Digitale e abusi di potere

L’Antitrust Usa contro le big tech: le accuse e le conseguenze del cambio di rotta

Contro le quattro più importanti aziende dell’ecosistema digitale – Facebook, Apple, Amazon e Google – le accuse mosse dall’Antitrust Usa sono pesanti. Le risposte poco credibili. L’esito delle indagini è ancora incerto, ma una cosa sembra chiara: il vento sta cambiando

Pubblicato il 10 Ago 2020

Marina Rita Carbone

Consulente privacy

Mark Zuckerberg, Ceo Facebook

Le lacune normative esistenti hanno consentito alle Big Tech di imporre il loro diktat sul mercato per troppo tempo, consentendo l’insorgere di fenomeni di abuso di potere e mancanza di trasparenza, a danno degli utenti e dei venditori.

Possiamo perciò già definire “storica” l’audizione di Mark Zuckerberg, Tim Cook, Jeff Bezos e Sundar Pichai – i numeri uno di Facebook, Apple, Amazon e Google – al sottocomitato Antitrust della Camera Usa, che rappresenta solo uno dei tasselli di una battaglia che ha come scopo quello di mettere, in via definitiva, un limite allo strapotere delle Big Tech, sinora impossibile anche solo da scalfire nonostante i numerosi scandali (primo fra tutti, Cambridge Analytica).

Quali saranno gli esiti non è ancora dato saperlo, ma una cosa è certa: l’atteggiamento nei confronti delle big tech comincia a cambiare sul serio anche oltreoceano.

I fatti

Il 29 luglio 2020, quattro dei più potenti uomini sulla terra sono stati chiamati a testimoniare dinanzi al Congresso degli Stati Uniti per rispondere delle pratiche anticoncorrenziali sinora attuate, volte alla “cannibalizzazione” e all’annientamento di potenziali competitor, e al mantenimento del proprio predominio globale.

Tale data segna un traguardo storico, in quanto ci troviamo dinanzi al processo più importante dell’era del digitale, della tecnologia 4.0 e del Web. L’audizione, frutto di un’indagine durata più di un anno che ha analizzato oltre un milione di documenti.

L’indagine Antitrust

È indubbio che la crescita delle Big tech sia stata, negli ultimi anni, inarrestabile ed esponenziale: piccole società nate in un piccolo garage da una grande idea e tutto il resto è storia.

Tuttavia, nel corso di tale crescita, le Autorità hanno potuto osservare quanto il vigente sistema normativo fosse impreparato ad accogliere simili fenomeni, sviluppandosi, questi ultimi, al di fuori dei confini tradizionali, in uno spazio (quello della rete) che gode di regole ben diverse da quelle precedentemente conosciute.

Non solo: la crescente digitalizzazione ha reso molto più “semplice” l’ascesa delle Big Tech, consentendo loro (non senza merito) di occupare un posto fondamentale nella vita di tutti noi, in particolar modo delle nuove generazioni, i cosiddetti nativi digitali. La migrazione del commercio sulle piattaforme digitali ha creato altresì una inevitabile dipendenza dei venditori terzi dalle Big tech, creando un mercato del tutto parallelo rispetto a quello tradizionale.

L’aumento costante delle disponibilità economiche dei colossi del web e la citata dipendenza dei venditori terzi ha determinato anche l’insorgere di due principali fenomeni:

  • Lo sfruttamento dei dati ottenuti dalle piattaforme digitali al fine di studiare e, conseguentemente, eliminare la concorrenza;
  • L’acquisto massivo delle startup al fine di limitare la nascita di potenziali minacce per la posizione dominante acquisita.

Per tale ragione, le Autorità (sia statunitensi che europee) hanno chiesto la produzione di milioni e milioni di documenti inerenti alle acquisizioni realizzate negli anni che potessero aiutarle a comprendere se, dietro tali fenomeni, potessero sussistere delle situazioni di abuso a danno dei rivali e dei consumatori.

