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La tecnologia “arma” per una vera crescita felice: ecco perché è cruciale prenderne coscienza

Per risolvere i problemi sociali e ambientali oggi tanto pressanti non ci vuole meno progresso, meno globalizzazione e meno capitale, ma, proprio il contrario: un progresso più consapevole, una globalizzazione che sappia rispondere alle paure dell’umanità e un nuovo capitale. Ma più di tutto, l’uomo deve capacitarsene

Pubblicato il 07 Set 2022

Maurizio Ferraris

professore ordinario di filosofia teoretica presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università degli Studi di Torino

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Da quando, nella coscienza comune, il sogno del progresso si è trasformato nell’incubo della crisi climatica, della crisi economica e della Crisi in generale sono diventate mainstream le opinioni (allora controcorrente) espresse da Charles Baudelaire in Il mio cuore messo a nudo.

Mi riferisco, nello specifico all’apoftegma : “teoria della vera civiltà. Non consiste nel gas, o nel vapore, o nei tavolini parlanti, consiste nella diminuzione delle tracce del peccato originale”[1]. I tavolini parlanti, le tables tournantes, sono quelli delle sedute spiritiche. Nelle intenzioni di Baudelaire, è una condanna della tecnica, e dell’orgoglio prometeico della sua età e dei suoi filosofi “zoocrati e industriali” ossessionati dal “fanale oscuro” del progresso, come scriveva qualche anno prima deprecando la messa solenne del progresso celebrata nell’Esposizione universale del 1855.

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Lo scenario attuale

In effetti, la scena pubblica non brulica di Pangloss. Si vedono principalmente menagramo, vittime di complotti biopolitici, profeti del tramonto dell’Occidente, del dominio della tecnica, della morte dell’uomo, della famiglia, dell’arte, delle stagioni… Vien quasi da dire: ce ne fossero, di Pangloss, fanno simpatia e almeno dicono qualcosa di originale, perché, vale sempre la pena di ricordarlo, quella secondo cui il nostro è il migliore dei mondi possibili è una tesi talmente originale da aver prodotto Candide, mentre che viviamo nel peggiore dei mondi possibili è una tesi banale al punto che, quando ci viene esposta da tassisti, negozianti, cuori infranti, non ci prestiamo la minima attenzione.

Ora, per quanto comprensibili siano le preoccupazioni che incombono sull’umanità, credo che le previsioni infauste siano sbagliate, altrimenti l’atteggiamento razionale sarebbe quello di Bolsonaro: disboscare l’Amazzonia e goderci gli ultimi giorni dell’umanità. Lo dico non per iattanza, ma per semplice analisi razionale. Quanto alla fine del Pianeta, rassicuriamoci: continuerà a esistere per milioni di anni in un rigoglio lussureggiante di forme di vita, solo senza di noi, almeno se andiamo avanti di questo passo, ma credo che questo costituisca già un conforto per gli animalisti. Quanto alla fine dell’Umanità, sostenere che si tratta di un destino segnato (e lo è! Non dimentichiamolo! Ma non subito) equivale a dire che ormai solo un dio ci può salvare: ossia, che lo si voglia o no, a un atteggiamento nichilista e rassegnato. Così che quanto maggiore è la preoccupazione percepita, tanto minore è la responsabilità esercitata.

Cosa sia il nichilismo è abbastanza noto: l’idea che tutti i valori si riducano a nulla, e che l’umanità sia destinata alla catastrofe. Non tutti coloro (ossia la maggioranza dell’umanità) che sono convinti che l’umanità sia destinata alla catastrofe ammetterebbero di essere nichilisti, ma solo perché non ci pensano. Non considerano, per esempio, che proporre come rimedio alla crisi ecologica una decrescita che non può essere serena, come rimedio alla crisi economica niente di niente, e come rimedio alla crisi politica ancora niente di niente (il disarmo universale, o unilaterale, l’universale amore o che altro), è nichilismo. Insomma, si può avere il cuore colmo di buone intenzioni ed essere più nichilisti di un eroe di Dostoevskij. Ecco perché il nocciolo del Webfare consiste nel capacitarsi, con quello che non è semplicemente un rilancio dell’Illuminismo: capacitarsi nel senso di prendere coscienza, del farsene una ragione, del “rendersi conto” delle condizioni di un mondo che sembra ormai lontano mille miglia dai sogni del postmoderno; e capacitarsi nel senso della “capacitazione”[2], ossia il tradurre il sapere, il kennen, in abilità, in können, in know how, ossia dotarsi di capacità che ci permettano di vivere in un mondo che appare minaccioso ma che, se ben compreso, è carico di promesse.

