Passiamo in media più di due ore e mezza al giorno connessi. Si tratta di una media che tiene in considerazione la fascia d’età 18-74; il numero sale a tre ore se si escudono i soggetti con più di 55 anni (Audiweb, 2023). Sono numeri che vanno letti in prospettiva e che tengono conto solo di attività desktop e mobile; sono esclusi quindi altri modi di essere connessi, come per esempio tramite console di videogiochi. Sebbene generali, questi dati danno l’idea di quanto la distinzione tra online e offline sia sempre più relativa.
E non c’è dubbio debba esserlo. Oltre che un piacevole passatempo, essere connessi è importante per l’accesso a servizi ed in campo lavorativo e relazionale; potremmo dire che non possiamo immaginare di vivere senza. Ma come ogni mezzo e strumento, Internet dà opportunità e svantaggi, potenzialità e rischi. Un uso inappropriato può portare a problematiche di vario tipo che toccano diversi ambiti: privacy, dinformazione, truffe.
Nell’ambito della salute mentale, poi, l’impatto negativo può riguardare aree specifiche come le dipendenze, o generali, come il degrado di funzioni cognitive (tipicamente memoria e attenzione) o l’insorgenza di stati depressivi. Il declino nelle funzioni mentali, cognitive ed emotive, derivato dall’utilizzo eccessivo, dal vero e proprio abuso delle tecnologie, è quello che Spitzer definisce “demenza digitale” (Spitzer, 2013).
Che cos’è la digital dementia
Il termine “digital dementia”, demenza digitale, è stato introdotto da Spitzer, psichiatra e neuroscienziato, nel suo “Demenza digitale. Come la nuova tecnologia ci rende stupidi”. E’ qui che Spitzer definisce la demenza digitale come un declino generale delle capacità mentali in termini di disturbi della memoria, dell’attenzione ed emotivi. La diagnosi di demenza digitale racchiude una costellazione di sintomi, che, analogamente alle già note forme di demenza come l’Alzheimer, rappresentano un deterioramento cognitivo progressivo, cronico e irreversibile. Le demenze sono patologie cerebrali a cui afferiscono problematiche di diversa tipologia e gravità relative a molte funzioni cognitive tra cui la compromissione della memoria (a breve e a lungo termine), della capacità di pensiero, del linguaggio; ancora, altri sintomi riguardano la sfera delle emozioni e del comportamento (Sandu e Nistor, 2020).
Nella sua forma digitale la demenza è causata dall’uso intensivo e prolungato di Internet ed in generale delle tecnologie digitali. Secondo Spitzer questo uso inappropriato va a ledere irrimediabilmente alcune delle capacità cognitive più importanti, come memoria ed attenzione, oltre a compromettere negativamente gli stati emotivi (Spitzer, 2013). Lo stile di vita dipendente dall’essere connessi stimola sempre meno alcune vie sinaptiche, a partire da quelle coinvolte nella memoria a breve termine. Le aree corticali deputate a rispondere a determinati stimoli non vengono sollecitate adeguatamente col risultato che certi percorsi neurali vengono deteriorati.
L’insorgenza e la progressione della demenza digitale dipendono, sempre secondo Spitzer (2013), dal grado di sviluppo delle risorse cognitive a cui la persona può attingere: più sono ricche le riserve cognitive, più tardi inizierà il degrado mentale. Infatti, bimbi e adolescenti sono più a rischio, considerando anche che i più piccoli sono particolarmente ricettivi dal punto di vista neuronale; ma anche utilizzare troppo i dispositivi mobili e fare online più cose contemporaneamente ha un impatto negativo sull’immagazzinamento delle informazioni in memoria e riduce le prestazioni attentive (Yamamoto et al., 2018; Sandu e Nistor, 2020).
Imparare e regolarsi: nuove abitudini, autoregolazione e attenzione
Essere perennemente connessi non ha introdotto solo nuove abitudini ma, soprattutto, nuovi modi di approcciarsi alle cose. Scrollare i feed dei social per passare il tempo, affidare ai sistemi in cloud la custodia delle informazioni, anche le più importanti, relegare al calendario digitale il ricordo di date e numeri di telefono, senza fare affidamento sulla nostra memoria personale, significa che, a un certo punto, una parte del nostro pensiero cambia. Soprattutto il pensiero critico e riflessivo. Non è tanto il fatto di utilizzare un mezzo esterno ad incidere, le agende cartacee usate per ricordare appuntamenti e ricorrenze ci sono sempre state; il problema sorge quando strumenti digitali non fungono solo da supporto ma si sostituiscono a noi: la conseguenza è di andare a minare le nostre capacità e competenze in termini di attenzione, memoria e pensiero (Spitzer, 2013).
