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La ricerca di lavoro è diventata digitale? Sfatiamo qualche mito

L’uso degli strumenti digitali introduce una forte disintermediazione nella ricerca di lavoro. In altre parole, è un’ulteriore dose di informalità nel mercato che va governata (e contrastata) per evitare che si riduca ancora la quantità di posizioni lavorative contendibili. I dati di una ricerca Inapp chiariscono il quadro

Pubblicato il 25 Lug 2022

Emiliano Mandrone

Primo ricercatore Inapp

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Oggi, sempre più spesso le persone trovano lavoro attraverso internet, i social, i blog, le bacheche digitali, le app o siti specializzati. Possiamo tuttavia affermare che questa percezione è errata.

Immaginate se avessimo chiesto trent’anni fa: “lei ha trovato lavoro grazie al telefono?”. Internet, in larga parte, è uno strumento di comunicazione e, solo raramente, un canale di intermediazione.

La ricerca di lavoro è, ormai, una attività senza soluzione di continuità per questo cambiare lavoro, cercare lavoro, ricollocarsi, orientarsi e formarsi sono attività continuative. Si pensi al fenomeno delle grandi dimissioni e ai radical chip.

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Affinché il processo sia fluido e l’allocazione efficiente è necessario che la fase di ricerca e di abbinamento siano rapide, soddisfacenti e coerenti. Il processo di ricerca è molto complesso da analizzare, non a caso il premio Nobel per l’Economia Pissarides parlava di “looking in the black box”.

Digitalizzazione degli strumenti di ricerca del lavoro: la ricerca Inapp Plus 2021

Grazie all’indagine Inapp Plus 2021, vediamo – nell’infografica curata da Valeria Cioccolo, qui sotto – attraverso quale canale di ricerca i rispondenti abbiano ottenuto la loro attuale occupazione, limitandoci alle collocazioni avvenute dopo il 2011 per rendere la lettura omogenea.

Emerge, infatti, come il ricorso ai canali informali sia ampio, sistematico e diffuso. Il 56% degli italiani, pari a 4,7 milioni di persone, ha trovato una occupazione negli ultimi 10 anni fuori dal mercato del lavoro palese: parliamo,  complessivamente, di 10 milioni di persone (Bergamante, Mandrone, Marocco, 2022).

Il canale che cresciuto maggiormente è l’autocandidatura, passato dal 13% al 18%, grazie al ruolo crescente dei social. Invece, le app o i siti di ricerca di lavoro esclusivamente digitali intermediano direttamente solo il 2%.

I dati mostrano una ampia e generalizzata digitalizzazione degli strumenti di ricerca: si è passati dal 25% degli occupati che nel 2000 dichiaravano di aver fatto ricorso a Internet (web, mail, app, social) durante la fase di ricerca di lavoro, al 50% del 2010, fino al 75% del 2021 (80% per chi ha più del diploma e 50% per chi ha le medie inferiori). L’utilizzo degli strumenti digitali introduce una forte disintermediazione, in altre parole è una ulteriore dose di informalità nel mercato che va governata (e contrastata) per evitare che si riduca ulteriormente la quantità di posizioni lavorative contendibili (il cosiddetto mercato del lavoro palese).

La modalità di ricerca determina, almeno inizialmente, la retribuzione e il tipo di contratto ma, ovviamente ogni canale ha tempi di risposta, costo e complessità diversa. Ogni persona attua una strategia di ricerca specifica, in base alle sue caratteristiche personali, all’ambito di riferimento e ai suoi vincoli personali.

La dimensione digitale nella ricerca di lavoro

Internet pervade tutte le dimensioni della nostra vita, per cui il digitale è una dimensione ulteriore di ogni fenomeno analogico, ricerca di lavoro compresa. La tecnologia ha prodotto una diffusione degli strumenti di comunicazione e una convergenza tra device tale che anche la “burocrazia del lavoro” deve tenerne conto. Infatti, l’Organizzazione internazionale del lavoro e la Commissione Europea suggeriscono da diversi anni di promuovere una strategia digitale delle istituzioni e dei servizi per il lavoro.

È esperienza comune che grazie ai social, ai motori di ricerca o ai blog si può trovare ogni cosa e chiunque con pochi facili passaggi. Come mai per il lavoro è così difficile far incontrare la domanda con l’offerta? L’informalità regna nel nostro paese e ciò sottrae oltre la metà di opportunità dal mercato. È come se su Google la metà dei siti scomparisse o se su Amazon la metà dei prodotti non fosse visibile! Come mai davanti a questa evidente perdita di opportunità non ci sono rimostranze? Siamo tutti contrari all’ereditarietà in politica, troviamo inammissibile la successione dinastica; eppure, la trasmissione intergenerazionale della ricchezza, del lavoro e delle possibilità è fortissima e diffusa.

Nei college britannici e statunitensi si sottolinea molto il valore del network che si ottiene frequentando quell’ambiente. Sono relazioni informali che torneranno utili in futuro, più di molte nozioni lì apprese. Questa visione conservatrice, tuttavia, produce conseguenze per il sistema estremamente gravi: limita la contendibilità delle opportunità; impoverisce il capitale sociale; ostacola le pari opportunità; inibisce la capacità di selezione del mercato; svilisce il merito, l’istruzione e la professionalità; produce perdite di produttività, efficienza e qualità; frena la mobilità sociale; alimenta la fuga dei cervelli e tensioni sociali.

Conclusioni

La tecnologia continua a ridurre i gradi di separazione; eppure, abbiamo grandi difficoltà di comprensione a livello personale, sociale, politico, lavorativo. Michelangelo Antonioni – alla fine degli anni ’60, durante un altro boom tecnologico (telefono, lavatrice, automobile) – provò a far capire come l’incomunicabilità non è l’assenza di connessione, anzi. Il comunicare attiene alla differenza tra sentire (indistintamente) e ascoltare (comprendere).

Anche Umberto Eco indugiò a lungo su come sia difficile trovare una interpretazione comune dei segni, dei messaggi, delle immagini portando l’indeterminazione della fisica quantistica nella linguistica. Il digitale è diventato un formidabile moltiplicatore di rumore (traduzioni infedeli, semplificazioni, enfasi gratuite). Dunque, comunicare è una condizione necessaria, ma non sufficiente, per intendersi veramente.

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