La questione ambientale

Partiamo dal tema che, complice il caldo in cui sto scrivendo, appare prioritario, ossia la questione ambientale, dove la decrescita appare come una strada obbligata[3] (l’alternativa suonando pianamente “altrimenti siamo fottuti”[4]), che si presenta come una crociata contro un vizio morale e una malattia mortale. In questa attitudine si manifesta, anzitutto, un equivoco a proposito della crescita, concepita soltanto come “gas e vapore”, e soprattutto vista come antitesi rispetto alla diminuzione delle tracce del peccato originale. Non si considera che il progresso spirituale, l’avanzamento della civiltà, è anche e anzitutto progresso materiale, e che ogni arretramento su questo fronte è una ritirata sul piano dello spirito. Perché nulla vieta di vagheggiare la semplicità della vita allo stato di natura, ma coerenza impone, a questo punto, di approvare gli abitanti delle rive dell’Orinoco per “l’uso di quelle assicelle che essi applicano sulle tempie dei loro bambini e che garantiscono loro almeno una parte della loro imbecillità e della loro felicità originaria”[5]. Cosa replicava Voltaire a Rousseau? “Ho ricevuto il vostro nuovo libro contro la razza umana, e ve ne ringrazio. Non fu mai impiegata tanta intelligenza allo scopo di definirci tutti stupidi. Vien voglia, leggendo il vostro libro, di camminare a quattro zampe”[6].

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Voltaire coglieva con esattezza il nichilismo implicito nel ritorno alla natura, perché non si può qualificare altrimenti la convinzione che l’umanità abbia imboccato una via di decadenza, da chissà quanto tempo, e che stia giungendo al capolinea perché, la natura si sta vendicando di noi con la forza della disperazione di un popolo colonizzato. Oltre a costituire una forma di animismo che disonora un’età che si pretende rischiarata (benché trovi normale pensare che se gli umani mangiano dei pipistrelli la natura si vendichi col virus, mentre una ipotetica reciproca non prevede alcuna sanzione), questa visione sopravvaluta l’azione che un essere strutturalmente debole come l’umano può compiere sul mondo. Tanto varrebbe sostenere che le nostre politiche ambientali dissennate stanno minacciando l’universo, ed è per questo che più che le preoccupazioni ecologiche, se esaminassero con cura i loro presupposti, dovrebbero dichiararsi preoccupazioni cosmologiche. Anche qui, la causa di questo atteggiamento prometeico è molto più la volontà di potenza tutta immaginaria, e il nichilismo tutto reale, impostisi negli ultimi secoli che non l’effettiva azione dei portatori di volontà di potenza che, in quanto umani, non hanno mai potuto esercitare che una azione modesta sulla crosta terrestre, e sulla crosta soltanto.

Infatti, quando esattamente è iniziata l’Apocalisse? Ed è iniziata davvero nella natura, o nella mente che la contempla attribuendosi meriti e demeriti impropri? La difficoltà nell’assegnare dei confini cronologici all’antropocene[7], che alcuni datano al 1964, con il ritrovamento di residui radioattivi nel polline del mais, altri con la diffusione dell’agricoltura, diecimila anni fa, altri ancora con il controllo del fuoco, dovrebbe suggerire che l’antropocene è tutto tranne che la manifestazione di un crescente dominio dell’umanità sull’ambiente, clamorosamente smentito (e non confermato, come erroneamente si asserisce) dai disastri ecologici. Un conto è dire che gli esseri umani possono cambiare qualcosa del mondo sociale, in qualche sua parte e con parecchio sforzo; un altro è pretendere, come al tempo della Rivoluzione francese, che una generazione di filosofi, seguita da una generazione di avvocati di provincia, senza alcuna esperienza del governo, potessero trasformare radicalmente la società (il 18 brumaio e poi il ritorno al governo di Talleyrand dimostrarono quanto superficiale fosse stata la rivoluzione): ma appare incredibile la pretesa secondo cui la debole specie umana possa minacciare seriamente altri che sé stessa e le forme di vita immediatamente circostanti.

L’unico vero potere degli umani non sta nella distruzione della natura, ma nella creazione del concetto di natura, ossia di una parola costruita dagli umani e che vale solo per loro: piante, animali, galassie non hanno idea di cosa sia la natura e non se ne curano minimamente. Il fatto che oggi la cura dell’ambiente sia al centro delle agende politiche di tutti i governi degli stati sviluppati, ossia la declinazione politica del concetto di “natura”, è sicuramente un progresso che forse salverà gli umani dall’estinzione, e sarebbe stato inconcepibile cent’anni fa. Ma vale la pena di osservare che questo cambiamento non è avvenuto rinunciando alla tecnologia e consegnandosi disarmati nelle braccia non necessariamente benevole di Madre Natura, ma usando la tecnologia per proteggersi da Madre Natura, che si è manifestata, come spesso le accade, sotto forma di virus, anticicloni africani, inondazioni, terremoti[8]. Non dimentichiamolo mai, una madre (posto che si voglia insistere su questo antropologismo e antropocentrismo a dir poco sospetto) ama allo stesso modo tutti i suoi figli; dunque, non ha ragione di privilegiare gli umani. Noi, invece, ne abbiamo moltissime. Se è così, conviene ricordare una volta di più che nozioni come “natura”, “ecologia”, “vita” sono intrinsecamente antropologiche e non possono essere considerate separatamente dalla forma di vita umana e dai suoi interessi, a cominciare dal progresso. La stessa dimensione etica è antropocentrica, non avendo senso parlare di “etica” in un qualunque altro contesto, pena il ritornare all’animismo dei boschi sacri e alla superstizione dell’aruspicina. Ed è proprio per questo che non si può parlare di natura senza far riferimento alla storia e all’umanità che hanno confezionato il concetto di “natura” con gli stessi apparati concettuali e tecnologici che sono serviti a riscaldare le case d’inverno e a rinfrescarle d’estate. Ma con minore successo, perché è molto più facile intervenire nelle mura domestiche che domare la Natura.

