World Press Freedom Index

La stampa libera è a rischio, anche a causa del digitale: i problemi per le democrazie



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I nuovi strumenti digitali offrono metodi innovativi per generare o mantenere il potere e contribuiscono alle mire di sorveglianza diffusa e al monitoraggio delle opposizioni. Che ruolo svolgono in tutto ciò i giornalisti, e quali sono le minacce e le pressioni che politici e governi autoritari esercitano sulla libertà di stampa?

Pubblicato il 22 mag 2023

Barbara Calderini

Legal Specialist – Data Protection Officer



libertà di stampa

La 21ª edizione del World Press Freedom Index, compilato annualmente da Reporters Without Borders (RSF), facendo luce sugli importanti cambiamenti legati agli sconvolgimenti politici, sociali e tecnologici, ci fornisce un quadro globale alquanto preoccupante.

Un quadro che ci spinge a riflettere anche sul ruolo del digitale e degli algoritmi che, patrocinati dai colossi tecnologici, troppo spesso erroneamente percepiti come arbitri neutrali di un fumoso processo di decisione e di scelta, orientano le scelte, determinano le politiche pubbliche, prestano il fianco alle istanze dei regimi dittatoriali; polarizzano e danno forma alla capacità di autodeterminazione degli individui.

Ed è su questo terreno che gli “artefatti tecnologici” manifestano al meglio la loro veste politica.

Ma andiamo per gradi.

Lo scenario del World Press Freedom Index

“Il World Press Freedom Index mostra un’enorme volatilità delle situazioni, con forti rialzi e ribassi e cambiamenti senza precedenti, come l’ascesa di 18 posizioni del Brasile e la caduta di 31 posizioni del Senegal. Questa instabilità è il risultato di una maggiore aggressività da parte delle autorità in molti paesi e crescente animosità nei confronti dei giornalisti sui social media e nel mondo fisico. La volatilità è anche la conseguenza della crescita dell‘industria dei contenuti falsi, che produce e distribuisce disinformazione e fornisce gli strumenti per produrla. E ora l’intelligenza artificiale sta digerendo questi stessi contenuti e rigurgitandoli sotto forma di sintesi violando i principi di rigore e affidabilità.”. Riferisce Cristophe Deloire, Segretario generale della RSF.

Il calo registrato nella libertà dei media è importante: 31 Paesi vengono classificati in una “situazione molto grave”, rispetto ai 21 di appena due anni fa.

Il Vietnam, la Cina e, senza grande sorpresa, la Corea del Nord sono i paesi con il contesto peggiore. La Russia, certo, come il Myanmar e l’Afghanistan. La situazione è passata da “problematica” a “pessima” in Tagikistan, India e Turchia.

Il Medio Oriente e il Nord Africa (MENA) si confermano i territori più pericolosi al mondo per i giornalisti: Siria, Yemen, Iraq, Arabia Saudita, e anche Algeria.

In Africa cali dell’indice del 2023 si sono verificati in Senegal e in Tunisia.

Non va meglio in Europa, in particolare l’Unione Europea, dove Germania e Grecia si distinguono ancora per un numero record di casi di sorveglianza, violenza contro giornalisti e arresti.

Peggiora la situazione anche in Kirghizistan, Kazakistan e Uzbekistan e Turkmenistan.

L’America non ha più nessun paese colorato di verde sulla mappa della libertà di stampa. Costa Rica, Messico, Cuba, i paesi dove la censura è stata nuovamente rafforzata. In America Latina, il Perù decresce di posizione.

Gli Stati Uniti sono scesi di tre posizioni.

Il ruolo della libertà di stampa per la democrazia

Ma esattamente cosa significa libertà di stampa e che ruolo gioca in una democrazia moderna?

Nella sua accezione migliore è custode delle istituzioni; nella sua espressione peggiore è uno strumento asservito o vittima della disorganizzazione sociale e dei fini particolari di alcuni.

Nella storia moderna, il principio di libertà di stampa è stato formulato dalle Nazioni Unite nel 1948. È sancito dall’articolo 19 della Dichiarazione universale dei diritti umani, insieme al diritto alla libertà di espressione[1].