La disclosure di materiale a sostegno di tali teorie e l’atteggiamento poco trasparente adottato dai rispettivi CEOs, hanno comportato un severo inasprimento delle accuse nei confronti dei colossi digitali, alle quali oggi, tuttavia, non sono seguite efficaci conseguenze (nonostante l’entità delle sanzioni irrogate in passato, in particolar modo dalle Autorità Europee, fosse in grado di piegare l’economia di interi stati).

Un “lupo vestito da lupo”

Sebbene i rappresentanti delle quattro società siano stati interrogati congiuntamente, le accuse poste ad ognuna sono differenti, accomunate da un lungo filo rosso, ossia la strategia di “cannibalizzazione” e distorsione del mercato digitale. Strategia della quale, occorre dirlo, non si conoscono ancora pienamente gli esatti confini ed elementi caratteristici.

In particolare:

  • Facebook è indagata per aver posto in essere delle acquisizioni “massive” di potenziali competitor, secondo una strategia “copy-acquire-kill” tra cui: Whatsapp, Instagram e Giphy, oltre ad innumerevoli piccole start-up;
  • Apple è indagata non solo per aver proposto sul mercato delle app proprietarie il cui funzionamento simula quello di altre società, ma anche per aver promosso, all’interno del proprio App Store, tali applicazioni in modo scorretto e preferenziale. Non solo: le commissioni applicate sulle app di terzi, necessarie al fine di consentire l’installazione delle stesse sul dispositivo, sarebbero eccessivamente alte;
  • Google è indagata per aver acquisito il monopolio delle ricerche e dell’advertising a livello mondiale, per aver copiato i contenuti di siti web sviluppati da terzi e per aver, al pari di Facebook, cannibalizzato molte delle sue concorrenti. Discussa è anche la gestione del Play Store, piattaforma fondamentale per l’installazione di apps sui dispositivi Android e per gli acquisti in-store;
  • Amazon, infine, è sotto i riflettori per abuso di posizione dominante, in quanto non è chiaro quale sia il confine fra il suo ruolo di venditore al dettaglio e quello, invece, di piattaforma di e-commerce. A tale fattore si aggiungono le numerose politiche preferenziali nei confronti dei propri prodotti, la vendita di prodotti in perdita al solo scopo di eliminare la concorrenza e l’abuso dei dati commerciali ricavati dai venditori terzi al fine proporre, in via autonoma, prodotti concorrenti.

Alle accuse principali avanzate dalle Autorità si aggiungono poi numerosi altri profili, talvolta poco pertinenti con la normativa Antitrust, sebbene di grande rilievo sociale, come il dilagare delle fake news, l’utilizzo poco trasparente dei dati dell’utenza, e altro.

Svolte le dovute premesse, è d’obbligo procedere, nel seguito, ad una analisi, per quanto sintetica, delle testimonianze rese dai singoli CEOs in risposta alle accuse mosse dal Congresso.

Apple e la gestione dell’App Store

Come anticipato, le accuse avanzate nei confronti di Apple riguardano prevalentemente i seguenti profili:

  • Il trattamento preferenziale nei confronti delle proprie App, posizionate in modo strategico all’interno dell’App Store, al fine di orientare e influenzare la capacità decisionale degli utenti, a discapito degli altri sviluppatori;
  • La rimozione di alcune app di sviluppatori terzi dallo Store a seguito del lancio di applicativi proprietari che potessero entrare in concorrenza con le suddette;
  • L’applicazione di clausole e commissioni eccessivamente penalizzanti per gli sviluppatori terzi;
  • La gestione particolarmente invasiva dei pagamenti effettuati tramite il sistema Apple Pay (sottoposto alle medesime ingenti commissioni, pari al 30%).

In particolar modo, l’applicazione di commissioni pari al 30% su tutti gli acquisti effettuati tramite i sistemi di Apple, unita alla decisione, in capo alla sola Apple, di cosa pubblicare sullo Store, e quando (essendo i dispositivi della Mela muniti di sistemi operativi chiusi), sono, per l’Autorità, elementi sufficienti a costituire un monopolio.