Il nichilismo che, rispetto alla natura, si manifesta con una presunzione di volontà di potenza devastatrice, rispetto alla storia si declina come una nostalgia dell’età dell’oro e nell’idea che l’umanità vada verso il peggio. Nichilismo, qui, è non voler ammettere che se le prime pagine dei giornali, nel luglio 2022, sono dedicate alla morte di escursionisti sui ghiacciai che si sciolgono e degli abitanti di un condominio ucraino centrato da un missile russo è perché queste tragedie – immani, perché ogni morte è la fine di un mondo – non sono oscurate dalle notizie del luglio 1945 (in Nuovo Messico esplode la prima bomba atomica, poche settimane dopo tra centocinquanta e duecentoventimila civili Giapponesi fungeranno da cavie umane); o del luglio 1916, quando ebbe inizio la battaglia della Somme, che in pochi mesi si portò via trecentomila morti, oltre che più di un milione di feriti; o del luglio 1520, quando Hernán Cortés distrusse l’immensa capitale degli Aztechi e avviò un genocidio che in pochi anni vigesimò, per così dire, la popolazione del Messico: da ottanta a quattro milioni.

Nichilismo, così, è non rendersi conto del fatto che l’umanità nel suo insieme non ha mai avuto un tenore di vita così alto e non è mai stata così numerosa; e che proprio questa numerosità determina la catastrofe ambientale. Perché indubbiamente se avessimo gli strumenti tecnici e scientifici del mondo preindustriale l’Europa sarebbe comunque disboscata (il problema era vivissimo nel Settecento, e l’introduzione del carbone come fonte energetica alternativa al legno rispondeva a una preoccupazione ecologica), ma saremmo molto meno numerosi. La nostra vita sarebbe più breve e misera, la mortalità infantile sarebbe enorme, la fatica fisica sarebbe la forma di vita della maggior parte della popolazione. In compenso, la natura, concluderebbe qualcuno, tornerebbe a essere forte, dopo le violenze subite dagli umani. Ma quel qualcuno negherebbe l’evidenza, perché la natura non è mai stata di sana e robusta costituzione come oggi: chiedetelo ai virus e ai batteri, chiedetelo alle zanzare e ai ratti, chiedetelo a Caronte e a Katrina. Una agenda neorealista chiede un cambio di prospettiva. Non la tutela della natura (che non ha bisogno di noi), ma la sua potenza ne fanno oggi una preoccupazione e una minaccia assoluta, prendendo il posto della fame, cioè della scarsità di risorse che sino a ieri era stato il massimo assillo della scimmia nuda.

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Quali alternative per una crescita felice

A questo punto, si aprono due vie. La prima è di tutto riposo e consiste nel denunciare la catastrofe che incombe, quasi che non ce ne fossimo accorti. La seconda, più difficile, consiste nel trovare alternative per uno sviluppo che ci permetta di bilanciare il rapporto con la natura, che non è stato mai così sfavorevole agli umani, sempre più numerosi ed esigenti, di beni e di cure, e dunque sempre più bisognosi e indifesi. Solo un essere umano felice per quanto si può, e libero dalla paura, può rispettare i suoi simili e tutelare l’ambiente, e questa felicità gli è assicurata dall’economia e dalla cultura molto più che dalle buone intenzioni di cui, come sappiamo, è lastricata la via dell’inferno. Non si tratta di deprimere lo sviluppo, ma di adoperarlo per il beneficio dell’umanità nel suo insieme, con quella che è a tutti gli effetti una crescita felice. Per risolvere i problemi sociali e ambientali, così, non ci vuole meno progresso, meno globalizzazione e meno capitale, ma, proprio al contrario, un progresso maggiore perché più consapevole, una globalizzazione che sappia rispondere alle paure di una umanità che si sente marginalizzata rispetto al corso del mondo, e un nuovo capitale che ci permetta di contrastare una natura tanto più forte di noi. In questo quadro, riconoscerci schiavi della natura come ogni altro organismo, ma padroni della tecnica diversamente da qualunque altro organismo o meccanismo, restituisce l’iniziativa (e ovviamente la responsabilità) politica agli umani. Unici tra gli organismi non a morire (muoiono tutti) ma a differire la morte con la tecnica, gli umani sono proprio per questo i signori della tecnica, che senza di loro non avrebbe senso e non andrebbe da nessuna parte. Tuttavia, se chiediamo a qualcuno se la tecnica sia alienazione o rivelazione, la risposta sarà facilmente “la prima delle due”, non solo perché non è chiaro che cosa si intenda con “rivelazione” a proposito della tecnica, ma soprattutto perché una delle prime cose che ci insegnano è che la tecnica è alienante.

