l'analisi

L’arcano del lavoro: ecco perché è l’educazione la grande promessa dell’automazione

Non si risolveranno mai i problemi del lavoro se non sarà messo in chiaro il carattere della trasformazione in corso: il punto non è la scomparsa dei lavori tradizionali a causa dell’automazione ma che lavoro è tutto ciò che produce valore, e che il consumo è il lavoro dell’avvenire. Vediamo allora errori e prospettive

Pubblicato il 04 Gen 2021

Maurizio Ferraris

professore ordinario di filosofia teoretica presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università degli Studi di Torino

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Moltissimi lavori cambieranno e molti altri spariranno. Il motivo è sin troppo ovvio per chiedere di essere ricordato: è colpa della automazione, in particolare di quella automazione specialmente efficace che viene dalla archiviazione degli atti umani e delle nostre forme di vita garantita dal web.

Questa trasformazione, annunciata da quasi un decennio[1], è oggi al centro di ogni indagine sul futuro del lavoro[2]. Il World Economic Forum annuncia che in capo a cinque anni si avrà una riduzione del 6,4% dei lavori più ripetitivi compensata quasi interamente dalla crescita di nuove professioni in ragione del 5,7%. La previsione mi pare ottimistica e vorrei che fosse vera, ma ciò di cui si ha più bisogno, io credo, è capire non solo la natura dei nuovi lavori generati dal mercato, ma prima di tutto la natura del lavoro in generale, nel suo passato, nel suo presente e soprattutto nel suo futuro, per evitare spiacevoli sorprese, e prima di tutto quella per cui le nuove professioni sarebbero molto più precarie e mal pagate dei lavori di cui prendono (e solo in parte) il posto. Prima di procedere nell’analisi, sarebbe utile riflettere su un sentimento diffuso e contraddittorio secondo cui, da una parte, assistiamo appunto a una decrescita del lavoro e, dall’altra, crescono le denunce di uno sfruttamento inaudito del lavoro umano che costituirebbe, per così dire, la fase estrema del capitalismo, incline a far lavorare l’intera umanità tutti i giorni e a qualsiasi ora[3], costituendo la premessa di una nuova schiavitù[4].

La nascita dell’arcano del lavoro

Ed è qui che vorrei annunciare la mia prima tesi fondamentale, secondo cui non si risolveranno mai i problemi del lavoro se non si sarà prima messo in chiaro il carattere della trasformazione in corso: il tratto significativo del presente non è affatto la scomparsa dei lavori tradizionali a causa dell’automazione (fenomeno sempre avvenuto, anche se oggi rivela una ampiezza ben più grande che ai tempi della rivoluzione industriale) ma la nascita di un arcano del lavoro che costituisce il corrispettivo simmetrico dell’arcano delle merci nella produzione industriale. Ecco il grande mistero della nostra epoca. Mentre pensiamo di vivere la nostra vita extralavorativa, di soddisfare i nostri bisogni, di inseguire i nostri desideri e di esprimere le nostre idee, surroghiamo le funzioni di banche, giornali, pubblicità e agenzie di viaggi. Soprattutto, stiamo riempiendo archivi sconosciuti con dossier dettagliatissimi sui nostri gusti e i nostri guai, sulle nostre abitudini e sugli strappi alla regola che ci rendono imprevedibili per chi non li conosce, cioè anche per noi stessi. Questi archivi non interessano a censori, bensì a venditori, solleciti a procurarci quello che vogliamo, senza indagarci né inquisirci, poiché non è affar loro. Essere pagati per vivere sembra indubbiamente chiedere troppo, ma se la nostra vita produce valore, perché mai la nostra attività non andrebbe riconosciuta, nel momento in cui la produzione di merci diventa un sacrificio inutile? Giacché non solo ci sono le macchine, ma sono perfettamente automatizzate, così che in linea di principio e in senso stretto di lavoro settimanale non serve neppure un minuto. Se è vero che vivere è un mestiere, è altrettanto vero che lavorare stanca, sia pure non in termini di fatica fisica o di routine ripetitiva.

