Nel corso delle lunghe settimane di quarantena culminate il 4 maggio nell’avvio della cosiddetta “Fase 2”, è stato subito evidente come una volta costretti a congelare i nostri corpi nelle singole abitazioni, per evitare il loro reciproco contagio, ci siamo subito affidati alle nostre identità digitali – soprattutto, all’interno dei social network – per continuare a svolgere la vita interrotta di colpo dalla pandemia.
Ogni nostro profilo social si fa letteralmente corpo: utilizza le riflessioni scritte, le immagini e i suoni che veicola verso e con gli altri, di modo da trasformare gli schermi nelle interfacce privilegiate per le relazioni sociali.
Ha avuto luogo, in altre parole, il repentino mutamento del soggetto in carne e ossa nel messaggio che egli intende comunicare, mettendo così a frutto le caratteristiche intersoggettive di ogni abitazione virtuale. Ne è seguito il momentaneo scorporamento della realtà onlife, termine con cui si indica un mondo in cui non ha più senso la distinzione tra essere online e essere offline, in due forme di vita oggi separate più che mai:
- la vita offline, regolata dal distanziamento sociale e dal divieto di assembramento, quindi segnata da un palese immobilismo fisico;
- la vita online, caratterizzata invece dall’incremento ossessivo della vicinanza e del contatto reciproco, dunque una vita attiva e mobile più che mai.
Tale incremento si concretizza nei più svariati modi: le visite virtuali ai musei divenuti inaccessibili ai corpi, gli apericena collettivi tramite piattaforme come Skype, Webex, ecc., la partecipazione ai concerti registrati e condivisi su YouTube dagli artisti e la presenza a un numero incalcolabile di “webinar”, termine fino a ieri pressoché inutilizzato e oggi adottato quotidianamente per indicare gli incontri pubblici online. Ma anche, come ho sottolineato in questo articolo, le video-chiamate con i malati ricoverati in ospedale, i quali non possono ricevere le consuete visite, e i funerali in streaming, costretti a svolgere quel ruolo rituale che fino a qualche mese fa spettava alle celebrazioni in chiesa e al cimitero.
Il racconto della quarantena su Facebook
Punto di riferimento delle relazioni sociali online è, senza dubbio, Facebook, il quale ha rappresentato fin dall’inizio dell’emergenza il luogo per eccellenza della narrazione e dell’informazione, disponibile 24/7 e in grado di surclassare la radio e la televisione. Le sue specifiche caratteristiche consistono nel privilegiare la scrittura, all’interno di uno spazio che non mette limiti al numero di battute, e nella proficua integrazione delle parole scritte con le immagini e i suoni. Questo permette a Facebook di imporsi come il riferimento narrativo e comunicativo essenziale per conoscere i fatti, man mano che si avvicendano, ponendo i suoi utenti nella condizione di discuterli e di interpretarli all’interno di una dimensione comunitaria.
Il quotidiano assemblaggio dei frammenti narrativi, provenienti tanto dalle riflessioni personali degli utenti quanto dagli articoli condivisi dai siti online dei principali giornali nazionali, delle riviste specializzate e dei singoli blog ci ha permesso di seguire istante per istante l’evoluzione della pandemia e dell’emergenza.
La sezione Ricordi, a partire dal prossimo anno e per un tempo del tutto indeterminato, offrirà agli storici e agli studiosi in genere un composito insieme di testimonianze con cui sarà possibile ricostruire dettagliatamente gli eventi e i comportamenti sociali e culturali di milioni di persone. Avremo a disposizione il materiale linguistico specifico utilizzato durante la pandemia (“distanziamento sociale”, “patologie pregresse”, “lockdown”, “assembramento”, “webinar”, ecc.). Potremo, quindi, ricostruire le progressive fasi dello sviluppo del contagio: dagli sconclusionati post di chi riteneva un gesto rivoluzionario uscire di casa alle rappresentazioni audiovisive dei flashmob delle 18, dalle tormentate polemiche sui runner alla nascita delle “bimbe di Giuseppe Conte”, dalle fotografie delle pizze fai da te del sabato sera alle descrizioni di una Pasqua 2020 segnata dalla reclusione casalinga forzata.