Ora, per sostenere che la tecnica ci aliena dobbiamo, a ben vedere, accettare una narrazione piuttosto impegnativa, quella di una natura umana creata da Dio (sia esso quello della tradizione o la nuova dea, Madre Natura), e perciò dotata di ogni virtù, intelligenza e vigore. Ne segue che ogni allontanamento da questo stato non può essere che decadenza. L’essere perfetto incomincia a diventare imperfetto, viene cacciato dal giardino, incomincia ad avere contezza del bene e del male, e si munisce di quel supplemento tecnico che è la foglia di fico, preludio di tutti gli altri supplementi che lo accompagneranno nella sua nuova attività, il lavoro. O, volendo secolarizzare il racconto, il Nobile Selvaggio diviene bugiardo, avido, prepotente, calcolatore, e si incanaglisce nell’inferno della società e in quello della tecnica, tanto che, perduta l’ingenuità, dovrà ripristinare il proprio passato immaginario in forma sentimentale, per esempio con vacanze tropicali o giardini all’inglese, trovandoci però ancora tecnica e società, e dunque sentendosi irrimediabilmente alienato e deportato dal proprio vero sé. Ma non è paradossale che coloro stessi che ritengono di avere un potere di vita e di morte sulla natura credano di essere asserviti alla tecnica, ossia al sistema di apparati che l’animale debole e disadattato ha creato per tutelarsi in un ambiente ostile?

Sperimentata l’inverosimiglianza di questo racconto, vale la pena di prendere in considerazione la narrazione alternativa, e la nozione di “rivelazione” sembrerà meno oscura. Come sospettiamo da sempre – ma come oggi risulta più evidente che mai, per via delle trasformazioni a cui siamo sottoposti – non c’è un umano in sé, e la fonte della nostra umanità non sta dentro ma fuori di noi, nella tecnica e nella cultura. L’umano al naturale è un animale ben più svantaggiato di altri o perché non ha unghie o denti letali, patisce il caldo il freddo molto più di altri viventi, è irrequieto, non ha un ambiente e dunque è disadattato ovunque. Ma da che un bastone è stato adibito a strumento e la prima selce è stata scheggiata per farne un raschietto, da quel momento ha cominciato a esistere un essere umano, cioè qualcosa di diverso dall’animale non umano che era. Fra le varie tecnologie, fondamentale è quella sociale, ossia le istituzioni, nozze, tribunali e are e oggi il nuovo grande patrimonio dell’umanità che va compreso e sfruttato a beneficio dell’umanità, affiancandosi a un’altra tecnologia, il linguaggio che permette, insieme all’arredo domestico, di starsene seduti a raccontare le proprie idee sull’origine dell’uomo invece che correre inseguiti da una tigre coi denti a sciabola.

L’errore peggiore sarebbe credere che con il progresso tecnologico assistiamo a un processo di disumanizzazione. Facendolo, cederemmo a un vecchio fantasma, perché da che l’umano è l’umano uno spettro si aggira per il mondo: le macchine prenderanno il potere, qualcosa che noi stessi abbiamo costruito ci dominerà. È già il caso del Vitello d’Oro, l’idolo che fabbrichiamo e a cui ci sottomettiamo; o degli aiutanti magici (bacchette, spade nella roccia o altro) che ci salvano e creano dipendenza; o del Golem, il finto Adamo che si ribella all’apprendista stregone; o degli umani ridotti a macchina da altre macchine, nelle catene di montaggio, e poi circondati, anche fuori della fabbrica, dalle macchine che hanno costruito; sino allo spettro degli spettri, quello di una intelligenza artificiale stufa di farsi comandare da stupide intelligenze naturali. E non dimentichiamo che lo spettro stesso è una specie di macchina o di automa, così come lo zombie: qualcosa che ha le parvenze dell’umano ma non lo è, e gli è superiore, perché non può morire, dunque non ha paura della morte.

Cacciamo gli spettri. Un bastone è una macchina molto semplice, perciò è molto libera quanto all’uso che se ne può fare (leva, mazza, giavellotto…) e all’utente (uomo, scimmia, castoro…). Un aratro è già molto più dipendente da un utente umano, ma in compenso nell’aratura l’umano è parte di un complesso tecnologico allo stesso titolo dell’aratro e (se gli va bene) del bue. Lo stesso può dirsi di una catena di montaggio. Viceversa, la macchina per eccellenza del secolo scorso, l’automobile, ha bisogno degli umani solo per sapere dove andare, a meno che sia un’auto a guida automatica. E, cosa ancora più importante, lo smartphone, la macchina per eccellenza del nostro tempo, è totalmente dipendente dall’uso che ne possiamo fare e non ha alcun significato al di fuori di quell’uso. A maggior ragione, la macchina universale, la macchina assoluta, ossia l’intelligenza artificiale, consiste esclusivamente nella registrazione e nella elaborazione delle forme di vita umana, ossia si alimenta solo di sangue umano ma, a differenza dei vampiri, non ha alcuna urgenza, bisogno e pulsione: il Web non verrà mai a cercarci, se non lo cerchiamo noi, se non accendiamo la macchina.