In una situazione di crescente automazione, gli agenti umani passano dalla produzione di oggetti alla produzione di documenti, cioè di attestazioni della loro mobilitazione come utenti, consumatori, ideatori, comunicatori. Ne deriva lo svelamento dell’arcano della merce: è evidente che i documenti manifestano un rapporto tra persone, se sono documenti forti, ossia isteresi tecnologica di atti, si trattasse anche semplicemente di un like; o le azioni di una persona, se sono documenti deboli, isteresi tecnologica di fatti, per esempio le tracce della nostra navigazione sul web. Scompare la reificazione che Marx imputava alle merci nella produzione industriale, il fatto cioè che in un oggetto anonimo si occultasse e rimuovesse un rapporto tra persone, e dunque l’arcano è risolto, ma al prezzo della creazione di un nuovo arcano, quello del lavoro. Cerchiamo di ricostruire questa trasformazione, perché proprio di qui si potrà trovare un rimedio efficace a una eventualità comunque certa e, aggiungo, in larghissima misura auspicabile per l’eccellente motivo che un lavoro che può essere svolto da una macchina è molto probabilmente indegno di un essere umano.

La fine della fatica e le sue implicazioni

Il runner, figura che trova la sua ragion d’essere nella scomparsa della fatica fisica, è il simbolo della trasformazione molto più di quanto non lo sia il rider, perché questi ultimi spariranno, i primi invece aumenteranno. Il runner deve correre per bruciare energie che non consuma sul lavoro, ma – questo l’aspetto cruciale – il suo consumo può produrre più ricchezza di quella generata dalla fatica fisica, perché permette di consumare beni prodotti industrialmente a prezzo bassissimo (cibi, scarpe, riproduttori MP3, contapassi) che altrimenti resterebbero invenduti, o il cui uso non avrebbe senso. In una fabbrica fordista a cosa serve un contapassi? E con un MP3 nelle orecchie si finirebbe con la mano schiacciata nella pressa. Questa trasformazione è molto più forte di quella avvenuta nella rivoluzione industriale: lì i contadini sono diventati operai, si sono inurbati, e la fatica è rimasta. Qui invece è proprio la fatica a scomparire. Il punto, ovviamente, è che scompare anche il salario, ma sarebbe uno strano modo di ragionare quello che pensasse che ripristinando la fatica riapparirebbe anche il salario (spesso da fame).

Dobbiamo crucciarci della fine della fatica? Non ne vedo il motivo razionale, una volta che si sappiano tenere sotto controllo le calorie. L’homo faber ha una storia e una geografia: non esisteva quando i nostri antenati erano cacciatori e raccoglitori, e queste condizioni si sono perpetuate in zone marginali rispetto alla cultura occidentale, per esempio in Amazzonia, o apicali, come i senatori romani o i duchi inglesi. Ma progressivamente sta scomparendo, sostituito da persone che viaggiano, scrivono, maneggiano telefoni, corrono con orologi che contano i loro passi e i loro battiti cardiaci e li archiviano chissà dove.

Questa vita non è semplicemente una vita activa[5] in quanto contrapposta a una vita contemplativa, è un amalgama di azione, comprensione e fraintendimento. Le nuove tecnologie estendono a ogni momento della vita l’interazione uomo-macchina, con una vera e propria divisione del lavoro, dove la macchina si fa carico di tutto il lavoro morto, e demanda agli umani il lavoro vivo residuo, che è il conferimento di senso, innanzitutto in forma di consumo. Questo è un elemento nuovo, ma nascosto e spesso condannato come consumismo, che salta le intermediazioni tradizionali: accordi tra gli utenti per offrire servizi, creazione di fonti alternative di informazione, uso del web come forma di autopromozione professionale come fashion blogger, influencer e simili.