La dimostrazione dell’importanza storica dell’uso dei social network in questo particolare momento storico è data dalle attività del gruppo pubblico “Noi denunceremo” che, con più di trentaduemila iscritti, raccoglie le numerose e dettagliate storie personali delle vittime lombarde di Covid-19, scritte dai parenti per dare loro giustizia e visibilità. “Noi denunceremo” è un prezioso contenitore di testimonianze storiche che possono essere lette, ricondivise e dunque diffuse ad libitum da una comunità composta da decine di migliaia di persone. Ciò che rende questo gruppo un documento storico estremamente prezioso è l’integrazione dei post scritti con le immagini fotografiche che ritraggono la persona deceduta, la quale – in molti casi – viene taggata affinché gli utenti del gruppo vadano sul suo personale profilo Facebook. Addirittura, alcuni partecipanti condividono le registrazioni delle video-chiamate d’addio, l’unica forma di comunicazione consentita tra i malati – isolati e intubati nei reparti di terapia intensiva – e i loro parenti. L’obiettivo ultimo degli amministratori di “Noi denunceremo” è affiancare all’attività online quella offline: creare, cioè, una sorta di associazione per rivendicare i diritti di coloro che hanno subito ingiustizie durante la pandemia.
La pandemia su Instagram e TikTok
Se Facebook e Twitter privilegiano la scrittura per la narrazione degli eventi, Instagram offre un prezioso archivio di video e immagini personali in relazione all’emergenza epidemiologica da Covid-19, la cui utilità è enfatizzata dal cosiddetto “Co-watching”. Si tratta di una inedita opzione che dà a più persone, attive in una videochiamata di gruppo, la possibilità di guardare insieme immagini fotografiche e video precedentemente salvati o suggeriti da altri utenti. Il suo scopo è creare comunità, in un momento in cui l’isolamento sociale è stato imposto nel mondo offline. Il tutto, ovviamente, può essere registrato e archiviato.
Tik Tok, a sua volta, ha creato una specifica sezione denominata “Covid-19”, la quale rimanda immediatamente l’utente a tutti quei post esclusivamente incentrati sulla pandemia. Innanzitutto, vi è un rimando alla pagina della Croce Rossa, in cui gli operatori sanitari adattano i loro consigli alle specifiche caratteristiche della popolare applicazione. Quindi, rinvia all’insieme di condivisioni dei singoli utenti che integrano il tipico dubbing delle canzoni con le più fantasiose idee riguardanti l’emergenza: spopolano, per esempio, tutti i video in cui si mima il lavaggio delle mani o in cui si invitano gli utenti a stare a casa.
Riconsiderare il nostro rapporto con gli schermi
Tutte queste opportunità e testimonianze offerte dall’uso dei social network hanno spinto numerosi studiosi, fino a ieri scettici nei confronti dell’iperconnessione, a comprendere – finalmente? – che gli schermi non sono semplici superfici che mostrano immagini.
Piuttosto rilevante, a riguardo, è quella sorta di mea culpa che Sherry Turkle ha fatto sulle pagine del New York Times, in un articolo datato 31 marzo 2020 e intitolato emblematicamente Coronavirus Ended the Screen-Time Debate. Screens Won. Finora abbiamo conosciuto il pensiero di Turkle soprattutto tramite la lettura di Alone Together, incentrata sulla mancanza di attenzione reciproca quale prima conseguenza delle nostre vite iperconnesse nella dimensione online, e di Reclaiming Conversation, in cui la studiosa ha ripetuto fino allo sfinimento il bisogno di recuperare la conversazione vis-à-vis in un’epoca in cui la stiamo perdendo a causa di Internet. In quest’ultimo libro in particolare, Turkle sostiene che abbiamo intrapreso “un viaggio nell’oblio” suddiviso in due momenti: il primo è il momento in cui abbiamo barattato i rapporti fisici con quelli attraverso le macchine. Il secondo è quello in cui addirittura siamo passati dal dialogo attraverso le macchine al dialogo con le macchine (per esempio, i vari assistenti vocali in stile Alexa). Ora, la studiosa statunitense fa un passo indietro e, nel menzionato articolo del New York Times, ammette di non aver messo bene a fuoco la propria critica: “costretti a rimanere da soli ma volendo stare insieme (together but alone), moltissimi stanno scoprendo cosa dovrebbe essere il tempo davanti agli schermi”.
Dovrebbe riguardare l’apprendimento e il collegamento e dovrebbe essere umanizzante, conclude Turkle. Come ha evidenziato lo studioso dei media Paolo Casani nei commenti a un mio post su Facebook, Turkle ha ribaltato l’espressione con cui ha intitolato il suo più famoso libro e con cui ha descritto la vita online pre-Coronavirus, cioè alone together, nell’espressione together but alone, quale punto di partenza per riconsiderare il nostro rapporto con gli schermi.