Insomma, quanto più una macchina è sofisticata, tanto meno è interessata a prendere il potere, non solo perché è difficile immaginare una macchina interessata a qualcosa, ma perché quanto più una macchina è complessa, tanto più è dipendente dagli umani. Tanto più, dunque, diviene chiara l’identità, che ci eravamo persi per strada, tra l’arte e la tecnica. Un computer senza umani è tanto poco pensabile quanto un tempio o una galleria d’arte in un mondo in cui gli umani non avessero mai messo piede. Imparare a vivere è sempre stato importante, ma lo è ancor di più nel momento in cui la vita umana costituisce il riferimento ultimo degli automatismi, che sono diventati così sofisticati da non richiedere l’umano come attrezzo supplementare, ma dal porlo al centro dell’intero sistema di automazione, che viene a configurarsi per l’appunto come una mimesi dell’umano. Reciprocamente, ciò che chiamiamo “umanità” è una costante cooperazione tra anima e automa, dove però la prima e l’ultima parola spettano sempre all’anima, senza la quale l’automa non ha alcuna ragion d’essere.

Il Capitale è insuperabile?

Mentre l’antropocene annuncia la morte dell’uomo, nel laboratorio accanto si profetizza il superuomo, attraverso il sogno di umani modificati e migliorati dalle macchine, o, inversamente, di macchine che diventano superuomini. Mai superdonne, e questo fa riflettere, né si tratta dell’unica preoccupazione: già la cultura e la ricchezza generano delle differenze, figuriamoci poi i trattamenti tecnologici. Come si comporteranno i postumani con quelli che sono semplicemente umani? Come i sapiens con i neanderthaliani? L’aspetto più manifesto e più problematico del postumanismo, a parte l’errore concettuale che consiste nel pensare che le macchine potranno diventare “più intelligenti” degli umani, pur non possedendo dei corpi, è il fatto che in questa prospettiva prescinde non solo dalla corporeità e dal genere, ma dalla società, visto che le abilità delle superintelligenze non possono essere considerate abilità sociali, o anche semplicemente consapevoli della dimensione sociale, a meno che non si voglia ravvisare una qualche abilità sociale nel giocare a scacchi senza sapere che cosa sia giocare e che cosa siano gli scacchi, e soprattutto senza avere alcuna voglia o piacere di giocare.

I limiti e le possibilità dell’umano non sono definiti dall’individuo isolato, bensì dal contesto sociale, dalle disponibilità patrimoniali, dalle risorse culturali. Non serve costruire una macchina da formula uno se non ci sono piste né l’uso di fare delle gare, e vivere mille anni per trovarsi tra sconosciuti, per diventare degli idiot savants e per prendersi delle sostanze psicotrope invece che andare a cena con amici non sembra una grande prospettiva. Che cosa sia “intelligenza” non lo stabilisce la comparazione tra macchine sempre più potenti, ma il riconoscimento dei caratteri specifici della forma di vita umana, che ci viene permesso dalla cultura. Perché la natura umana è sin dall’inizio una seconda natura, risultato dall’interazione tra l’organismo e il meccanismo, l’anima e l’automa; e lo sviluppo dell’automa è la rivelazione dell’anima, di quello che siamo, nella storia molto lunga che abbiamo alle spalle e in quella che sperabilmente abbiamo di fronte a noi, e che prende le forme di una crescente e sempre più perfetta capitalizzazione di cui al momento il patrimonio dell’umanità costituisce il frutto più maturo.

Ora, tra le rivelazioni della tecnica la maggiore è proprio questa. Ai tempi della Rivoluzione d’ottobre e dell’esaltazione del lavoratore in Ernst Jünger, il futuro dell’umanità aveva una direzione chiara: la fine del capitalismo e il trionfo del lavoro. È successo esattamente il contrario: il lavoro sta sparendo, lentamente ma inesorabilmente, per opera della automazione, e si è creato, accanto al capitale industriale e a quello finanziario, che godono di ottima salute, manifestando una vitalità e ingegnosità che i suoi critici non immaginavano perché ne avevano una visione ridotta e storicamente circoscritta, un nuovissimo capitale, infinitamente più grande e potente, quello su cui propongo di fondare il Webfare. Ma proprio qui ci si imbatte in un inciampo strettamente ideologico, perché la dottrina meglio ripartita nel mondo sostiene che il capitale è insuperabile, e costituisce dunque un male necessario[9], o (che è lo stesso) che il capitale conosce i suoi ultimi giorni, il che spalanca l’abisso del che fare dopo[10]. Non importa chiedersi quanto sincere siano queste preoccupazioni, il fatto è che nascono da un totale fraintendimento della natura del capitale.