Produzione e raccolta di documenti

Di certo oggi assistiamo alla produzione di documenti attraverso comportamenti[6]. Si tratta, nel caso dei documenti forti, quelli che produciamo sui social media, di un prolungamento del classico scambio di opinioni e della chiacchiera quotidiana, tranne che ora può protrarsi per più tempo, non essendo incompatibile con attività lavorative che il più delle volte consistono nella produzione di documenti (diversamente dall’epoca della produzione di fabbrica, che avveniva in condizioni comunicative pessime) e, soprattutto, al contrario degli scambi sociali di un tempo, lascia tracce, ossia si configura a sua volta come una produzione di documenti. Ma i documenti forti non sono che la punta emersa di un continente ben più grande, i documenti deboli, ossia i metadati, l’isteresi tecnologica delle nostre attività connesse alla biosfera ben più che alla infosfera.

Negli stati liberali, la raccolta di documenti, infatti, non è finalizzata principalmente a scopi inquisitivi. Gli scopi della acquisizione di documenti sono l’automazione della produzione attraverso l’apprendimento dei comportamenti umani e il perfezionamento della distribuzione attraverso la conoscenza dettagliata dei loro bisogni. Visto che i produttori e i consumatori sono stati sino a oggi umani, non c’è niente di meglio che registrare i comportamenti degli umani per rendere automatica la produzione, mandando a casa gli umani, inutili come produttori, e per rendere perfetta la distribuzione, deliziando gli umani che restano e resteranno per sempre consumatori, soddisfattissimi mentre aspettano la consegna di un bene che gli arriverà con una puntualità e a un prezzo che non avrebbero mai immaginato.

Rarefazione, disseminazione, mobilitazione

Ovviamente questo comporta grandi trasformazioni. La prima, e la più evidente, è la rarefazione, ossia la scomparsa dei lavori tradizionali. Ma il processo non finisce ovviamente qui. Abbiamo in secondo luogo la disseminazione dei lavori tradizionali, non più legati a spazi e tempi determinati, con una tendenza che ha ricevuto una brusca accelerazione dal virus ma era già in atto da almeno tre decenni, e che del resto oltrepassava non una natura immutabile del lavoro, ma semplicemente la forma che questo aveva preso nel mondo industriale. In terzo luogo, però, abbiamo la mobilitazione, che racchiude in sé il vero e proprio arcano del lavoro, dal momento che se la merce più pregiata prodotta dagli umani sono i documenti, allora il grande lavoro fondamentale e occulto è la mobilitazione, la somma di atti che gli umani compiono e vengono registrati sul web, per cui la biosfera alimenta la docusfera, e di qui, in casi molto più rari di quanto si pensi, l’infosfera[7]. Passiamo all’analisi dei tre processi.

La rarefazione

La rarefazione, oltre alla precarizzazione[8], è più profondamente la riduzione degli addetti, e questo avviene in ogni ambito.

Gli eserciti, che nella Seconda Guerra Mondiale si componevano di milioni di persone, sono ora ridotti a numeri limitati di mercenari supportati da droni. Le fabbriche hanno subito lo stesso destino con un anticipo di qualche decennio.Le sedute in borsa, che erano una raccolta pittoresca e rumorosa di grida sono oggi sostituite da algoritmi che lavorano 24 ore su 24.

ove l’apporto umano non diminuisce è nella sfera del consumo: gli stadi continuano ad essere pieni, e così le città d’arte, le spiagge, i treni, gli aerei e i ristoranti – cioè non a caso le attività più duramente colpite dalla crisi Covid. Quello che appare ovvio, se ci riferiamo alla rarefazione del lavoro moderno, quello che comportava fatica e alienazione, è che, una volta trovate delle alternative, i nuovi lavori non potranno che essere migliori dei vecchi. In particolare, è difficile non riconoscere un vantaggio evidente nel passaggio dal lavoro manuale al lavoro intellettuale e, ancor più, dalla riduzione della differenza tra il primo e secondo caratteristica della rivoluzione documediale. In attesa di venire alle alternative, che non sono tanto la disseminazione quanto piuttosto la mobilitazione, vorrei far notare che raramente coloro che sono soggetti alla rarefazione del lavoro, ossia, senza mezzi termini, lo perdono, rimangono con le mani in mano, e questo per un banale motivo che merita di essere analizzato con un po’ di attenzione. La divisione tra lavoro manuale e lavoro intellettuale viene meno nel momento in cui l’intermediario di tutte le attività è una tastiera, quando non un sensore che registra le nostre attività senza far differenza tra movimento, svago, produttività, letture e riferimenti. Si impone un’unica forma di mediazione: la tastiera o lo schermo del computer o dello smartphone.