Anche il CEO di Epic Games, gli sviluppatori del rinomato videogame Fortnite, ha criticato le pratiche adottate da Apple e da Google nella gestione degli acquisti. Non solo la commissione applicata renderebbe impossibile per lo sviluppatore proporre degli sconti o abbassare i prezzi degli acquisti in-app, ma i due colossi rendono altresì impossibile o assai difficoltoso consentire all’utente di scaricare il proprio software da piattaforme che non siano quelle di Apple e Google. Per quanto riguarda i sistemi Android, in particolare, si rileva come in un primo momento, Epic Games abbia reso scaricabile, per dispositivi Android, il proprio videogame direttamente dal sito; tuttavia, alcune problematiche insorte (probabilmente legate alla compatibilità e alla connettitività del videogame) hanno costretto la software house ad utilizzare la piattaforma di Google, vincolandosi così alle relative commissioni (sempre pari al 30%). Lo Store gestito da Epic Games applicherebbe ai propri sviluppatori, invece, una commissione del 12%.

Tim Cook ha ribattuto alle accuse sostenendo di non ricoprire alcuna posizione dominante nel mercato, anche per quanto riguarda lo sviluppo di dispositivi mobile (il CEO ha citato, in particolar modo, Samsung, LG, Huawei e la stessa Google).

In relazione alle critiche mosse nei confronti della gestione dell’App Store, Cook ha affermato che le percentuali applicate sugli acquisti in-store non solo sono molto inferiori a quelle applicate, in linea generale, dai distributori di software (circa il 50-70%), ma riguardano, altresì, solo una piccola percentuale di prodotti, ossia il 16%. L’applicazione della commissione, inoltre, non sarebbe indiscriminata, ma rappresenterebbe una sorta di “tassa” che Apple applica qualora le app richiedano l’utilizzo di funzioni proprie dei dispositivi Apple.

In risposta a ciò, il Congresso ha precisato come Apple non applichi la citata commissione alla “collega” Amazon, in relazione al servizio di streaming video di Amazon, in cambio dell’ottimizzazione dei reciproci dispositivi e software. Cook, in risposta a tale domanda, ha semplicemente affermato che tale accordo potrebbe essere raggiunto nei confronti di qualsiasi altro sviluppatore e che è cura di Apple fornire il giusto spazio e tutte le applicazioni presenti sullo Store (ad oggi, più di 1,7 milioni), applicando a tutte le medesime regole.

Tale testimonianza non ha convinto il Congresso, specialmente ove si pensi al concreto predominio di Google ed Apple sul mercato mobile. Ad oggi, solo Huawei ha timidamente fatto ingresso sul mercato, con il proprio App Gallery: tuttavia, molti dei dispositivi prodotti dalla stessa si basano tuttora sul sistema operativo e sullo store fornito da Google.

Il predominio di Google

Le domande rivolte a Sundar Pichai hanno riguardato prevalentemente le politiche di advertising di Google, il trattamento dei dati di analisi dei siti web di terzi, nonché l’appropriazione di contenuti creati da questi ultimi (in aggiunta alle questioni inerenti alla gestione del Play Store, per le quali valgono le medesime valutazioni riportate nel precedente paragrafo).

Specialmente avuto riguardo al ruolo di Google quale motore di ricerca, appare indubbio come la stessa abbia, nel tempo, costituito un vero e proprio monopolio, gestendo più del 90% del mercato delle ricerche online a livello mondiale.

Anche per Google è stato evidenziato, altresì, come vi sia un conflitto di interessi fra la sua figura di motore di ricerca indipendente e produttore di contenuti. La descrizione fornita dal Congresso è quella di un “giardino murato”, all’interno del quale gli utenti sono illusi della possibilità di navigare liberamente; nella realtà dei fatti, però, Google abuserebbe dei contenuti di altri siti web per crearne di propri e “invitare” gli utenti a rimanere all’interno dei confini delle proprie pagine e applicazioni, incrementando sempre maggiormente il guadagno derivante dagli annunci pubblicitari, a discapito delle società più piccole che cercano di ritagliarsi uno spazio all’interno del mercato online.

