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La rivoluzione organizzativa della pubblica amministrazione: perché serve, come farla

Alla PA non basta il digitale, serve una rivoluzione organizzativa. Occorre prendere decisioni, mobilitare il personale, rimettere in discussione ruoli e responsabilità attuali per disegnare quelli dei prossimi trenta anni, far crollare castelli di potere, rivedere interessi esterni e clientele interne. Ecco cosa cambiare

Pubblicato il 27 Set 2021

Paolino Madotto

manager esperto di innovazione, blogger e autore del podcast Radio Innovazione

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La PA deve ripensarsi radicalmente, è necessario che si costruisca un modo totalmente nuovo di organizzarsi e che questo sia un processo condiviso ma non sia guidato da interessi particolari. È necessario focalizzare cosa produce la PA, a cosa deve servire, a chi risponde, in che modo possiamo misurarla e come possiamo immaginare una nuova PA utilizzando a pieno la tecnologia.

Più che una rivoluzione digitale, insomma, alla PA serve una rivoluzione organizzativa.

Da quando è partita l’informatizzazione della PA (primi anni ‘90, ormai 30 anni) si è infatti continuato a mettere tecnologia senza cambiare l’organizzazione e questo non pare abbia portato finora risultati.

Un po’ come se dopo l’invenzione della lampadina le avessimo tenute accese di giorno e lasciate spente la notte. E invece la tecnologia ci ha permesso di vivere in orari impensati fino a poco tempo fa, di “fare le ore piccole”, di trasformare la notte come luogo di produzione e svago. Prima dell’illuminazione elettrica la notte era solo per “i pochi di buono”.

Digitale e PA, come il vapore nell’antica Gracia

La tecnologia è un potente abilitatore di cambiamento, è ciò che rende possibile qualcosa che altrimenti non lo era. La tecnologia comincia ad essere utilizzata quando la società spinge verso il cambiamento, quando l’organizzazione delle attività impone di immaginare nuovi modi di operare.

La macchina a vapore non era sconosciuta come tecnologia dagli antichi greci, era utilizzata qualche volta per aprire le porte dei tempi: si accendevano dei bracieri che riscaldavano dei serbatoi di acqua e una volta creatosi il vapore, attraverso degli ingranaggi, si potevano aprire le porte. La società non ne aveva bisogno, aveva il lavoro degli schiavi e il sistema politico e imprenditoriale non aveva alcuna idea di cosa farsene di una tecnologia che trasformava il modo di lavorare. È solo con la rivoluzione industriale che esplode il motore a vapore, serviva energia per automatizzare in parte la produzione, ovviare alla mancanza della manodopera e, soprattutto, per far viaggiare veloci le merci, perché la manodopera aveva cominciato a costare di più perché scarsa. Certo non è che i greci o i romani fossero in grado di costruire treni (altrimenti l’avrebbero fatto) ma nemmeno erano particolarmente interessati poiché la loro società andava bene così com’era.

Tornando alla PA vediamo come forse è ormai l’unico settore a non aver cambiato molto nel suo impianto organizzativo. Abbiamo portali dove è possibile entrare con la CIE e avviare una pratica ma quasi sempre quella pratica si fa riempendo un modulo e facendolo lavorare ad un impiegato, con la stessa modalità e lo stesso processo di fare di prima. Perfino la risposta post pandemica della PA italiana (anche se non siamo ancora al post) è nella direzione della conservazione.

Dal 30 settembre la PA italiana vedrà tornare in ufficio tutti i dipendenti creando inquinamento, stress inutile, orari di pendolarismo che si sommano a quelli di lavoro, trasporti pubblici intasati ecc. come se nulla fosse accaduto. Questo mentre tutte le organizzazioni che erogano servizi (pubbliche e private) andranno verso il lavoro ibrido e il ridisegno degli stessi luoghi di lavoro e di vita mettendoci nei prossimi decenni di fronte ad una rivoluzione paragonabile alla urbanizzazione delle città.

Abbattere i silos che immobilizzano la PA

È non è solo un problema di processi ma di organizzazione, i processi sono il modo in cui fai le cose e dipendono da come sei organizzato per farle. La PA continua ad essere organizzata in modo gerarchico e conservativo, mai negli ultimi 30 anni si è immaginato un altro modello organizzativo anche se le tecnologie abilitano incredibili opportunità di cambiare.

Ogni dipendente parla con le persone del suo ufficio, risponde al suo capo ufficio, che risponde al suo capo struttura e così via fino al capo dipartimento. Ogni unità gerarchica ha una sua organizzazione, suoi processi, sue regole interne staccate da tutto il resto. Ogni comunicazione tra uffici passa per le linee gerarchiche e ogni “capo” di qualche ufficio è colui che in modo esclusivo fa da interfaccia con la gerarchia che lo sovrasta. Tutto bene? No per niente, se un impiegato vuole dare un contributo ai processi deve anzitutto passare per il suo responsabile che non è detto che ne colga o sia disponibile a coglierne opportunità di miglioramento.