Come si capirà, la mia strategia non consiste tanto nel rimpiangere la scomparsa dei lavori di una volta, ma nel capire che cosa vien meno con quei lavori, e soprattutto nel riconoscere le rivelazioni sull’essenza del lavoro che ci vengono offerte dalle trasformazioni in corso. Stando così le cose, ciò che taluni vaticinavano come fine del lavoro è in realtà una serie di fenomeni diversi, che non coincidono con una fine, ma certo determinano una trasformazione precedentemente impensabile. Il lavoro non occupa un posto centrale e monolitico che definisca l’identità delle persone, ma piuttosto si disperde e si nasconde nelle pieghe della nostra vita, divenendo appunto mobilitazione, agitazione costante nella interazione con il web. Da questo punto di vista, la mobilitazione sul web ha le caratteristiche del “lavoro del sogno” secondo Freud: la condensazione per cui una funzione che ha finalità ludiche è al tempo stesso produzione di valore; lo spostamento che fa sì che quando siamo al lavoro possiamo tranquillamente non lavorare, ma il lavoro ci inseguirà nella vita; e la figurazione con il contrario, ossia il capovolgimento per cui il consumo, tradizionalmente concepito come l’inverso del lavoro, è oggi un elemento cruciale del funzionamento del sistema produttivo, così come lo sono le vacanze, i divertimenti, gli eventi, ossia tutte quelle sfere apparentemente non lavorative in cui si dispiega la quintessenza della mobilitazione come nozione che supera e conserva la nozione di lavoro ristretta e tradizionale.

Condensazione, rimozione, capovolgimento

La condensazione è una trasformazione debole, che consolida tendenze già in corso da tempo. Molto lavoro viene parzialmente svolto dal prosumer, il produttore-consumatore, ed è ciò che ognuno di noi fa quando si confronta con una interfaccia automatica, dal casello dell’autostrada in su. Nel momento in cui diventiamo gli impiegati e i commessi di noi stessi e ci montiamo i mobili da soli stiamo certamente lavorando a nostra parziale insaputa, e questo spiega perché ci si possa trovare stanchi al termine di una giornata in cui non abbiamo lavorato in alcun senso canonico del termine. Ma significa anche – e questo è un aspetto molto meno rilevato del precedente – che abbiamo abbattuto una delle caratteristiche fondamentali della forma di vita capitalistica, ossia la divisione del lavoro. La piattaforma universale surroga non solo le classiche mediazioni, ma anche le classiche specializzazioni. È un fatto che va indagato in modo non moralistico e superficiale, dal momento che costituisce una delle caratteristiche salienti della forma di vita propria della rivoluzione documediale.

A questo punto, con un processo di rimozione, il lavoratore si sente soggettivamente stanco, ma non sa a cosa imputare la stanchezza, perché non sa di lavorare e in qualche misura se lo nasconde. Ciò che era in capo al produttore viene svolto dal consumatore, generando un lavoro ombra che non viene riconosciuto come tale. Il prosumer diviene la figura centrale di questa condensazione, ma in un senso nuovo. Chi si monta mobili in casa non produce valore: semplicemente, abbassa i costi; oggi però, accanto a questo risparmio, il prosumer genera valore vero e proprio con i documenti che genera attraverso le ordinazioni online. Queste è la radicale novità, che comporta, inoltre, un capovolgimento carico di significato del rapporto tra azienda e consumatore. Non c’è più troppo bisogno della pubblicità per far conoscere l’azienda al consumatore, poiché il vero protagonista è l’intermediatore, ossia la piattaforma (avete notato quanto è difficile, su Amazon, trovare i nomi delle case editrici?). C’è bisogno dell’isteresi sulla piattaforma per far conoscere il consumatore alla piattaforma, con l’ironia che l’azienda magari compra spazi pubblicitari sulla piattaforma, ossia, a ben vedere, contribuisce in solido alla propria autodistruzione.