L’obiettivo di Google, alla sua nascita, era quello di far rimanere gli utenti il minor tempo possibile al suo interno, indirizzandoli verso il risultato migliore (a differenza di quello che, al tempo, faceva la concorrenza, la quale preferiva, nella ricerca, risultati appartenenti a società affiliate). Ad oggi, in virtù dell’enorme potere di mercato di cui dispone, quelle stesse strategie sembrano essere state fatte proprie e implementate dal colosso del web, in violazione degli originari principi di tutela del consumatore.

Pichai ha negato tale ricostruzione dei fatti, sostenendo, invece, che Google al momento supporta più di 1,4 milioni di piccole realtà imprenditoriali, senza interferire in alcun modo con il loro operato. Ha aggiunto altresì che la società è pienamente trasparente nei confronti dei propri utenti, ai quali si lascia il pieno controllo sui propri dati.

Anche in questo caso, tuttavia, la genericità delle risposte fornite ha convinto poco il Congresso.

Facebook e le start-up

Non è la prima volta che Zuckerberg si trova al centro di eventi simbolo dell’era digitale. Dopo l’emersione dello scandalo Cambridge Analytica, tuttora una tematica piuttosto scottante, per Facebook sono stati tempi duri (sebbene non economicamente parlando, in quanto il valore della stessa continua a crescere giorno dopo giorno).

Principale oggetto dell’audizione, tuttavia, non sono state le politiche di gestione delle fake news e l’assenza di trasparenza nei confronti degli utenti (sebbene siano state comunque affrontate nel corso dell’audizione, nonostante non rientrino nella competenza specifica dell’Antitrust), ma la politica di acquisizione strategica di centinaia di startup nel corso degli anni.

L’acquisizione della concorrenza sul nascere, prima che la stessa assuma dimensioni tali da divenire un “pericolo” per il predominio del mercato, rientra a pieno titolo fra le pratiche che le leggi antitrust mirano ad evitare, in quanto estremamente distorsiva del mercato, oltre che dannosa per gli stessi consumatori, i quali si ritrovano ad utilizzare un prodotto che, in assenza di vera e propria concorrenza, non è spinto a migliorare, sia dal punto di vista dei costi (sebbene gli applicativi forniti da Facebook siano prevalentemente gratuiti) sia dal punto di vista del controllo dei contenuti e della sicurezza.

La competizione, infatti, alimenta il mercato e lo migliora tramite la sfida: un mercato senza sfida, sebbene estremamente innovativo e in crescita come quello digitale, è un mercato la cui tendenza è quella di ristagnare. Non solo: la nascita di monopoli consente alle “Big” di acquisire talmente tanto potere da divenire padroni non solo del mercato, ma anche dei consumatori e delle loro scelte.

Pramila Jayapal, Democratica dello stato di Washington, ha messo in evidenza come il potere economico di Facebook ormai sia divenuto tale e tanto da non permettere alle proprie concorrenti di avere alcuna scelta, una volta che il proprio prodotto attira l’attenzione del colosso. Jayapal ha infatti chiesto a Zuckerberg se Facebook ha mai “minacciato di copiare i prodotti di un’altra società mentre, contemporaneamente, tentava di acquisirla”. Sebbene la risposta fornita a tale domanda sia stata, ovviamente, negativa, la democratica ha ricordato come vi siano numerosi casi nei quali il colosso del web ha emulato i propri concorrenti: da ultimo, si cita il caso della cinese TikTok, le cui idee sono state “condivise” da Facebook nello sviluppo di Instagram Reels, il cui rilascio dovrebbe essere prossimo.

Stando a quanto emerso, Facebook avrebbe offerto alla società ByteDance, creatrice della app TikTok, centinaia di migliaia di dollari per rinunciare al proprio progetto.