L’abitudine di cercare un’informazione su Google prima ancora di recuperare ciò che ci ricordiamo e cosa abbiamo appreso a riguardo, influisce sulla memoria che non viene sfruttata appieno e, nel tempo, regredisce. In seconda battuta, questo vuol dire rinunciare alla costruzione del proprio pensiero critico rispetto alle informazioni ottenute.
Per esempio, i feed di social e app sono programmati per erogare contenuti che siano in linea con le nostre preferenze; o almeno quelle che hanno rilevato essere tali; questo implica che non scegliamo attivamente a cosa essere esposti. Ciò mantiene la nostra attenzione forzatamente focalizzata su alcuni elementi e discapito di altri, quasi sempre nemmeno ce ne rendiamo conto; questo incide negativamente sulla nostra capacità di autoregolamentazione. Per fare un altro esempio, abbiamo appreso a controllare lo smartphone appena svegli; per noi è automatico farlo anche quando non abbiamo in mente uno scopo specifico; del resto non abbiamo avuto modi per apprendere il contrario: cioè a regolare quanto e come siamo connessi (Cramer, 2015).
Andare o restare?
Che un uso eccessivo delle tecnologie digitali possa provocare danni di molti tipi è ben noto in letteratura; molte pubblicazioni scientifiche evidenziano le conseguenze negative sulle capacità cognitive ed emotive.
Horoszkiewicz (2022) collega la demenza digitale ad altri fenomeni che hanno conseguenze su comportamento ed emozioni tra cui la fomo, fear of missing out (la paura e l’ansia derivate dal timore di perdersi qualcosa se non si è connessi e che porta a strategie compensative come il controllo compulsivo dei social) e il phubbing (la situazione in cui una persona ignora il proprio interlocutore e l’interazione sociale perché intento a rivolgere la sua attenzione al proprio telefono). Secondo Horoszkiewicz sono fattori che predispondono alla demenza digitale e che portano a peggioramento dell’umore e della qualità delle relazioni, scarsa autostima, ed in generale a esperienze emotive povere.
La demenza digitale non è solo un degrado cognitivo derivante dall’uso eccessivo di nuove tecnologie digitali; implica un deterioramento del pensiero critico, del pensiero attivo, della consapevolezza razionale.
Conclusioni
Chiaramente, pensare di tagliare fuori dalla nostra vita le tecnologie digitali è fuori discussione. Non solo sarebbe anacronistico ma anche del tutto irreale. Quando una nuova tecnologia viene introdotta, quello che c’è da fare è integrarla nello stato attuale e accogliere i miglioramenti che porta. La fuga dalla tecnologia moderna quindi non avrebbe molto senso, ma utilizzarla in maniera razionale e corretta sì.
Scappare quindi non è una risposta; va trovato il giusto equilibrio. Essere consapevoli delle conseguenze negative di un uso eccessivo di Internet dovrebbe essere un’opportunità per valorizzare l’importanza dello strumento più importante che abbiamo: il nostro cervello.
Bibliografia
Audiweb (2023). Total Digital Audience Report Luglio.
Cramer, T. (2015). The scourge of the infinite scroll. EContent, 38(9), 4-5.
Horoszkiewicz, B. (2022). Digital dementia and its impact on human cognitive and emotional functioning. Journal of Education, Health and Sport, 12(11), 290-296.
Sandu, A., & Nistor, P. (2020). Digital Dementia. Eastern-European Journal of Medical Humanities and Bioethics, 4 (1), 1-6.
Spitzer, M. (2013). Demenza digitale. Come la nuova tecnologia ci rende stupidi. Edizioni Corbaccio.
Yamamoto, H., Ito, K., Honda, C., & Aramaki, E. (2018). Does digital dementia exist?. In 2018 AAAI Spring Symposium.