Di qui l’aspetto più importante, il capovolgimento, che si ricollega al fenomeno generale per cui il consumo, se registrato, diviene produzione (di documenti) e, per quella via, automazione della produzione di merci e della loro distribuzione: è lo scambio di valori per cui in un ambiente ricco di memoria l’otium è molto più redditizio del negotium. Questa è la vera e fondamentale trasformazione metafisica che impone un ripensamento radicale della natura umana e che, se bene intesa, può fornire delle possibilità emancipative capaci di imporre un rovesciamento dei rapporti di forza tra capitale e lavoro, così come tra umani e automi, che in questo momento dipendono in buona parte dalla nostra incapacità di concettualizzare questa trasformazione e trarne le debite conseguenze.

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La disseminazione

Veniamo alla disseminazione, che sembra modernissima ma non lo è poi così tanto. “Gli uffici governativi lavoreranno più rapidamente e con minor burocrazia. Non fa una buona impressione quando un ufficio chiude in orario dopo otto ore. Il popolo non sta lì per gli uffici, sono gli uffici che sono lì per il popolo. Si deve lavorare finché il lavoro non è finito”. Chi l’ha detto? Un teorico dello smart working? Non esattamente: è Joseph Goebbels quando il 18 febbraio 1943 incita alla guerra totale quattordicimila fanatici riuniti nel Palazzo dello Sport di Berlino. O meglio, chiede loro se la vogliano: “Vi chiedo: volete la guerra totale? Se necessario, volete una guerra più totale e radicale di quanto mai oggi possiamo neppure immaginare?”[9]. È un discorso su cui sono stati spesi, come si dice, fiumi d’inchiostro, vedendo un fattore politico sinora trascurato nel godimento masochista della folla pronta all’autodistruzione[10].

Ma, follie a parte, è anche ciò che avviene con il lavoro agile, che a rigore è un lavoro totale, che comporta la mutazione dei lavori tradizionali, che scompaiono, solo occasionalmente cedendo il posto a nuovi lavori retribuiti, o che si trasformano radicalmente, sconfinando dai tempi e dai luoghi canonici e dalla rigida distinzione tra produttore e consumatore. Come ognuno di noi sperimenta sulla propria pelle, scompare la differenza fra tempo del lavoro e tempo della vita. In ogni momento della nostra vita possiamo essere chiamati ad attività produttive ma, al tempo stesso, in ogni momento della nostra vita produttiva possiamo svolgere attività che non hanno niente a che fare con l’immediato scopo lavorativo che siamo richiesti di svolgere. E il fatto che oggi le vacanze, l’intrattenimento, la festa, siano uno dei settori fondamentali della produzione di valore ci fa pensare a quanta acqua è passata sotto i ponti rispetto ai tempi, non così remoti, in cui – dal week end inglese in epoca ante-Tatcher ai tabù, tutto sommato più facili da aggirare, dello Shabbath – il riposo si opponeva al lavoro come la notte al giorno.

Con la disseminazione il lavoro perde le sue caratterizzazioni non tanto tradizionali[11] quanto piuttosto tipiche dell’età industriale, e diviene una attività diffusa, perdendo identità e centralità[12]. Il lavoro è ora ubiquo, ma in questa ubiquità torna appunto a essere indistinguibile dalla vita, come all’epoca dei nostri antenati cacciatori e raccoglitori, e diviene attività[13]. Anche in questo caso non abbiamo a che fare con una perversione, ma con la rivelazione di una essenza. Partiamo da un interrogativo elementare. Stringersi le mani è un lavoro intellettuale, che per esempio segna la conclusione di un contratto. Ma nessuno potrebbe negare che sia anche un lavoro manuale, giacché lo si compie con le mani, e questo vale per la maggior parte dei lavori intellettuali, che presuppongono l’uso di mani e dita su tastiere o con carta e penna. E indubbiamente ci sono buoni motivi per sostenere che spesso stringersi le mani non è un lavoro, se avviene in un contesto conviviale, quantunque il caso sia complesso, giacché mantenere delle relazioni può essere un lavoro: per esempio stringere le mani in campagna elettorale, o stringersi le mani alla fine di un pranzo di lavoro. Dunque, che cosa è il lavoro? Che cosa distingue il tempo del lavoro dal tempo della vita? Di cosa si occupano, specificamente, la sociologia, la psicologia e la filosofia del lavoro nel momento in cui il lavoro raggiunge un elevato livello di disseminazione?

