con l’omologo sito web dei suprematisti bianchi raggiungibile qui: https://www.stormfront.org/forum/
[7] Qui il testo integrale della Sentenza: https://supreme.justia.com/cases/federal/us/315/568/
[8] Si ricorda la differenziazione fra l’esercizio della jurisdictio da parte dei tribunali e quello della judicatio che connotava l’operato dei praetores jure dicundo nell’applicazione del diritto del caso singolo, tema cui fa riferimento nel suo manuale di “Storia del diritto romano” il prof. Alberto Burdese. Le sue ricostruzioni storicistiche vengono richiamate e illustrate in questo testo, a firma del prof. Luigi Garofalo: chrome-extension://efaidnbmnnnibpcajpcglclefindmkaj/https://www.corsi.univr.it/documenti/OccorrenzaIns/matdid/matdid207403.pdf
[9] In questo articolo si era presa in esame la situazione riguardante alcuni casi di hate speech: https://www.agendadigitale.eu/cultura-digitale/hate-speech-troppo-diverse-le-norme-usa-europa-ecco-perche/
Si ricordano fra i casi in cui la libera manifestazione del pensiero è stata repressa la sentenza della Corte Suprema nel caso U.S. vs. O’Brien in cui fu condannato per avere bruciato il suo certificato di registrazione al servizio militare davanti a una folla considerevole per influenzare gli altri ad adottare le sue convinzioni contro la guerra. Qui la sentenza: https://supreme.justia.com/cases/federal/us/391/367/
[10] Il processo del 1735 contro John Peter Zenger costituisce il precedente sulla base del quale si è successivamente sviluppato negli Stati Uniti il principio della libertà di stampa. Un tale Zenger aveva pubblicato sul New York Weekly Journal, diffuso nell’allora colonia britannica di New York, un articolo in cui criticava il governatore della città per aver rimosso dal suo posto il responsabile della giustizia. Zenger fu per questo fatto processato per diffamazione sediziosa e, secondo la legge britannica dell’epoca, poiché la verità dei fatti non costituiva una scriminante dall’accusa di diffamazione avrebbe dovuto essere condannato. L’avvocato di Zenger, Andrew Hamilton, ha invece sostenuto davanti alla giuria che Zenger non avrebbe dovuto essere punito per le dichiarazioni da lui pubblicate criticando il governo, in quanto esse riflettevano la verità. La giuria ha deciso di assolvere Zenger disapplicando il principio di common law inglese sopra ricordato, anche in relazione al fatto chela corte Suprema si era pronunciata in altro processo precedente censurando i comportamenti del governatore.
[11] Qui si trova il suo testo della legge promulgata dal secondo presidente degli U.S.A. John Adams: https://constitutioncenter.org/the-constitution/historic-document-library/detail/the-alien-and-sedition-acts-1798
[12] Il testo integrale della decisione è raggiungibile a questo link: https://supreme.justia.com/cases/federal/us/274/259/
[13] Uno di questi casi è rappresentato dalle dichiarazioni false rese da un testimone in un giudizio, atto che di per se stesso non può essere considerato alla stregua delle norme sulla diffamazione.
[14] Tale componente della normativa è stata dichiarata contraria ai principi del Primo Emendamento il 24 marzo 2003 a seguito della decisione della Corte Suprema Nitke v. Ashcroft – Gonzales qui: https://casetext.com/case/nitke-v-ashcroft
[15] Nella sezione 230 il CDA ha creato un’immunità federale contro qualsiasi azione assoggetti a responsabilità gli Internet Service Providers per le informazioni provenienti da un fornitore di servizi o da un terzo utente del servizio. Quella sezione, originariamente introdotta come “Internet Freedom and Family Empowerment Act” nel 1995, è stata aggiunta al CDA per conciliare le differenze tra le versioni del disegno di legge del Senato e quello della Camera dei Rappresentanti. Sebbene tale disposizione protegga i forum online e gli ISP dalla maggiore parte delle azioni fondate sulle norme federali statunitensi, tale normativa non esonera i fornitori di servizi dalle leggi statali applicabili o da eventuali rivendicazioni basate sulla violazione della privacy nelle comunicazioni o sulla tutela della proprietà intellettuale. Inoltre, fino ad ora, i tribunali non hanno definito chiaramente il limite oltre il quale un blogger, che può essere visto come un editore e, allo stesso tempo, come un utente di informazioni, assuma il ruolo di fornitore di contenuti informativi. La modifica di una pagina web o la pubblicazione di un commento in modo da creare un nuovo significato diffamatorio a un contenuto preesistente può far sì che l’utente perda la protezione prevista ai sensi del § 230. Su questo punto, evidenziato dalla relazione illustrativa del CDA, si devono dirigere le attenzioni dei magistrati nel considerare e nel valutare, di volta in volta, l’esistenza o meno dell’esimente di cui al § 230.
[16] Per un breve esame del tema, si può confrontare questo articolo: https://www.agendadigitale.eu/mercati-digitali/diritto-dautore-e-violazioni-online-commesse-allestero-i-paletti-della-corte-di-cassazione/
Nella nota n. 2 di detto brano si riporta la seguente notazione: “Con la Sent. 964/2011 della Cassazione Penale, I Sezione, in un caso di diffamazione on-line, i giudici hanno statuito che ai fini dell’individuazione del giudice competente “sono inutilizzabili, in quanto di difficilissima se non impossibile individuazione, criteri oggettivi unici, quali ad esempio quello di prima pubblicazione, di immissione della notizia nella rete, di accesso del primo visitatore” e che “non è neppure utilizzabile quello del luogo in cui è situato il server (che può trovarsi in qualsiasi parte del mondo), in cui il provider alloca la notizia“. Per tali ragioni, ha concluso la Suprema Corte, “ne consegue che non possono trovare applicazione né la regola stabilita dall’art. 8 del c.p.p., n quella fissata dall’art. 9 comma 1 del c.p.p.” ma bisogna “fare ricorso ai criteri suppletivi fissati dal secondo comma del predetto art. 9 c.p.p., ossia al luogo di domicilio dell’imputato”.