Riflettiamoci un istante. Che cosa significano le impronte di mani sulle pareti di una caverna? L’idea un po’ ingenua, un po’ superstiziosa, che tutto quello che non si capisce debba avere un significato religioso ci suggerisce che abbiamo a che fare con i residui di un rito. Ma perché non immaginare una madre preistorica che dice ai figli “smettetela, non vedete che sporcate il muro!” In entrambi i casi avremmo a che fare con delle tracce, volontarie. Più in là, nella caverna, residui di cibo e punte di freccia sono tracce involontarie, che testimoniano di una vita passata. Più in qua, nel tempo, abbiamo le piramidi e i papiri coperti di geroglifici, i codici e le pergamene, le biblioteche barocche e poi quei grandi centri di produzione e distribuzione di documenti che sono le banche e le anagrafi, le borse e gli stati maggiori, i giornali e i governi. Tutto questo è capitale, e nient’altro. Da pochi decenni, inoltre, quella enorme forza di registrazione che è il Web ha moltiplicato al di là di ogni limite umanamente concepibile questa biblioteca di Babele perché con il digitale, diversamente che con l’analogico, tutto lascia traccia e tutto può divenire documento e capitale.

Un capitale che ci permette di far fiorire l’umano invece che vagheggiare il superumano. Sarebbe venir meno al compito che l’umanità ha seguito sin qui non impegnarsi in un cammino di progresso, ossia in ciò che, con una espressione così esatta, Kant definiva “educazione della volontà”, l’unico rimedio alla infinità della volontà di potenza. Certo, dal legno storto dell’umanità non si può ricavare alcunché di perfettamente diritto, ma l’umano è il solo animale che può essere educato. Se insegno a un cavallo a fare evoluzioni in un circo, lo trasformo in un pagliaccio; se e insegno a un bambino a leggere e a scrivere lo rendo più umano. Il problema, oggi come sempre, è che non siamo abbastanza educati, ossia non siamo in grado di guardare al presente e al futuro senza aggrapparci alle abitudini passate, a vecchi modi di vedere le cose, quando non a errori concettuali e a superstizioni belle e buone. Dunque, ciò che si prospetta come la necessità fondamentale per il mondo nuovo che ci aspetta, che non sarà il paradiso (un posto, del resto, un po’ noioso) ma che sicuramente sarà migliore e più giusto di tutto il mondo che ci siamo lasciati alle spalle, è il passaggio dalla preoccupazione per l’automazione a quella per l’educazione. Quando saremo liberati dalla produzione e consegnati al consumo dovremo essere capaci di dare un senso a questo consumo, a concepire una dignità umana che non viene solo dalla fatica, a pensare insomma a una umanità a venire capace di gestire l’otium senza ingrassare o instupidirsi o litigare sulla tastiera.

Qui c’è da riconoscere un punto decisivo, che qualifica la nozione di “patrimonio dell’umanità”. Contrariamente a quanto si può credere, la capacitazione e la cultura non si contrappongono alla capitalizzazione, ma ne sono un prolungamento. L’umanità è sempre stata inserita in un percorso di capitalizzazione: l’umano è il risultato di questo capitale ed esiste in forza di questo capitale. Ecco perché abbiamo il sapere e il saper fare, la scienza e la tecnica. Ecco perché il Webfare deve trasformare diritti astratti come quelli enunciati nelle dichiarazioni dei diritti dell’uomo, i “diritti naturali” [11], che spesso si riducono alla lista di ciò che, nella realtà, viene calpestato prima ancora di essere formulato, in diritti concreti[12]. Quelli di un animale, l’umano, che diversamente da qualunque altro animale è strutturalmente incompleto sino a che non è dotato di un capitale di tecniche, di educazione, e anche di risorse materiali che rendono la vita degna di essere vissuta.

Conclusioni

Mi avvio alla conclusione. Il nostro tempo appare schizofrenico, o almeno fuor di sesto. Siamo perfettamente disposti a riconoscere, quando si parla di teoria della conoscenza, che l’idea di un’anima disincarnata, di un cogito cartesiano composto di una materia inestesa e puramente spirituale, abbia fatto il suo tempo[13]: il che, in questo ambito, significa pianamente che è una idea falsa. Per correggere questa visione limitata e obsoleta si è insistito su quanto gli esseri umani dipendano, anche nella loro conoscenza, dalle emozioni, dalla corporeità, dalle condizioni materiali e storiche della loro vita. Però, quando si tratta di descrivere ciò che importa per un umano nell’esercizio dei suoi diritti, non si parla mai di soldi, preoccupandosi soltanto dei nutrimenti immateriali che possono alimentare sua anima cartesiana. Ovviamente non è così: l’anima cartesiana, lo spettro nella macchina, è una finzione tanto nella teoria della conoscenza quanto nella teoria della giustizia e della società. E l’uguaglianza tra gli umani sulla base della condivisione di un qualche diritto tanto intangibile quanto inattingibile deve essere considerata ben più che come un chimerico punto di partenza da ripristinarsi attraverso un ritorno all’origine, allo stato di natura o all’età dell’oro, come un punto d’arrivo, un fine da perseguire e da conquistare con tutte le risorse della società, dell’economia, della cultura e dell’intelligenza.