Veniamo al punto: anche in situazioni di disseminazione c’è sempre un orizzonte più ampio e onnicomprensivo, ossia la mobilitazione. Davanti al computer, e quando pure svolgessimo esclusivamente azioni legate al compito lavorativo che ci è assegnato, contribuiamo alla produzione e all’accumulo di documenti, e questo rende impossibile tracciare una differenza tra lavoro e non lavoro – una differenza che, facciamoci caso, ha preso a vacillare con l’introduzione del telefono negli uffici, ma che è resa possibile dalla scrittura in generale: dopotutto, Kafka scriveva le sue novelle negli uffici delle Assicurazioni di Boemia e Moravia. Non si tratta semplicemente di una domiciliazione, come nel lavoro agile. Il lavoro ci raggiunge a casa, ma sul lavoro possiamo continuare la nostra vita non lavorativa. Nel corso di mansioni lavorative si possono eseguire delle operazioni che fanno parte della vita privata, ma che tuttavia condividono con le mansioni lavorative il carattere formale della produzione di documenti, che avviene attraverso gli stessi canali e i medesimi apparecchi. Inversamente, in qualunque momento e in qualunque luogo possiamo essere raggiunti da una richiesta lavorativa; senza trascurare, ovviamente, la grande quantità di contatti che, soprattutto nei quadri e nelle dirigenze, sono a metà strada tra lavoro e vita: una cena di lavoro a quale categoria appartiene?

La mobilitazione

Veniamo ora alla trasformazione più potente e invisibile, la mobilitazione. Quando l’automazione rende superflua l’azione umana, l’umanità, ben lungi dal cadere nell’ozio e nell’inazione, subisce una mobilitazione senza precedenti. Da una parte, sembra che in questa mobilitazione totale non ci sia un momento della vita che non sia alienato, così da realizzare, sia pure in modo soffice, il sogno di un lavoro esteso sull’arco di tutta la giornata, che non è la disseminazione, ma qualcosa di più esteso e profondo, se non altro perché non è retribuito né riconosciuto come lavoro. Soprattutto, la disseminazione è un passato in via di sparizione, sebbene in tempi lunghi, come è tipico di ogni transizione profonda. E la confusione in materia è una miopia fatale: nei primi tempi delle armi da fuoco c’erano ancora gli alabardieri, ma presto sono scomparsi, generalmente per opera di fucilate andate a segno.

Tuttavia, la mobilitazione ha luogo in un contesto di fortissima demilitarizzazione della vita – o, se si preferisce, di disseminazione della guerra attraverso il terrorismo – senza decisioni centrali in uno Stato totalitario e senza misure coercitive, ma semplicemente attraverso l’accesso a servizi mediato da dispositivi mobili. Per una strana necessità storica che ha a che fare con l’essenza della tecnica, la mobilitazione si è realizzata con il web, e con l’isteresi tecnologica che ne deriva. Da quel momento, i messaggi, che possono assumere la forma imperativa di ordini, essendo scritti, raggiungono i civili esattamente come in precedenza raggiungevano i militari. E questa situazione diviene sempre più comune con il diffondersi del web, lo sviluppo dei social network, il perfezionamento degli smartphone, cioè con la rivoluzione documediale[14]. Così, se la produzione delle merci tradizionali si trasforma in lavoro morto, gli umani esercitano un enorme e insostituibile lavoro vivo, la produzione di merci documentali. È una produzione che si limita a registrare ciò che gli umani già prima facevano, ossia vivere con tutto quello che comporta: consumo, ansia, curiosità, divertimento, noia, disperazione. Solo che ora quelle grandi inutilità (la vita non ha finalità esterne, ma solo interne: ossia, in termini più crudi, non ha senso) diventano utili perché sono registrate, e sono registrate perché sono utili, dunque vengono quantificate, unificate, trasformate in statistiche e in previsioni.