Riprendendo le osservazioni di Turkle, Mauro Carbone, in un interessante articolo dal titolo L’epidemia degli schermi, nota come il Coronavirus, a distanza di trent’anni dalla diffusione popolare dell’uso di Internet, ci abbia messo dinanzi alla consapevolezza oggettiva delle potenzialità sociali e culturali insite negli schermi: “non ci siamo più limitati a scambiarci foto di cibo prima di assaggiarlo, ma abbiamo preso a consumarlo insieme grazie agli schermi”. Carbone, lungi dall’ignorare il fatto che consumavamo il cibo insieme grazie agli schermi ben prima della pandemia, evidenzia tuttavia un errore metodologico generalmente commesso dagli studiosi: se sono abbondanti le ricerche erudite di natura archeologica o genealogica sugli schermi, carenti invece risultano quelle che mirano a comprendere il nesso tra le esperienze collettive, sociali e culturali e l’uso degli schermi. Egli ritiene necessario sviluppare una ricerca multidisciplinare “che si concentri sullo studio non degli schermi, ma delle esperienze schermiche multimodali”. Conclude, pertanto, sottolineando l’urgenza di “una pragmatica delle esperienze schermiche”.
Uomini, social e riti funebri
Ora, tentando di integrare l’iniziale descrizione delle attività sociali online al tempo del Coronavirus con le osservazioni di Turkle e di Carbone, farò un paio di riflessioni conclusive quali spunti su cui ragionare.
In primo luogo, come ho ampiamente evidenziato nei libri La morte si fa social e Ricordati di me, già prima della pandemia era del tutto impensabile riuscire a comprendere il ruolo delle tecnologie digitali nelle nostre vite a prescindere dall’osservazione diretta dei comportamenti sociali e culturali sviluppatisi progressivamente all’interno della dimensione online. Nell’ambito del rapporto tra gli schermi e i riti funebri, già nel 1995 si parla di “cimiteri virtuali”. Il primo è il World Wide Cemetery, creato il 28 aprile 1995 dal canadese Mike Kibbee, subito dopo aver scoperto di essere malato di cancro, e finalizzato a tener viva la memoria dei defunti all’interno di un contesto arcaicamente interattivo. A partire dal 1997 gli studiosi nell’ambito dei Death Studies hanno quotidianamente a che fare con concetti come Thanatechnology, coniato dalla sociologa Carla Sofka, Thanatosensitivity, coniato da Michael Massimi e Andrea Charise, e Posthumous Interaction, usato soprattutto da Cristiano Maciel e Vinicius Carvalho Pereira.
Questi concetti, insieme a molti altri di natura simile, mettono in luce – da decenni – i molteplici modi in cui le tecnologie digitali si intromettono sia positivamente che negativamente nel rapporto tra gli esseri umani e i riti funebri, modificandoli in maniera sostanziosa.
Chi oggi si stupisce, poi, dell’utilizzo delle video-chiamate negli ospedali e di gruppi pubblici come “Noi denunceremo” ignora, probabilmente, l’esistenza del fenomeno dei cancer blogger, attivo da diversi anni, nonché dell’uso dei social network in presenza di un grave lutto. Se si digita, per esempio, su YouTube un’espressione come “Death of a parent” è possibile individuare più di 230.000 video, la maggior parte dei quali contengono descrizioni audiovisive dettagliate di un lutto patito e un’interazione collettiva che non ha minimamente luogo nella dimensione offline. Materiale che genera testimonianze e narrazioni a partire dalle quali si possono articolare analisi di natura filosofica, sociologica, antropologica, psicologica, ecc. Chi oggi, infine, si stupisce piacevolmente degli aperitivi o delle cene interattive, in assenza del contatto fisico, probabilmente ignora fenomeni come il mukbang, sempre su YouTube, che da anni ha modificato il nostro modo di concepire le cene sociali. Risultato della crasi in lingua coreana tra “mangiare” e “broadcast”, il mukbang indica un insieme di video in streaming in cui i singoli utenti si riprendono mentre mangiano, chattando in contemporanea nello spazio dedito ai commenti scritti con centinaia o migliaia di utenti collegati.
In altre parole, non serviva certo il Coronavirus per scoprire la funzione sociale e culturale dei social network; bastava addentrarsi nei loro meandri, osservando con attenzione e senza preconcetti il comportamento degli utenti. Non a caso, il già più volte menzionato concetto “onlife”, coniato da Luciano Floridi e oramai di uso comune, va interpretato – a mio modo di vedere – come conseguenza dei nostri comportamenti più volte reiterati nel mondo online, non come loro causa o origine.