Sembra ovvio, ma così non è. Perché proprio l’approccio delle capacità[14], che menziono proprio perché si vuole più effettuale e sostanziosa rispetto a una teoria della giustizia strettamente filosofica[15], si rivela di fatto non meno astratto e non situato del paradigma che contesta. Perché sino a quando non si accompagneranno i princìpi con delle vie concrete per il conseguimento delle risorse attuative questi rimarranno nel cielo delle idee, non importa se buone o cattive, ma pur sempre idee. In effetti, non basta dire che l’approccio per capacitazione è alternativo rispetto a quello basato sul PIL, se non si indica da dove si pensa di trarre le risorse per finanziare un approccio alternativo. Immagino che per attuare il nuovo approccio si ricorrerà a tasse, ma in questo caso la dittatura del PIL è tutt’altro che superata, anzi, costituisce il presupposto dell’approccio della capacitazione, che si traduce semplicemente in un investimento virtuoso del gettito fiscale. Però, se il prelievo fiscale fosse tale da nuocere all’incremento del PIL, l’approccio della capitalizzazione verrebbe immediatamente meno. In questo senso, malgrado l’insistenza con cui si sostiene che l’approccio della capacitazione è alternativo alla socialdemocrazia e al Welfare, è difficile trovare dove risieda la differenza specifica, che appare puramente nominale. Se è così, non solo l’approccio della capacitazione non si differenzia da Welfare e socialdemocrazia, ma ne condivide le due maggiori criticità: il fatto di non poter contare su una base finanziaria alternativa a quella già esistente, e il fatto di proporre interventi a livello statale, con i connessi pericoli quanto alla privacy.[16]. Né la situazione è semplificata dall’intento di estendere l’approccio per capacitazione agli animali non umani. A parte l’aspetto intimamente controverso e non troppo copertamente imperialistico della volontà di diffondere una cultura umanistica (perché questo è l’approccio per capacitazione) presso animali non umani, resta che il tema del reperimento delle risorse si ingigantisce assumendo proporzioni cosmiche.

Non c’è capacitazione senza capitalizzazione, né capitalizzazione senza documentazione. Di qui, per esempio, l’importanza della proposta[17] di stilare certificati di proprietà delle baracche nelle favelas, che permette di compiere un passo in avanti, divenendo proprietari, rispetto a una generica umanità fatta di diritti impalpabili e violabilissimi. A maggior ragione si può ottenere una trasformazione dall’aprire un conto dati in banca per chi non ha soldi ma produce dati[18]. Si tratta di un passaggio abilitante di cui è difficile sopravvalutare l’importanza: senza proprietà non ci sono diritti reali. Possiamo tranquillamente accettare questo principio senza per questo dover comprare l’intero pacchetto del pensiero reazionario, ossia che non esista un progresso. Non c’è dubbio che l’umanità procede verso il meglio, ma questo meglio sarebbe solo apparente se si trattasse di una ennesima compilazione di carte dei diritti dell’uomo e del cittadino. Nel momento in cui, grazie alla capitalizzazione del consumo, si riesce a superare la vecchia regola del “nessun pasto è gratis”, occorre enunciare regola successiva: nessun diritto è gratis. Quanto dire che un diritto a costo zero, un diritto puramente formale, è senza valore, perché si riduce alla affermazione di principi che non rappresentano se non la cattiva coscienza di chi li predica. I diritti sostanziali, invece, sono veri diritti perché vi si accede per esplicita volontà, e si generano dal basso invece che dall’alto, per una adesione volontaria invece che per una concessione sovrana, e per rispondere ai bisogni di un essere che non è un fantasma, ma dispone di un corpo, e delle risorse e delle necessità che ne derivano. Si tratta allora, grazie al patrimonio dell’umanità, di trasformare il circolo vizioso di una umanità emarginata dalla tecnica nel circolo virtuoso della capitalizzazione: generare maggiore ricchezza attraverso l’automazione; sviluppare, nel tempo lasciatoci libero dalla fatica e dalla ripetizione, più scienza e più cultura.