Se dunque la disseminazione è una estensione dell’alienazione che potenzialmente occupa tutto il giorno, la mobilitazione è il suo opposto. La mobilitazione vene incontro a un bisogno fondamentale dell’umano perché costituisce uno scarico pulsionale, come è molto chiaro nei bambini. E fasce di popolazione che non sono mobilitate dal lavoro o dalla guerra fanno danze, processioni alla Madonna, tornei, rodei. Di solito è tempo perso, ma l’isteresi tecnologica totale l’ha trasformata in capitale. Come puoi trasformare la terra, l’immobilità per eccellenza, in capitale attraverso dei contratti di proprietà[15], così puoi trasformare la mobilitazione in capitale attraverso l’isteresi tecnologica degli atti. La mobilitazione è tutt’altro che un movimento astratto. Non è un click su uno schermo, anche perché lo schermo e il click presto non saranno più necessari per la mobilitazione. È invece il venire in primo piano del corpo e dei suoi bisogni, della vita in ogni suo aspetto e nel suo contesto totale: in ogni momento possiamo chattare, ma al culmine delle nostre chat, a qualunque ora, ci potrà raggiungere una richiesta lavorativa, per chi ha un lavoro, e dunque associa al regime della mobilitazione quello della disseminazione; tra fasce d’età: anche i bambini e i pensionati sono mobilitati, anche i morituri per Covid che comunicano con la famiglia via tablet; tra specializzazioni: il valore delle informazioni prodotte dalla mobilitazione di un fisico teorico è pari a quella del fan di una squadra di calcio, che potrebbe essere un fisico teorico, visto che riguarda non le idee, ma i comportamenti.

Ecco il senso che si può conferire oggi alla affermazione di Marx secondo cui “lo sviluppo dell’individuo sociale si presenta come il grande pilone di sostegno della produzione e della ricchezza”[16]. La produzione dell’uomo attraverso l’uomo non è soltanto il sogno di una umanità schillerianamente realizzata: sono i viaggi, le discoteche, i ristoranti, il vino, l’alta cucina, la moda, il sesso estremo, la droga, tutto ciò che un castoro non desidererebbe. Qui sembra non esserci traccia di alienazione, giacché la varietà dei compiti e la mancanza di orari fa del mobilitato la piena realizzazione del lavoro liberato nella società comunista. Nel momento in cui la produzione è automatizzata gli umani non oziano, come apparirebbe logico alla luce dell’homo oeconomicus, ma si mobilitano, in una mobilitazione non retribuita e dunque inspiegabile alla luce della semplice razionalità economica. Non c’è bisogno di tener sveglie le persone per mobilitarle e farle produrre valore, è sufficiente munirle di apparati che sfruttino il sonno per generare dati biometrici. Quanti di coloro che prima del virus erano in giro per le calli di Venezia o affollavano Stansted alle 5 di mattina del sabato erano consapevoli di lavorare?