“Ogni individuo ha diritto alla libertà di opinione e di espressione incluso il diritto di non essere molestato per la propria opinione e quello di cercare, ricevere e diffondere informazioni e idee attraverso ogni mezzo e senza riguardo a frontiere.”

Eppure, dai tempi della Guerra Fredda, in un momento in cui giornalisti e dissidenti sovietici non erano in condizione di diffondere opere e scritti che sfidassero il regime comunista, quando libri come 1984 di George Orwell andavano banditi e non era possibile acquistare in un negozio i dischi di Elvis, di Louis Armstrong o dei Beatles e opere come Aspettando Godot di Samuel Beckett dichiarate illegali; da quando l’Office of Public Diplomacy (OPD) del Dipartimento di Stato americano, negli anni ’80, diffuse false informazioni, intimidito giornalisti e consigli di redazione considerati ostili e premiato quelli amichevoli, le cose non sono migliorate.

Anzi.

Il passaggio dai sognatori digitali – culminato nel 2011 durante la “Primavera Araba”, quando l’ondata di proteste che ha investito il mondo arabo ha reso evidente il ruolo importante svolto dai social network nella diffusione delle rivolte – ai monopolisti, immagine delle rivelazioni di Snowden del 2013, dello scandalo Cambridge Analytica, alle pratiche di “deplatforming” culminate con il ban di Donald Trump, fino alle aspre forme di controllo del traffico di rete, repressione e interdizione dei regimi asiatici, è stato rapido.

L’autoritarismo ha continuato a prosperare e si è insinuato in quegli stessi luoghi dai quali era stato bandito. Ha sfruttato l’instabilità politica dei regimi del mondo; si è infiltrato tra le maglie larghe del sistema digitale, assumendo nuove forme di controllo delle informazioni. Ha preso dimestichezza con le strategie e le tecnologie della disinformazione.

La gravità del declino a cui è sottoposta la democrazia nel XXI secolo è chiara. I numeri riportati dall’istituto Varieties of Democracy (V-Dem) di Göteborg sono eloquenti. Il 68% della popolazione mondiale (87 Paesi) vive ormai in regimi autocratici e in contesti di minacce alla libertà dei media, del mondo accademico e della società civile.

Il percorso che conduce al modello autocratico è piuttosto ricorrente e parte sempre dalla demolizione di uno dei maggiori pilastri democratici: la limitazione alla libertà di espressione.

“I governi al potere prima attaccano i media e la società civile, polarizzano le società mancando di rispetto agli avversari e diffondendo informazioni false, poi minano le elezioni”.

La sicurezza dei giornalisti e il pericolo per l’impunità: le misure in atto

Che ruolo svolgono i giornalisti nella lotta all’autoritarismo, sia negli Stati Uniti che a livello globale? E quali sono le minacce e le pressioni che politici e governi autoritari esercitano sulla libertà di stampa e di espressione?

I dati mostrano che non ci sono spazi sicuri per i giornalisti. Il maggior numero di attacchi mortali si verifica in Asia e nel Pacifico, seguiti da America Latina, Caraibi e Africa. Ma è stato registrato anche un aumento degli omicidi nell’Europa centrale e orientale, in Europa occidentale e Nord America. Molte di queste uccisioni rimangono impunite.

Male.

Pare sin troppo evidente come tanto la protezione degli informatori, quanto la necessità di proteggere il giornalismo specie quello investigativo – in modo che possa funzionare senza timore di rappresaglie – sia una questione di interesse pubblico.

I giornalisti rivestono il ruolo di strumenti essenziali per la democrazia.

Così come la libertà di stampa rappresenta il diritto inalienabile di ogni popolo ad essere informato per poter compiere scelte responsabili e per promuovere la propria autodeterminazione.

Ciò nondimeno esiste anche un’innegabile contrapposizione tra questa funzione democratica e la natura di una buona parte del giornalismo quale prodotto commerciale che complica notevolmente le cose.

A maggior ragione in uno scenario globale come quello attuale frutto di contrasti geopolitici per la sovranità del digitale, conflitti internazionali, cambiamenti climatici, migrazioni di massa, evasione fiscale e corruzione sistemica, oltre a gravi crisi sanitarie.

Ed è proprio questo rapporto che lega l’informazione al potere, non solo politico bensì anche economico (interessi industriali, finanziari peraltro spesso interdipendenti), che genera la maggiore criticità in termini di complicità, strumentalità, connivenza e costruzione del consenso.