La strategia aggressiva e anticoncorrenziale di Facebook sarebbe stata dimostrata anche da alcune e-mail dello stesso Zuckerberg, il quale, nel 2012, anno nel quale la società americana “cannibalizzava” le concorrenti Whatsapp e Instagram, avrebbe affermato “One thing about startups is that you can often acquire them”.

Le strategie di alterazione del mercato di Amazon

Si è parlato molto anche di Amazon e di come la stessa possa considerarsi al pari di un “giano bifronte”: da un lato, offre la propria piattaforma (sulla quale transita ben il 75% degli acquisti globali online) quale semplice e immediato strumento di accesso al mercato online per i venditori terzi; dall’altro, sfrutta la propria posizione per studiare il mercato e lanciare sul mercato i propri prodotti a marchio Amazon, alterando anche il meccanismo di ricerca e di acquisto del consumatore al fine di favorire sé stessa.

Una ricostruzione delle politiche adottate da Amazon, sulla base delle numerose e-mail e documenti interni analizzati da parte del Congresso, ha consentito a quest’ultimo di delineare un vero e proprio modus operandi, così strutturato:

  • Rivendita sulla piattaforma di prodotti di venditori terzi (o individuazione di una piattaforma di e-commerce concorrente, gestita da una società terza);
  • Analisi dei dati di vendita del prodotto e della proporzione costi-ricavi dello stesso, oltre che delle caratteristiche dello stesso maggiormente apprezzate dall’utenza;
  • Lancio sulla piattaforma di e-commerce di un prodotto “clone” (prodotto in perdita, sottocosto) a marchio Amazon, abilmente collocato all’interno dei risultati di ricerca in modo tale da dissuadere il consumatore dall’acquisto del prodotto concorrente;
  • Espulsione dal mercato della concorrenza, incapace di fornire al consumatore il proprio prodotto ad un prezzo più basso di quello di produzione, in quanto priva delle medesime capacità economiche;
  • Aumento del prezzo del prodotto, una volta fidelizzato il cliente e annullata la concorrenza, al fine di ripristinare il rapporto costo-ricavo.

Nel 2009, tale strategia ha consentito ad Amazon di annientare la concorrente Diapers.com. Dai documenti prodotti è emerso, infatti, come Amazon fosse disposta a perdere ben 200 milioni di dollari pur di espellere dal mercato quelli che, al tempo, erano “our #1 short term competitor” (“[W]e need to match pricing on these guys no matter what the cost”). La vendita in perdita di un prodotto al solo scopo di alterare la concorrenza, tuttavia, è una pratica illegale ai sensi della normativa antitrust vigente.

A ciò si aggiunga l’abuso dei dati ottenuti per mezzo di Alexa Fund, un fondo il cui obiettivo è, idealmente, quello di consentire alle giovani start-up operanti nel settore tecnologico, di ottenere un sostegno economico nello sviluppo di prodotti innovativi. Stando a quanto emerso, invece, la strategia di Amazon era quella di investire nelle start-up al fine esclusivo di ottenere preziose informazioni sui prodotti sviluppati dalle stesse, lanciando sul mercato un proprio prodotto “clone”, distruggendo così le possibilità di crescita dei terzi. A titolo esemplificativo, si citano il dispositivo Nucleus, avente le medesime funzionalità di Echo, ed il sito LivingSocial, i cui membri hanno dichiarato che Amazon, una volta investito nel progetto, ha richiesto la produzione di dati estremamente preziosi come la lista dei clienti, la listi dei fornitori, e i dati relativi alle vendite. Non solo, anche molti dei dipendenti di LivingSocial sarebbero stati assunti da Amazon.