Se il responsabile si è fatto un pregiudizio su un suo dipendente quest’ultimo non ha modo di uscire dal proprio ufficio se non per via traumatica. Il risultato è che nessuno mette novità nel sistema, cambia i processi che il suo capo ha messo in piedi anni fa e, magari, gli hanno consentito di far carriera, si assume rischi di proporre o decidere. I sistemi di valutazione sono in mano ai livelli gerarchici e poche volte esistono criteri oggettivi di misura, vengono così premiati i più allineati al referente gerarchico, gli “yes man”. E con gli “yes man” è più facile perdere guerre che cambiare in meglio le cose.

La PA è fatta da tanti “silos” entro i quali le varie strutture gerarchiche vivono in isolamento, fanno il loro pezzo di lavoro nella “catena” tra la domanda effettuata del cittadino e l’output atteso e sono misurati solo sul proprio pezzo. E non esiste catena di attività che possa funzionare bene se ogni anello fa il proprio dovere senza aver una visione di come sta funzionando l’insieme del processo ed essere tutti responsabilizzati sul risultato generale.

Cambiare l’organizzazione per cambiare davvero la PA

L’urgenza di cambiare l’organizzazione è anche data dal fatto che stanno cambiando le persone che lavorano nella PA. 30 anni fa l’incidenza di laureati nella PA era decisamente più bassa di ora, i responsabili erano anche le persone più preparate in grado di dividere il lavoro e assegnarlo in modo che fosse fattibile per chiunque. Negli anni abbiamo aumentato il numero di laureati che sono presenti nella PA, non di rado anche con master. Queste persone non solo sono in grado di fare il lavoro dell’impiegato aumentando la produttività ma sono in grado di immaginare nuovi modi di fare task, hanno competenze che gli consentono di avere una visione di insieme dei processi. Se non “liberiamo” queste energie dalla organizzazione ottocentesca della PA non avremo fatto nessuna rivoluzione digitale, al limite avremmo “digitalizzato” l’esistente.

In nessun settore dove è stata fatta una rivoluzione digitale l’organizzazione è rimasta la stessa di prima, nella PA nessuno l’ha mai toccata.

Se pensiamo alle banche ci troviamo di fronte una profonda ristrutturazione impensabile fino a qualche decennio fa, l’intero settore ha dovuto sbattere contro la necessità di ripensare le attività ed è noto l’approccio conservativo del settore. Nel settore bancario sono stati ripensati in modo drastico i processi interni, l’organizzazione delle agenzie e oggi il fintech sta portando ancora nuove trasformazioni. Una ristrutturazione tardiva quanto dolorosa ma se ben fatta porterà i suoi frutti.

Il caos che destabilizza i cittadini

La necessità della rivoluzione organizzativa nella PA si incontra ancora di più quando ci si trova di fronte strutture con sedi sul territorio. Lì non è raro trovare uffici della stessa amministrazione organizzati con regole e parametri uno diverso dall’altro. Vengono impartite alcune indicazioni centrali ma spesso il resto è demandato al capo della struttura territoriale.

E così gli uffici delle amministrazioni centrali, le scuole, i comuni e così via funzionano in modo diverso tra loro anche se devono erogare gli stessi servizi.

Il cittadino si trova di fronte a modalità diverse a seconda dell’ufficio in cui va a chiedere un servizio, ogni scuola ad esempio è uno stato indipendente non solo dal punto di vista dell’insegnamento (dove comunque ci sono programmi ministeriali) ma soprattutto nella gestione operativa (il tutto aggravato dalla attuale formulazione del Titolo V della Costituzione). E così i cittadini cercano di trovare la scuola o l’ufficio organizzati meglio. E invece anche qui la tecnologia ci abilita a pensare organizzazioni dove le strutture periferiche hanno processi simili, la migliore organizzazione che funziona in un ufficio può essere facilmente digitalizzata e applicata a tutti gli altri. Processi uguali, orari uguali, metodi di misurazione dei risultati uguali, non si perde tempo ad organizzare in mille modi diversi ciò che dovrebbe dare lo stesso risultato ma ci si concentra sul risultato.

La ristrutturazione nel settore privato che la PA dovrebbe copiare

Nei primi anni ’90 nel management si è fatto largo il business process reengineering, sull’onda dei mancati risultati di aumento della produttività della tecnologia riscontrati negli ani ’70 e ’80 (il cosiddetto “Paradosso della produttività”[1]) nelle aziende private internazionali si è fatta largo l’esigenza di ripensare radicalmente tutto, di semplificare i processi, trasformare le modalità di lavoro, cambiare le catene gerarchiche e i loro legami per utilizzare a pieno le tecnologie.

Fino a circa metà degli anni 2000 sono stati anni di grandi ristrutturazioni, non sempre guidate dal buon senso ma che hanno portato a trasformare il lavoro nelle organizzazioni che le hanno fatte. Oggi nelle aziende di grandi dimensioni dove questa rivoluzione organizzativa è avvenuta si lavora in modo totalmente diverso dal passato, molto è stato digitalizzato e questo ha permesso di fornire spesso servizi migliori agli utenti nonché notevoli risparmi di costo.