Walter Lippmann nella sua Public Opinion del 1922, opera datata eppure attualissima, sostiene che “la notizia e la verità non siano la stessa cosa, e debbano essere chiaramente distinte”.

Continua: “La funzione della notizia è di segnalare un fatto, la funzione della verità è di portare alla luce fatti nascosti, di metterli in relazione tra loro e di dare un quadro della realtà che consenta agli uomini di agire. […] La notizia non dice in che modo il seme stia germinando nel terreno ma può dirci quando appare sul terreno il primo germoglio”.

La provocazione insita in queste parole è lucida e la ricchezza descrittiva di Lippmann ne agevola la conseguente doverosa riflessione. La creazione del consenso non è un’arte nuova.

Il report Unesco

L’UNESCO ha pubblicato la versione aggiornata del report intitolato “Knowing the Truth is Protecting the Truth- Director-General’s Report on the Safety of Journalists and the Danger of Impunity” che offre una fotografia piuttosto nitida dello stato di incertezza e pericolo al quale sono costantemente sottoposti i giornalisti.

Sebbene l’impunità per i crimini nei loro confronti sia leggermente diminuita rispetto a qualche anno fa, tuttavia il numero di sparizioni, attacchi digitali e morti risulta ancora inaccettabile ed eccessivamente alto. Giornalisti sono stati assassinati per strada o nei loro veicoli, altri sono stati rapiti per poi essere trovati morti. Diversi sono stati uccisi davanti ai membri della famiglia, compresi i loro figli. Aumentano le donne giornaliste uccise.

Stando alle risultanze del report UNESCO, nel corso del 2022 sei paesi hanno reso noti sviluppi nuovi o in corso in tema di monitoraggio e segnalazione di crimini contro i giornalisti. Sono Ecuador, Grecia, Maldive, Palestina, Paraguay e Filippine.

Dieci paesi hanno fatto timidi passi avanti in fatto di prevenzione dei reati contro i reporters e i giornalisti. Sono Colombia, Kirghizistan, Messico, Myanmar, Paesi Bassi, Nigeria, Palestina, Filippine, Federazione Russa, Slovacchia.

Tredici paesi hanno condiviso gli sviluppi delle misure sulla protezione dei giornalisti. Sono Brasile, Colombia, Ecuador, Guatemala, Iraq, Maldive, Messico, Myanmar, Paesi Bassi, Paraguay, Filippine, Tanzania e Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda del Nord.

Bahrain, Colombia, Georgia, Guatemala, Messico, Paraguay, Filippine e Somalia sono gli otto paesi che hanno riferito di iniziative e meccanismi nuovi o in corso relativi al perseguimento dei crimini contro i giornalisti.

La risoluzione del Consiglio per i diritti umani

Nell’ottobre 2022, il Consiglio per i diritti umani ha adottato la risoluzione A/HRC/51/L.14 sulla sicurezza dei giornalisti, invitando gli Stati a rafforzare le misure per prevenire, proteggere e perseguire casi di violenza, minacce e attacchi contro giornalisti e operatori dei media.

L’Assemblea generale delle Nazioni Unite nella sua settantaseiesima sessione nel dicembre 2021 ha adottato la risoluzione A/RES/76/173 (2021) sulla sicurezza dei giornalisti e la questione dell’impunità.

Nel luglio 2021, il Consiglio per i diritti umani ha adottato la risoluzione A/HRC/47/L.22 sulla promozione, protezione e godimento dei diritti umani nell’era digitale, che affronta gli attacchi online contro le giornaliste prese di mira per la loro espressione online o offline.

Nell’ottobre 2021, il Consiglio dei diritti umani ha adottato la risoluzione A/HRC/RES/48/4 sul diritto alla privacy nell’era digitale, che affronta la vulnerabilità dei giornalisti dall’uso improprio di strumenti tecnologici sviluppati da attori privati o pubblici.

La dichiarazione di Kioto

Nel 2021, durante il quattordicesimo Congresso delle Nazioni Unite sulla prevenzione del crimine e la giustizia penale, è stata adottata la “Dichiarazione di Kyoto sull’avanzamento della prevenzione del crimine, della giustizia penale e dello Stato di diritto: verso il raggiungimento dell’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile”.