Tra le prove apportate dal Congresso a sostegno delle proprie tesi, figura anche la testimonianza di un rivenditore, il quale avrebbe affermato che la piattaforma di Bezos è come “eroina”: prima consente ai rivenditori di crescere e, successivamente, “divora” il mercato (“Amazon strings you along for a while because it feels so good to get that paycheck every week, and in the past, for lack of a better term, we called it ‘Amazon heroin’ because you just kept going, and you had to get your next fix, your next check. At the end of the day, you find out that this person who is seemingly benefiting you, making you feel good, is just ultimately going to be your downfall”).

Tra tutti, Bezos è quello che ha risposto in modo più vago alle domande poste, senza mezzi termini, dal Congresso (il quale è risultato piuttosto infastidito dall’atteggiamento assunto dal CEO, giungendo persino ad affermare che la sua audizione si stava rivelando “una perdita di tempo”).

Il silenzio delle Big tech

Ciò premesso, sono stati moltissimi i momenti nei quali, più che le parole, ha parlato il silenzio: moltissime sono state le giustificazioni addotte dai quattro colossi per giustificare, talvolta molto genericamente, la propria posizione (“We’re not that big”). Altrettanti sono stati i momenti nei quali si è tentato di deviare la domanda, fornendo risposte talmente generiche e decontestualizzate da risultare poco credibili, o semplicemente negando quanto veniva affermato dal Congresso.

Si citano, ad esempio:

  • La risposta fornita da Pichai al quesito inerente all’utilizzo o meno dei dati di traffico dei siti per analizzare la propria concorrenza: “We try to understand trends from data we can see”;
  • La non-negazione di Bezos in merito alle pratiche di abusiva raccolta di dati dai propri venditori, in violazione delle policies ufficialmente dichiarate da Amazon: “I can’t guarantee that that policy has never been violated”;
  • Il tentativo di Zuckerberg di chiarire se Facebook avesse o meno copiato dai propri concorrenti: “We’ve certainly adapted features that others have led in”.

Divide et impera

Dinanzi ai silenzi delle Big Tech e alla crescita inarrestabile del loro potere, sono in molti a ritenere che l’unica soluzione percorribile per distruggere i monopoli sia quella di frammentare ogni società in tanti piccoli pezzi. Altrettanti sono, tuttavia, coloro che ritengono che la frammentazione delle Big Tech sia invece controproducente per il mercato, alla luce dei benefici e delle innovazioni che, ad ogni modo, ognuna ha apportato ai consumatori proprio grazie alle disponibilità economiche di cui queste dispongono.

Sebbene i vantaggi per i consumatori, tuttavia, debbano essere riconosciuti alle Big Tech, non può non porsi l’accento sui fenomeni di abuso che si sono verificati nei confronti degli stessi, oltre che dello strapotere che, indubbiamente, tali società hanno nei confronti delle start-up, le quali, negli ultimi anni, stentano ad emergere al di fuori degli stretti e vincolanti limiti dettati da Apple, Google, Facebook ed Amazon (come affermato, si ricorda, da Netflix e Spotify, inevitabilmente dipendenti dal “benestare” delle società di Bezos e di Cook).

Inoltre, occorre ricordare come i monopoli non si riflettano negativamente, per i consumatori, soltanto sui prezzi (che potrebbero anche rimanere bassi o nulli), ma anche e soprattutto sulla qualità dei prodotti e sulla trasparenza nei confronti degli utenti, sulla protezione dei loro dati, il vero oro nero del nuovo millennio. Tasto dolente, questo, evidenziato in Congresso da Lucy McBath, della Georgia, la quale ha chiesto a Zuckerberg per quale motivo avesse rinunciato all’originaria politica di non tracciare mai i propri utenti tramite i cookies. Domanda, questa, alla quale Zuckerberg non ha potuto fornire una vera risposta.

Conclusioni

L’audizione condotta dal Congresso, i cui sviluppi sono tuttora incerti, rappresenta, qualunque siano i suoi esiti, un evento focale: sebbene parzialmente “contaminata” da alcune valutazioni di aspetto politico, più che tecnologico-normativo, ci aiuta a delineare un’immagine ben chiara del cambio di rotta che i legislatori, non solo negli USA, vogliano intraprendere.

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