Webfare e banche della virtù: la vera origine del valore dei dati e come redistribuirlo

Se è così, allora Baudelaire aveva più ragione di quanto non credesse quando enunciò la sua boutade reazionaria: la vera civiltà consiste nella diminuzione delle tracce del peccato originale, ossia del fatto che l’umano non sia un essere perfetto e virtuoso corrotto dalla tecnica e dalla società (come sostiene un utopismo sempre pronto a maledire il destino cinico e baro che ci ha impedito di vincere a una lotteria di cui non avevamo comprato il biglietto), bensì un essere radicalmente imperfetto e difettoso, e dunque bisognoso di rimedi che possono venire soltanto dalla tecnica, dal supplemento con cui, sin dall’origine, ha cercato, con relativo successo, di correggere le proprie mancanze. Così che la vera civiltà, l’attenuazione del peccato originale, passa proprio attraverso il gas, il vapore, e i loro successori contemporanei e più compatibili. Quanto ai tavolini parlanti, invece, oggi come ai tempi di Baudelaire sarei più cauto, ma ho il sospetto che siano stati sostituiti dai talk show. E anche questo, malgrado tutto, è un progresso, perché sui problemi del presente anche il più apocalittico dei commentatori la sa più lunga di Cleopatra.

Bibliografia

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De Soto, H. (2000). Il mistero del capitale. Perché il capitalismo ha trionfato in Occidente e ha fallito nel resto del mondo. Milano: Garzanti 2001.

Fisher, M. (2009). Capitalist Realism. Is There No Alternative? Ropley: zero books.

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  1. Baudelaire 1897: XXXII.
  2. Nussbaum 2011.
  3. Latouche 2007.
  4. Hallam 2018.
  5. Rousseau 1754: 48.
  6. Voltaire 1755.
  7. Ellis 2018, Padoa-Schioppa 2021.
  8. queste ultime due manifestazioni della benevolenza della natura sono le uniche che non si ascrivono indirettamente alla malvagità umana, ma si fa presto a recuperare, stigmatizzando la trasandatezza delle amministrazioni nel predisporre strutture antisismiche: ossia, se ci pensiamo, rimproverando gli umani di avere rispettato sin troppo la natura, non contrapponendole delle barriere efficaci.
  9. Fisher 2009, Srnicek-Williams 2015.
  10. Zizek 2011.
  11. Che stanno alla base della richiesta di un reddito universale, cfr. Van Parijs – Vanderborght 2006. Oltre al fatto che la nozione di “diritti naturali” è intrinsecamente inconsistente (physis e nomos sono antitetiche, non complementari), il problema è che, a questo punto, la coerente applicazione del salario universale si rivela inefficace nella soluzione del problema della capacitazione. Da una parte, infatti, nella sua formulazione originaria la proposta sul salario universale non poteva fare affidamento sul patrimonio dell’umanità, e dunque non poteva ridistribuire alcuna somma significativa. Dall’altra, quando pure si potesse fare affidamento sul nuovo patrimonio, la sua suddivisione fra tutti i membri dell’umanità, oltre a essere praticamente inattuabile (tutti gli stati accetterebbero l’attribuzione diretta? Il salario va anche i carcerati e agli infermi? Possediamo una anagrafe aggiornata dell’intera umanità?) produrrebbe, per chi veramente ha bisogno, somme insufficienti a cambiar vita.
  12. “A cosa serve discutere sul diritto astratto dell’uomo al cibo o alla medicina? Dovremmo invece chiederci come procurarli e amministrarli, e per questo fine bisogna chiedere l’aiuto dell’agricoltore e del medico, piuttosto che del professore di metafisica. Burke 1790: 180.
  13. Varela, Thompson, Rosch, 1991.
  14. Nussbaum 2010.
  15. Rawls 1971.
  16. Il non prevedere l’intervento prioritario di corpi intermedi su base volontaria, e l’affidarsi prioritariamente alla mano pubblica, rende poi difficile sottrarsi all’impressione che, mentre i presidenti americani cercano di esportare la democrazia nel mondo, la filosofa americana vuole esportare la socialdemocrazia, sotto altro nome, e in Paesi che non l’hanno attuato perché non ne hanno le risorse. Sospettando che il suo approccio per capacitazione sia in effetti una forma di imperialismo del buon cuore, Nussbaum dedica pagine molto aggressive nel negare che l’approccio delle capacità abbia alcunché a che fare con l’esportazione della democrazia. Giusto per dire quale sia l’argomento più forte a cui ricorre, sostiene che gli inglesi in India non hanno affatto applicato la democrazia e i diritti umani. Interessante, intanto, che nel caso di figura i cattivi siano gli Inglesi. Ciò detto, il fatto che gli Americani fossero schiavisti nell’Ottocento non comporta che abbiano rinunciato a esportare la democrazia e l’approccio per capacitazione, come gli Afghani sanno meglio di altri.
  17. Avanzata nel 2003 dall’allora Presidente del Brasile Luiz Inácio Lula da Silva sulla base della proposta teorica di De Soto 2000.
  18. “In questa società tutti gli uomini hanno gli stessi diritti, ma non le stesse cose punto chi ha investito nella società solo cinque scellini allo stesso diritto di chi ha investito cinquecento sterline, a cui spetta una proporzione maggiore di utile ma non ha diritto a un dividendo uguale del prodotto del capitale comune.” Così Burke (1790: 176). Nella mia ipotesi, invece, si crea un percorso alternativo in cui chi non ha investito nemmeno uno scellino, ma ha generato dati, può ricevere una parte di patrimonio dell’umanità.

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