Nel 2021, durante la quarantunesima sessione della Conferenza generale dell’UNESCO, è stata approvata una risoluzione intitolata “Dichiarazione di Windhoek+30” fatta in occasione della Giornata mondiale della libertà di stampa 2021.

Nel giugno 2021 si è tenuta una conferenza ministeriale per gli Stati membri del Consiglio d’Europa che ha adottato una risoluzione sulla sicurezza dei giornalisti.

Nel 2020, durante la sua sessantasettesima sessione ordinaria, la Commissione africana per i diritti umani e dei popoli ha adottato una “Risoluzione sulla sicurezza dei giornalisti e dei professionisti dei media in Africa”, ACHPR/Res.468 (LXVII).

Nel 2020 l’Assemblea parlamentare europea ha adottato la risoluzione 2317 sulle “minacce alla libertà dei media e alla sicurezza dei giornalisti in Europa”.

La Guida OSCE alla sicurezza dei giornalisti

Nel novembre 2020, l’Ufficio dell’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (OSCE) Rappresentante per la libertà dei media ha pubblicato la Guida alla sicurezza dei giornalisti (3a edizione). Nell’ottobre dello stesso anno è stata inoltre pubblicata una Resource Guide on the Safety of Women Journalists Online.

Nel gennaio 2021 è stata lanciata la prima piattaforma digitale sulla sicurezza dei giornalisti in Africa con la partecipazione delle parti interessate dei media tra cui la Federazione dei giornalisti africani e l’African Editors’ Forum, il collegamento con l’African Peer Review Mechanism e con il supporto di Ufficio di collegamento dell’UNESCO Addis Abeba con l’Unione africana.

Ma tanto non basta davvero. Oltre a quadri regolatori inadeguati o addirittura inesistenti in particolari contesti, mancano interventi concreti sul fronte della cooperazione legale internazionale e la condivisione e l’attuazione di buone pratiche per promuovere la difesa dei giornalisti minacciati. Mancano i piani per rafforzare l’operatività dei meccanismi di protezione nazionale e delle reti di sostegno per garantire ai giornalisti un rapido accesso all’assistenza legale. Mancano le misure di sostegno per il giornalismo investigativo e mancano le strutture per promuovere il contenzioso strategico al fine di proteggere gli ambienti in cui i programmi giuridici potrebbero favorire un ecosistema mediatico indipendente, libero e pluralistico.

La conferenza della Columbia University Journalism “FaultLines: Democracy”

La Columbia Journalism School ha recentemente analizzato le fratture della democrazia americana e non solo, riunendo in una conferenza attivisti, giornalisti e studiosi di spicco. Tra gli esperti invitati ci sono Alessandra Galloni, redattore capo di Reuters; Sally Buzbee, redattore esecutivo del Washington Post; Graciela Mochkofsky, preside della Craig Newmark Graduate School of Journalism presso CUNY; e Annette Gordon-Reed, professoressa di storia alla Carl M. Loeb University, facoltà di arti e scienze dell’Università di Harvard.

“Siamo onorati di riunire un gruppo così eterogeneo di pensatori per esplorare l’intersezione tra stampa libera e democrazia”, ha affermato il dottor Jelani Cobb , decano della Columbia Journalism School. “Negli ultimi anni, abbiamo assistito a una raffica di attacchi alle fondamenta della nostra società, che inevitabilmente sgretola le salvaguardie che circondano il Primo Emendamento. La mia speranza è che questa conferenza avvii conversazioni sulla protezione del potere del giornalismo americano per le generazioni future e garantire le pratiche democratiche che tengono unita la nostra nazione”.

L’evento intitolato FaultLines: Democracy ha affrontato gli assalti alla democrazia americana negli ultimi due anni, dalla mobilitazione dei suprematisti bianchi a Charlottesville e l’insurrezione di Capitol Hill alla copertura mediatica sensazionalista dell’accusa di Donald Trump. Accadimenti che si uniscono ad altri come gli omicidi di due giornalisti, Jeff German del Las Vegas Review Journal nel settembre 2022 e Dylan Lyons di Spectrum News 13 nel febbraio 2023, che hanno indubbiamente contribuito a mettere in risalto le pesanti contraddizioni insite nel nucleo democratico di una nazione come gli USA e lo stato claudicante del sistema giornalistico americano costantemente esposto alle mire di sorveglianza delle autorità pubbliche e agli interessi economici dei gruppi di potere privati.