Le aziende che non hanno cambiato il loro modo di essere organizzati non esistono più, per quanto grandi e potenti fossero.

Oggi come clienti siamo sempre più abituati ad avere servizi tagliati sulle nostre esigenze, tempestivi, con una componente sempre più importante di tecnologia. Le “Big Tech” hanno ridisegnato le modalità organizzative delle organizzazioni ancora una volta. La componente tecnologica dell’organizzazione è diventata sempre più elevata, i task ripetitivi sono spariti dai compiti delle persone e vengono effettuati da procedure automatizzate, i processi sono standardizzati in modo da poter coprire volumi più alti di richieste con maggiore qualità e minor tempo e costo.

Siamo tutti abituati a comprare su Amazon, ciò che fa di questa azienda una esperienza piacevole rispetto ad altre è la sua attenzione al cliente, la standardizzazione dei processi, un modello organizzativo sistematico, l’attenzione ai particolari. Sappiamo che dietro a questo modello c’è anche un modo di lavorare che è insostenibile per i lavoratori e rischia di essere “tossico” per le filiere vicino ad Amazon ma l’alternativa non è il vecchio modo di fare dei corrieri che non hanno date certe di arrivo, perdono pacchi, negozi dove per fare un reso bisogna chiamare la forza pubblica o un avvocato.

Le domande da cui partire per ripensare la PA

Forse scopriremo che avremo bisogno di una app in meno, di meno cloud, di un portale in meno e invece di processi automatizzati, di sistemi di monitoraggio per sapere dove si è fermata una pratica, di meno gerarchia e burocrazia, di saper cogliere le buone pratiche di alcune amministrazioni e trasformarle in pratiche standard, di procedure di automazione di task semplici per coinvolgere sempre più persone su task dove serve più capacità, conoscenza, creatività. Utilizzare a pieno le nuove competenze che sono entrate e stanno entrando nella PA.

Esistono modelli organizzativi che spingerebbero la PA a trasformarsi, abilitati dalla tecnologia, in grado di lasciar fiorire nuovi modelli e modi di fare in un quadro organizzato. Bisognerebbe partire dalle domande di fondo, come accennavo prima. Cosa è la PA, cosa produce, a cosa serve, a chi risponde… Da queste domande emerge il come, quali sono gli interessi con maggiore priorità, come far lavorare il personale bene per produrre i servizi ai cittadini e come far in modo che i cittadini abbiano i servizi che desiderano andando incontro alle loro aspettative. Da questo è possibile pensare quali siano i servizi, gli indicatori del loro buon funzionamento e a seguire ridisegnare i processi utilizzando la tecnologia digitale.

Cosa deve cambiare

Questo comporterà un sistema gerarchico rivisto, più efficace e meno cerimonioso, catene corte, comunicazioni efficienti, sistemi di monitoraggio in grado di intervenire in tempo reale sui ritardi o gli errori, maggiore responsabilizzazione in tutti gli anelli della catena, allineare i salari a quelli dei settori dei servizi più complessi. Per fare questo ci sarà l’Intelligenza Artificiale, le app, il web, il cloud e quant’altro di tecnologico abbiamo messo nel PNRR e negli ormai ventennali piani di digitalizzazione che partono con grandi proclami ma non cambiano l’esperienza quotidiana dei cittadini e di chi usufruisce dei servizi della PA.

Per fare questo non basta assumere più tecnici informatici nella PA (e lo dico da chi lavora nell’informatica da più di trenta anni ormai) ma è necessario che queste competenze tecnologiche siano guidate da competenze organizzative, da persone in grado di mettere insieme sia la conoscenza approfondita delle dinamiche organizzative che le tecnologie, che quelle economiche e di avere una visione integrata e globale. In questo senso è necessario che si formino profili nuovi nelle università, si portino dentro persone di esperienza ma soprattutto attraverso il reskilling del personale esistente.

La PA produce servizi per i cittadini e la sua organizzazione deve essere incentrata sui servizi, ogni cosa deve essere concentrata sui servizi: dal modo di contabilizzare i costi, all’organizzazione, agli organigrammi, alle tecnologie. La rivoluzione organizzativa è una sfida da far tremare le vene e i polsi che richiede di prendere decisioni, di studiare ciò che accade, di mobilitare il personale, di rimettere in discussione ruoli e responsabilità attuali per disegnare quelli dei prossimi trenta anni, di far crollare castelli di potere costruiti nei decenni, di rivedere interessi esterni e clientele interne. Senza almeno cominciare questa rivoluzione avremo informatizzato un altro po’ ma non avremo cambiato le cose, è sempre il momento buono per cominciare.

Note

  1. Nel 1987 Robert Solow del MIT, in un articolo intitolato “il paradosso della produttività”, nota provocatoriamente che “si può vedere l’era dei computer dappertutto, tranne che nelle statistiche di produttività” https://en.wikipedia.org/wiki/Productivity_paradox

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