La sempre maggiore diffusione dei robot, nella vita quotidiana di molte persone, ha fatto sì che la filosofia abbia iniziato a interrogarsi sul rapporto umano-macchina, cercando per esempio di cogliere le sfide etiche che questo tipo di interazione comporta. Non tanto seguendo l’idea, un po’ fantastica, per cui i robot avrebbero essi stessi dei diritti[1] e dovrebbero dunque essere tutelati – in questo cogliamo una tendenza fortemente antropomorfica, che per quanto possa essere intesa come connaturata all’umano, non per questo è teoreticamente fondata – quanto piuttosto per ciò che riguarda i diritti degli umani che interagiscono con i robot, per esempio – solitamente è proprio su questo genere di robot che si concentrano le attenzioni degli studiosi – in qualità di oggetto delle loro cure.
L’antropomorfismo, però, non deve essere di per sé sottovalutato. Infatti, alcuni studiosi, prima fra tutti Sherry Turkle (2011), professoressa al MIT e studiosa di tecnologie di formazione psicoanalitica, ha mostrato come molto spesso gli esseri umani tendano a trattare i robot come se fossero umani, essendo disposti a intrattenere con loro delle vere e proprie relazioni di amicizia o di amore – un po’ come ci ricordano alcuni film ormai classici, per esempio L’uomo bicentenario o Lei (Her) – o anche solo simili a quelle che intratteniamo con gli animali domestici. La preoccupazione di questi studiosi allora è piuttosto l’appiattimento delle relazioni sociali su quelle funzionali, vale a dire il rischio di intrattenere relazioni solo finché queste risultano in qualche modo utili, venendo a far coincidere l’utilità stessa con la socialità.
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Si tratta, quindi, per la filosofia, di porsi alcune domande circa i cosiddetti «robot sociali» – domande che, oltre a essere etiche, sono anche concettuali: cosa vuol dire la parola socialità in un mondo sempre più popolato dai social network, con la prospettiva di una vecchiaia in cui saremo accompagnati non più da altri umani ma da robot? Ha ancora senso parlare di socialità? Questo concetto deve essere ampliato o deve rimanere connesso a interazioni tra esseri viventi? È un concetto destinato a una continua evoluzione, come lo è quello di robot, che, secondo una nota definizione, è un «moving target», tale per cui deve essere sempre reinventato (Dautenhahn, 2014)? O tale evoluzione o ampliamento rischiano di inficiarne la pregnanza? I criteri che ci permettono di attribuire socialità sono o non sono gli stessi che ci permettono di attribuire a un individuo o a un gruppo responsabilità? Domande come queste permettono di affrontare da più punti di vista questioni essenziali connesse alla tecnologia che, sebbene apparentemente estranee al modo di pensare di chi usufruisce di queste stesse tecnologie, possono portare a una problematizzazione e dunque a una riflessione a più ampio spettro su tematiche che sempre più ci interessano da vicino, in qualità di cittadini di un mondo digitale.
Cosa è sociale: una breve storia concettuale
Quello di socialità è di per sé un concetto molto complesso, sia perché ha alle spalle una lunghissima storia – si pensi alla definizione dell’uomo come politikòn zôon (animale politico, vale a dire per l’appunto sociale, non solitario, che per natura si riunisce in comunità) già in Aristotele (Politica, I, 2, 1253a) – sia perché può essere inteso in modi tra loro molto differenti, a seconda di ciò a cui lo si contrappone. Per quanto riguarda il primo versante, a occuparsi di socialità non è stata solo la filosofia antica. Tutta la filosofia moderna, invece, in particolare per quanto concerne la filosofia politica, ha affrontato la questione dal punto di vista del contratto sociale, ricostruendo una storia – per quanto volutamente non realistica, bensì necessaria per una comprensione concettuale – dell’ingresso dell’umano nella società.
Si è inaugurato, così, un filone contrapposto a quello aristotelico, per cui la socievolezza arriva in un secondo momento, non è connaturata all’umano, ma dipende dal suo abbandono dello stato di natura – sia che questo sia interpretato come un momento felice, rispetto al quale, si è avuto un lento decadimento sia che, al contrario, venga inteso come una condizione nefasta in cui la vita è molto breve e grama.