Un contesto in cui pesa senza dubbio anche lo stallo politico che, a livello legislativo, continua ad ostacolare l’approvazione definitiva del PRESS Act, uno dei pezzi più significativi della legislazione del Primo Emendamento ma anche del Quarto; lo scudo anti-sorveglianza per i giornalisti contro la divulgazione di informazioni di raccolta di notizie, comprese quelle che potrebbero identificare fonti riservate, compresa la possibilità dei funzionari governativi di richiedere dati simili a fornitori di telefoni cellulari, società di social media e altre terze parti, in tutte le situazioni tranne che in determinati casi di emergenza.

“La democrazia è sempre stata contestata in questo paese”, ha sostenuto alla conferenza Eric Foner, storico della Columbia University. “Non è mai stata incontaminata e poi è andata addirittura peggiorando”.

“Abbiamo una storia profonda in questo paese di leader delle istituzioni giornalistiche che guidano movimenti reazionari suprematisti bianchi”, ha detto la storica del giornalismo americano Kathy Roberts Forde, evidenziando il ruolo ben sedimentato nel tempo dei media, tra cui cita Fox News, nell’alimentare la violenza razzista.

Masha Gessen, molto attiva sul fronte dell’autoritarismo in Russia per The New Yorker , ha rimarcato come l’attuale modello di giornalismo privatizzato negli Stati Uniti renda difficile per i giornalisti lavorare liberamente, e quanto un sistema pubblico di giornalismo sia essenziale per preservare una stampa realmente democratica.

Jodie Ginsberg, presidente del Comitato per la protezione dei giornalisti, ha discusso di come le nuove tattiche dei regimi autocratici vengano utilizzate come armi contro quei giornalisti definiti dai vari leader nemici del popolo.

“Mentre in passato un giornalista poteva essere arrestato per aver pubblicato una storia, ora i governi autoritari usano leggi sul terrorismo o accuse finanziarie per prendere di mira la stampa” denuncia Jodie Ginsberg.

Non è mancato il contributo del presidente Barack Obama che in un messaggio video ha esortato giornalisti e storici a cercare soluzioni per combattere la disinformazione e a lavorare per rafforzare la democrazia statunitense in vista delle prossime elezioni americane.

E neppure le contestazioni del pubblico che hanno marcato alcune incongruenze emerse dalla conferenza come quelle riconducibili all’amministrazione Obama definita come “senza precedenti” quanto a procedimenti giudiziari contro fonti governative e per il sequestro dei documenti dei giornalisti, o quelle del giornalista attivista Jose Vega che ha interrotto il panel della Columbia per condannare la gestione da parte dei media mainstream di questioni globali significative come l’oleodotto Nordstream, la Siria e l’Ucraina.

Alla domanda su come le redazioni possono evitare di diventare inavvertitamente “simili ad avvoltoi”, la professoressa della Columbia Journalism School Nina Alvarez ha offerto una risposta semplice: “Abbiamo bisogno di più persone di colore e di colore in ruoli editoriali”.

June Cross, giornalista e professore alla Columbia Journalism School ha anche aggiunto che i modelli di business delle testate giornalistiche dovranno essere modificati. Mentre Masha Gessen è tornata inn argomento chiedendosi se fosse plausibile pensare ad un giornalismo veramente indipendente mentre è controllato da interessi privati.

Alla sua domanda hanno risposto i media indipendenti presenti: Daniel Alarcon, professore della Columbia Journalism School e fondatore di Radio Ambulante e Maria Hinojosa, fondatrice di Futuro Media.

“Se non riporteranno la storia nel modo in cui vogliamo raccontarla, allora dovremo farlo da soli”, ha detto Alarcon.

La conferenza si è conclusa con l’appello del preside della Columbia Journalism School Jelani Cobb: “Non dobbiamo rifuggire dall’idea che siamo un’impresa esplicitamente democratica”.