Il lock down e la crisi della esistenza onlife
In secondo luogo, evidenziare in questo preciso periodo storico il ruolo sociale degli schermi può essere fuorviante, se – al tempo stesso – non ci si rende conto che il lock down ha messo momentaneamente in crisi le basi per una sana esistenza onlife. Come detto all’inizio dell’articolo, la quarantena ha infatti determinato la sostituzione della nostra presenza fisica con quella digitale e non la loro integrazione, già ampiamente in atto. Noi siamo fisicamente immobili dentro i nostri appartamenti; tutta la mobilità a nostra disposizione è lasciata alle identità digitali che ci rappresentano nella vita online, quasi come se fossero i nostri avatar.
Non vi è – attualmente – un equilibrio tra la vita online e quella offline. Se non capiamo questo, a causa di una costante sottovalutazione dei comportamenti sociali e culturali nella dimensione online pre-Coronavirus, rischiamo di non cogliere le trappole insite nell’odierna situazione emergenziale.
Mi ha colpito molto leggere un articolo di Olga Tokarczuk, premio Nobel per la letteratura, scritto per la Frankfurter Allgemeine Zeitung e tradotto in italiano dal Corriere della Sera il 02 aprile 2020. La scrittrice evidenzia un cambiamento di velocità significativo nei ritmi della nostra vita quotidiana.
Prima del Covid-19 eravamo iperattivi e privi di tempo, ora stiamo recuperando – osserva la scrittrice – la necessaria lentezza per salvaguardare il nostro benessere psicofisico. Affermando di non patire l’isolamento, Tokarczuk scrive che non è dispiaciuta per la chiusura dei cinema e dei centri commerciali, ammette di aver provato “qualcosa di simile a un sollievo” quando ha saputo della quarantena e sostiene che la sua introversione “costretta e maltrattata dai dettami degli estroversi iperattivi, si è data una spolverata ed è uscita dall’armadio”. Le riflessioni della scrittrice polacca, seppur ricche di spunti, hanno un loro senso specifico solo per coloro che possono permettersi di stare completamente offline e che godono di un oggettivo benessere economico, lavorativo e sociale. In tal caso, le differenze di velocità tra il mondo precedente e quello odierno sono evidenti ed è possibile ammirare – insieme a Tokarczuk – l’avvocato che, solitamente molto indaffarato, “indossa una tuta sformata e combatte con un ramo in giardino, forse si è messo a fare le pulizie”.
Chi invece subisce l’attuale esclusività vitale della dimensione online, per ragioni lavorative o per una propria predisposizione all’iperconnessione, vive sulla propria pelle le problematicità che Turkle attribuiva all’era digitale pre-Coronavirus. L’impossibilità di uscire dall’abitazione non solo non determina un rallentamento di velocità dei nostri ritmi quotidiani, ma anzi accentua il senso di soffocamento, di isolamento e di alienazione. Senza alternative alla reclusione casalinga, diventa difficile procrastinare le risposte alle mail che continuano, numerose, ad arrivare a qualsiasi ora della giornata. Diventa difficile declinare gli inviti agli avvenimenti pubblici online, diventa altrettanto difficile porre dei limiti allo smart working, nel momento in cui non si percepisce la differenza tra i giorni feriali e quelli festivi, diventa ancora più difficile non prendere parte all’ossessione collettiva di “fare cose online” (basta osservare le Storie su Instagram per rendersi conto di questa ossessione). Senza considerare lo stress psicologico che deriva dalla ricezione continua di aggiornamenti in tempo reale relativi alla pandemia. In altre parole, se si identifica oggi la propria vita con quella online, messi in standby i corpi, diventa particolarmente complesso disconnettersi, subendo gli effetti negativi di una dimensione online che non ha modo di essere salubremente integrata da quella offline.
Conclusioni
In definitiva, l’emergenza epidemiologica da Covid-19 mette in luce, da una parte, le prerogative intersoggettive dei social network e di internet in generale, i quali mai come oggi rappresentano forme di narrazione e di comunicazione imprescindibili, su cui occorre prestare sempre più attenzione. Aspetto, questo, spesso trascurato dagli studiosi intenti a soffermarsi sugli aspetti tecnici relativi all’uso degli schermi e non sui comportamenti effettivi che hanno luogo attraverso gli schermi. Dall’altra, tuttavia, determina una marcata distinzione – qualitativa e quantitativa – tra la vita offline bloccata dentro gli appartamenti e la vita online iperattiva. Occorre non trascurare questa distinzione e le sue conseguenze. È elevato, infatti, il rischio di ritenere oggi desiderabile la sostituzione della fragile presenza corporea con le identità digitali immuni al virus.
Il risultato non potrà che essere tanto una sicura difesa dei corpi dal contagio, sempre più distanziati gli uni dagli altri, quanto una vita ancora più alienata e soffocata dalla necessità di essere sempre attivi e presenti, con gravi danni di natura psicologica e psichiatrica.