Sul secondo versante, invece, sociale può contrapporsi a numerosi altri aggettivi, come naturale, mente-indipendente, psicologico, individuale, e a seconda della diade in cui lo si inserisce acquisisce caratteristiche differenti. Così, per esempio, nel primo caso sembrerebbe che sia sociale tutto ciò che è costruito dagli esseri umani, come sinonimo di artificiale, mentre da un altro punto di vista potremmo considerare la socialità, come fa Aristotele, come qualcosa di naturalissimo – ad esempio, ne sono provvisti anche animali non umani, perlomeno quelli che vivono e agiscono in gruppo. Come opposto di psicologico, invece, mira a definire tutto ciò che non è riconducibile alla psiche dell’individuo, ma che, per l’appunto, attiene alla società o alla collettività. Di qui, la contrapposizione, più specificatamente metodologica, con quanto è individuale, con una lunga storia a sé stante circa la questione su quale dei due aspetti – individuale o sociale – riesca meglio a spiegare i fenomeni sociali che ci circondano (Udhen, 2001). Un ulteriore elemento che si può prendere in considerazione è la correlazione della filosofia con la biologia: definire oggi il concetto di sociale può voler dire andare a vedere cosa ci dice della socialità dell’umano la sociobiologia (per es. Richerson, Boyd 2004) o, più in generale, quali radici biologiche, quale storia evolutiva è alla base delle capacità di interazione sociale proprie dell’umano.
In generale, tuttavia, possiamo dire di avere una intuizione di che cosa voglia dire sociale: le intuizioni che provengono dal nostro senso comune ci permettono di capire quando siamo di fronte a un fenomeno sociale. Così, con una definizione molto generale, possiamo dire che è sociale ciò che ha a che fare con il nostro stare insieme, nei diversi modi in cui ciò può essere declinato. Una importante filosofa britannica che si è a lungo interrogata sulla questione, Margaret Gilbert, per esempio, ha affermato: «un fenomeno è sociale se e solo se implica che una persona sia connessa mentalmente o in un qualche modo causale con una o più persone» (Gilbert, 1997)[2]. Si tratta, evidentemente, di una definizione semplice e intuitiva, non per questo però banale o priva di riferimenti teorici. O, ancora, per venire a un filosofo a noi più vicino, Maurizio Ferraris (2009) definisce sociali quegli oggetti che per la loro esistenza richiedono almeno due individui o, aggiunge lui, un individuo e una macchina delegata – nella misura in cui, in questo caso, sociale viene a contrapporsi a privato: una promessa che facciamo a noi stessi è privata, una promessa che mettiamo per iscritto davanti a un terzo o anche solo che verbalizziamo al suo destinatario non è più privata, ma diventa per l’appunto un oggetto sociale. Sociali, infatti, possono essere i fenomeni, gli oggetti, gli atteggiamenti o le relazioni. Nonostante queste diverse possibili applicazioni, però, è necessario trovare una definizione che possa valere almeno nella maggior parte di questi contesti e il senso comune sembra suggerirci che tutte le definizioni sopraelencate sono vere: la socialità implica una qualche forma di relazione. Cosa succede, però, se il soggetto di questo stare insieme, di questo relazionarsi non è più costituito da due amici che fanno una passeggiata, secondo il classico esempio di Gilbert (1989), ma da un anziano che passeggia accompagnato da un robot?
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Sociale e digitale
Le difficoltà appena viste nello stabilire univocamente il significato di sociale rendono naturalmente ancora più problematica la sua definizione quando si passa dal rapporto umano-umano a quello umano-macchina. Già Ferraris (2009), come abbiamo appena detto, introduce un riferimento alla macchina, ma questo rende tanto più pregnante chiedersi: in che modo o fino a che punto può dirsi sociale la nostra relazione con gli esseri inorganici, per quanto sviluppati?