Autoritarismo digitale, i “tecnoregimi” con velleità censorie

È infatti innegabile che i regimi autoritari si siano specializzati a tal punto da essersi resi estremamente abili nel cooptare e aggirare le norme e le istituzioni intese a sostenere le libertà fondamentali e altresì nel fornire risorse ad altri paesi con le stesse aspirazioni.

Vale anche per le democrazie consolidate dove i controlli sugli abusi di potere e sulle violazioni dei diritti umani sono apparsi in più occasioni alquanto indeboliti, sferzati e molto spesso dispersi dagli effetti delle nuove tecnologie che hanno indiscutibilmente rafforzato la morsa dei regimi autoritari e le mire dei capitalismi di sorveglianza.

La sottile linea che separa la libertà di espressione e d’informazione dalla censura, resa ancora più insidiosa tanto dagli effetti della sezione 230 del “Communications Decency Act” degli Usa (che di fatto deresponsabilizza le piattaforme Web da quanto viene condiviso dai propri utenti), come dal rigore delle normative cogenti espressione delle mire egemoniche e di sorveglianza dei regimi dispotici, rappresenta il limite e lo spazio di un problema politico sociale grave e complesso.

La repressione digitale, sempre più intensa in alcune zone del mondo, mostra una visione desolante della continua limitazione delle libertà individuali e tra queste in primis la libertà di informazione.

I nuovi strumenti di controllo digitale offrono metodi innovativi per generare o, a seconda dei casi, mantenere il potere e contribuiscono alle mire di sorveglianza diffusa e al monitoraggio delle opposizioni.

Consentono ai regimi autoritari di modellare la percezione pubblica della sua legittimità, di consolidare le ambizioni di egemonia e di potenziare le tattiche di repressione e censura che, non solo riducono la probabilità che si verifichino forme di protesta diffusa, ma limitano anche le probabilità che un governo debba affrontare importanti e prolungati sforzi di mobilitazione e gestione del dissenso. Occultare è meno impegnativo del dover rendere spiegazioni.

Alla pletora di pratiche di moderazione dei contenuti, messe in atto dalle singole piattaforme in modo arbitrario e spesso incoerente – specie in quelle aree calde del mondo dove il panico per una minaccia percepita dai contenuti virali condivisi nel social, con facilità, può portare al linciaggio o peggio – fino ai tecnicismi ancora non abbastanza sofisticati degli algoritmi software progettati per proteggere ma che in realtà finiscono per penalizzare i gruppi emarginati che si affidano ai social per averne supporto – si uniscono le misure di “internet shutdown”[2], ovvero, quelle pratiche che passando o meno per le vie legali della regolamentazione del governo, consentono di rendere inaccessibile, rallentare o limitare l’accesso ad internet e alle piattaforme social.

L’ecosistema dei social network e delle app di messaggistica non costituisce infatti l’insieme di meri canali di comunicazione ma rappresenta uno spazio digitale pubblico dove il potere delle grandi piattaforme digitali, cresce a ritmi esponenziali al punto da condizionare gli equilibri stesse della rete, indirizza il dibattito politico e mediatico, seduce e si rivela in grado di plasmare il modo di pensare e di agire di individui ed istituzioni, entrambi esposti agli “effetti di rete” e alle asimmetrie informative. Si piega ai governi autoritari e viceversa assoggetta il potere politico democratico, limita i diritti umani e rafforza la repressione e la sorveglianza senza alcun riguardo per vincoli legali e i principi cardine di un ordine costituzionale digitale che, nel XXI secolo, ancora fatica ad affermarsi.

Evidentemente tanto si rivela compatibile con i modelli di business dei colossi tecnologici stessi, traducendosi in un complesso scacchiere di reciproche dipendenze e autoritarismi digitali da cui non sono immuni neppure le testate giornalistiche tradizionali.

Tutto allo stesso tempo, e in modo piuttosto indisturbato e non osteggiato, ma anzi, favorito da quadri regolatori e leggi. Almeno per ora.

In che modo i giornalisti possono imparare dalla storia?

Il 2022 è considerato un anno nero per i giornalisti e la libertà di stampa: si avvicina a 100 il numero di reporter uccisi, per lo più al di fuori delle zone di guerra. Oltre 1500 i giornalisti uccisi nel mondo dal 1993. 19 quelli nei primi cinque mesi dell’anno. Senza dimenticare quelli aggrediti o privati della libertà personale e vittime di attacchi mediatici digitali.