Infatti, un conto è parlare di relazioni tra umani che avvengono tramite mezzi tecnologici – come può essere nel caso di Facebook o di altri social network – un altro è chiedersi cosa resti della socialità quando l’altro con cui interagiamo non è un umano, come in una chat-robot o, più significativamente, nel caso dei robot sociali[3]. La sfida alla base di queste riflessioni sta nel voler mantenere il concetto di socialità, minimizzandolo ma non fino ad arrivare al punto di renderlo privo di significato, anche per quanto riguarda le relazioni con le macchine. Il problema maggiore consiste nel fatto che le teorie classiche che cercano di definirlo, come quella già citata di Gilbert, fanno sempre riferimento a criteri quali la disponibilità ad agire insieme, la condivisione di conoscenze, l’espressione di fini comuni – criteri che risultano troppo esigenti quando ci si voglia riferire a soggetti non autonomi. Infatti, per quanto i programmatori siano soliti parlare di livelli di libertà per definire le capacità dei robot[4], pure difficilmente si è disposti ad attribuire loro autonomia (Hakli, Mäkelä, 2019), se non altro perché i robot hanno bisogno di input esterni per dare avvio alle loro azioni. Più in generale, tutte le posizioni filosofiche che si occupano di socialità presuppongono, perché la si possa attribuire a un soggetto, che questo stesso soggetto abbia sia la ragione che la capacità di rappresentazione (Hakli, Seibt, 2017) – elementi che con difficoltà, a meno di non fraintenderli o modificarli rispetto al loro significato comune, attribuiamo alle macchine.
Alcune possibili risposte
Nel suo ultimo lavoro, Maurizio Ferraris (2021) fornisce una rilettura della capacità di rappresentazione – o intenzionalità – ritenendo che non possa essere considerata un criterio sufficiente per discriminare tra l’umano e la macchina e rimarca la necessità di distinguere ragione e intelligenza, nell’ottica di fare solamente della prima una caratteristica esclusivamente umana, dal momento che la seconda – a cui infatti si fa riferimento quando si parla di intelligenza artificiale – accomuna umani e macchine, proprio perché si fonda sulla capacità di rispondere a stimoli, in una smentita del noto argomento della stanza cinese proposto da John Searle (1980)[5]. Certamente, questa è una possibile soluzione: garantire una specificità ai rapporti tra umani, attribuendola alla ragione – termine che in filosofia non indica esclusivamente la pura razionalità, come si potrebbe pensare, ma include una vasta gamma di sfumature, prime fra tutte le emozioni che dunque non le sono affatto contrapposte, bensì ne sono espressione – e, in seconda battuta, alla mortalità che dà forma alle nostre vite, riconoscendo però al contempo il fatto che molte delle nostre azioni quotidiane sono del tutto automatiche, e in questo senso robotiche, del tutto analoghe a quelle delle macchine.
Un’altra possibilità è quella di concentrarsi sull’elemento della reciprocità. Infatti, è l’assenza di un vero e proprio scambio tra umano e macchina a far sì che siamo poco disposti a riconoscere in questo tipo di relazioni un elemento di socialità. La macchina, per quanto sviluppata, resta uno strumento di cui l’umano si avvale per raggiungere uno scopo, fosse anche quello apparentemente così elevato di avere una relazione di coppia – come nel caso di Azumi Hikari, l’ologramma giapponese che fa da assistente virtuale per i single[6]. L’idea è che, per quanto possiamo essere disposti a intrattenere relazioni amichevoli con delle macchine, siamo pur sempre capaci di discriminare tra una macchina e un umano, nella nostra capacità di relazionarci. Se dunque ha senso parlare di socialità è perché questo concetto ci permette di comprendere alcune nostre caratteristiche specifiche e ci permette, al contempo, di passare dall’attribuzione di socialità a quella di responsabilità – laddove la responsabilità morale deve essere ben distinta da quella giuridica. Se attribuissimo socialità anche all’interazione umano-macchina, dovremmo arrivare al paradosso di parlare di socialità anche nelle relazioni macchina-macchina. Ma, un gruppo costituito da sole macchine sembra poco significativo, perché totalmente inutile: la socialità può essere intesa, come dicevamo, in termini biologici e appare sensata finché coinvolge esseri viventi. Di conseguenza, può avere senso continuare a declinare la socialità nei termini della ragione, pur senza con questo voler postulare uno iato tra animali umani e non umani, e concentrarsi, invece, per quanto attiene alle macchine, sui problemi etici che sorgono in relazione al loro utilizzo quotidiano, mettendo in campo le nostre capacità di ragionare e prevedere possibili storture per porvi, almeno provvisoriamente, rimedio. In conclusione, se è possibile minimizzare la definizione di agente per ricomprendere all’interno di questo concetto anche le macchine sufficientemente sofisticate da poter agire in funzione di un obiettivo specifico, sembra non altrettanto necessario modificare il concetto di socialità fino ad attribuirlo a ogni forma di interazione tra due elementi, di qualsiasi natura essi siano.