“In a time of universal deceit, telling the truth is a revolutionary act.” o anche, nel tempo dell’inganno universale, dire la verità è un atto rivoluzionario.

E, certo, l’arte di “ottenere traffico” è un’abilità che non insegnano alla scuola di giornalismo.

La presenza di algoritmi rende l’ambiente digitale disintermediato, inondato da notizie di tutte le tipologie, spesso prive del minimo riscontro e artatamente costruite, anche tramite falsi account, per colpire gruppi specifici di utenti. La distinzione tra fatti ed opinioni si assottiglia a tal punto da divenire del tutto inesistente.

Disinformazione e censura facilmente divengono causa di “incendi digitali” e distorsioni cognitive, ormai parte integrante della società della comunicazione.

Conclusioni

Come nel gioco del gatto e del topo, le visioni politiche democratiche inseguono quelle tecnologiche, ma perdono inesorabilmente terreno di fronte alle pressioni dei regimi autarchici da una parte, e alla rigorosa complessità delle decisioni imposte dai progressi del digitale e dei sistemi economici ad essi connessi, dall’altro.

Dobbiamo chiederci se il fallimento della democrazia è un fallimento della libertà di espressione e dunque di stampa; delle forme di partecipazione o delle agende di governo interne ed estere delle società democratiche basate sulle politiche dell’eccezionalismo e della singolarità della verità.

Ogni diritto e libertà fondamentale è vitale per la dignità, l’autonomia, l’autodeterminazione degli individui e quando la sorveglianza, in tutte le sue forme aumenta, si può essere “dissuasi” dall’esercizio di tali diritti e libertà.

Non va bene.

La libertà di stampa come la moderazione della libertà di espressione cade vittima di overload informativi e della selezione algoritmica basata sul coinvolgimento emozionale.

Trionfano le operazioni di disinformazione ed assumono forme sempre più sofisticate.

La stessa economia dell’attenzione viene “hackerata” a vantaggio di viralità e riciclo di contenuti artefatti che gli attori della disinformazione usano per insediare, amplificare e, quindi, legittimare storie false e polarizzanti asservite alle velleità dei regimi dispotici e alle strategie propagandistiche di vario tenore.

Il dilemma tra la necessità del progresso e le libertà fondamentali, già sapientemente descritto già nel 1980, nell’importante articolo di Langdon Winner: Do Artifacts Have Politics?, si insedia nelle maglie della società modellandone il diritto di partecipazione, la direzione, la forma, il potere, i diritti e i privilegi.

Quello che resta urgentemente da capire riguarda invece come diritti, tecnologia e politica potranno intrecciarsi e convergere nel dar forma a un tessuto sociale che sia insieme corretto e stimolante.

E tanto si rivela una priorità assoluta anche la libertà di stampa e per il giornalismo, elemento strutturale portante di ogni società civile.

“Il compito della libertà… ricade grosso modo sotto tre capi, protezione delle fonti delle notizie, organizzazione delle notizie in modo da renderle comprensibili ed educazione della risposta umana”. Walter Lippmann, e scriveva in un’era che non aveva ancora conosciuto il proliferare dell’informazione.

Note

  1. In Europa, la libertà di stampa è protetta dall’articolo 10 della Convenzione europea dei diritti umani e dall’articolo 11 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE
  2. India, Bangladesh, Uganda, Myanmar, Yemen, Etiopia, Tanzania, Cuba, sono tutte realtà in cui il blackout di “internet” costituisce una delle “pratiche” più diffuse e abusate dai governi, aventi l’obiettivo di esercitare il controllo sul flusso di informazione di una determinata minoranza o gruppi di dissidenti politici. Molte di queste iniziative vengono spacciate per misure di prevenzione volte al contrasto della violenza e dell’odio online, in realtà, molto più spesso, rappresentano manifestazioni plateali inconstituzionali di violazioni dei diritti umani e di consolidamento di modelli esistenti di censura e discriminazione. CRF. Barbara Calderini https://www.agendadigitale.eu/cultura-digitale/autoritarismo-digitale-cresce-la-lista-dei-i-tecnoregimi-con-velleita-censorie-cosa-rischiamo-tutti/

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