Bibliografia
Aristotele, Politica.
Richerson, P. & Boyd, R. (2004), Not by genes alone. University of Chicago Press. Trad. it. Non di soli geni. Torino: codic 2006.
Dautenhahn, K. (2014). Human-Robot Interaction. In M. Soegaard & R. F. Dam (Eds.), The encyclopedia of human-computer interaction (2nd ed.). Aarhus/Denmark: The Interaction Design Foundation. (Disponibile online: https://www.interaction-design.org/encyclopedia/human-robotinteraction.html).
Ferraris, M. (2021). Documanità. Filosofia del mondo nuovo. Roma-Bari: Laterza.
Ferraris, M. (2009). Documentalità. Perché è necessario lasciar tracce. Roma-Bari: Laterza.
Gilbert, M. (1997). Concerning Sociality: The Plural Subject as Paradigm. In The Mark of the Social: Discovery or Invention?, J.D. Greenwood (ed.). Lanham: Rowman & Littlefield.
Gilbert, M. (1989). On Social Facts. London: Routledge.
Hakli, R. and Mäkelä, P. (2019). Moral Responsibility of Robots and Hybrid Agents. The Monist, 102(2), April 2019, 259-275. https://doi.org/10.1093/monist/onz009
Hakli, R. and Seibt, J. (eds.). (2017). Sociality and Normativity for Robots. Springer International.
Searle, J. (1980). Minds, brains, and programs. Behavioral and Brain Sciences, 3(3), 417-424. doi:10.1017/S0140525X00005756.
Turkle, S. (2011). Alone together: Why we expect more from technology and less from each other. New York: Basic Books. Trad. it. Insieme ma soli. Perché ci aspettiamo sempre più dalla tecnologia e sempre meno dagli altri. Torino: Einaudi 2019.
Udehn, L. (2001). Methodological Individualism. Background, History and Meaning. London: Routledge.
- Anche la proposta di Bill Gates di pagare le tasse per i robot utilizzati al posto degli operai era pensata nell’ottica di utilizzare quei fondi per il welfare degli ex operai ormai disoccupati e non certo per garantire una vecchiaia serena ai robot dismessi. Cfr. https://qz.com/911968/bill-gates-the-robot-that-takes-your-job-should-pay-taxes/ ↑
- «A phenomenon is a social phenomenon if and only if it involves one person’s being connected either mentally or in some causal way with another person or persons». Trad. mia. ↑
- Alcuni esempi di questi robot sono NAO, PARO, Leonardo, Asimo e ROBOVIE. ↑
- Per esempio ad Asimo, progettato dalla Honda, sono assegnati 32 gradi di libertà: il robot è in grado, tra le altre cose, di compiere il gesto della stratta di mano. ↑
- In questo esperimento mentale, Searle cercava di smentire l’uguaglianza tra intelligenza umana e artificiale, mostrando la differenza tra fare e fare comprendendo. ↑
- Qui è possibile trovare lo spot pubblicitario dell’ologramma in questione – spot che ha suscitato molto interesse e sollevato critiche: https://www.youtube.com/watch?v=nkcKaNqfykg. ↑