Eppure producevano valore, molto più che in miniera, dove la loro attività estrattiva sarebbe inutile giacché ora le fonti di energia sono diverse. Coloro che affollavano le spiagge o i centri commerciali saran stati anche simili agli operai fordisti, ma lo volevano con tutto il cuore, e stavano meglio, potevano essere felici o sognare di esserlo, qualunque significato si voglia attribuire a questo termine così oscuro. Sarebbe un imperdonabile errore, e una ingiustizia nei confronti della loro dignità umana, non tener conto di questo stato d’animo, e ricondurlo sussiegosamente a una forma di falsa coscienza. Ce ne accorgiamo particolarmente bene oggi, quando il virus rallenta queste attività, che ritorneranno, immagino, ma in forme diverse da prima; e soprattutto quando il virus ha accresciuto la mobilitazione sur place, la mobilitazione sulle piattaforme che surrogano il contatto faccia a faccia. Questo vale a tutti i livelli. Non è detto che il manager che si lascia suggestionare dalla visione di “The Wolf of Wall Street” produca, nella sua attività professionale, più valore di quanto non ne produca vagando per premiarsi della sua fatica su TripAdvisor, per migliorare le proprie prestazioni cercando altri manuali su Amazon, o perso per perso, su Tinder o direttamente su YouPorn per consolarsi dei propri fallimenti. Così fan tutti e tutte, d’altra parte. Non ha senso lottare contro la precarizzazione e chiedere contratti a tempo indeterminato nel momento in cui i lavori specifici del web occupano pochissime persone, e per restare competitive anche le aziende più tradizionali spingeranno all’estremo l’automazione.

Riconcettualizzazione

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In questo quadro, non è questione di ridefinire il lavoro, bensì di definirlo[17], mettendo in chiaro che si tratta di una nozione tutt’altro che determinata ed evidente[18]. “Lavoro” è una parola sola, che però si contrappone a tante altre (ozio, disoccupazione, gioco, vita), il che dovrebbe suggerire che ciò che si chiama “lavoro” si dice in molti modi, e spesso in modi diversissimi. Di fronte a questa complessità generalmente si taglia corto, e si identifica, più o meno, il lavoro con quello dei nostri genitori quando eravamo bambini, che erigiamo a norma. Visto poi che quel lavoro non lo abbiamo mai sperimentato nelle sue durezze, e il tempo passato colora di nostalgia i ricordi, spesso l’idea soggiacente alle discussioni sul lavoro è che si debba ritornare a quel lavoro perduto, a quel presunto lavoro “vero” e “intero”. Il che, tutto sommato, è paradossale, perché per mezzo secolo buono, e con ottimi motivi, la critica di sinistra ha insistito sulla necessità di superare la vecchia organizzazione del lavoro e più complessivamente il lavoro nel suo insieme. Si direbbe che la definizione di “lavoro” comporti due dimensioni: una empirica, fatta di opposizioni (gioco/lavoro, riposo/fatica, piacere/dovere, otium/negotium…), e una trascendentale, volta a riconoscere la nozione di “lavoro in sé”. Quest’ultima, però, è una essenza che emerge proprio attraverso il confronto tra queste nozioni oppositive, ovvero è una nozione di “lavoro” che emerge in via differenziale.

Si consideri la differenza gioco/lavoro. Il gioco può non avere un fine, il lavoro ce l’ha in ogni caso. Ma si può facilmente osservare che moltissimi giochi hanno un fine, e possono dunque diventare lavori – cosa che viene riconosciuta in molti casi, per esempio, nel caso degli sport definiti “professionistici”, ossia tali che l’attività svolta viene retribuita.

Problematica è anche la distinzione riposo/fatica. Il lavoro richiede fatica fisica, se almeno seguiamo la caratterizzazione biblica, il riposo no, e le sue caratteristiche sono anche in questo caso definite nella cultura occidentale da prescrizioni rituali che hanno origine nella Bibbia.

Venendo alla contrapposizione piacere/dovere. Ci può essere un carattere doveroso nel lavoro, per esempio nell’esercizio delle armi o delle funzioni divine, ma, paradossalmente, queste attività sembrano non rientrare canonicamente nella definizione del lavoro, a meno che non siano retribuite: il soldato svolge un lavoro, ed è anzi definito dal fatto di essere pagato, ma il partigiano? Il terrorista? Il martirio è un lavoro.

Venendo infine alla distinzione otium/negotium, merita di essere osservato che è già portatrice di un capovolgimento dei valori che si generalizza nel mondo documediale. Infatti, l’otium, la riflessione e il consumo, culturale o meno, possiedono un valore sopraordinato rispetto al negotium, che appare come una attività meccanica proprio del tipo di quelle che possono ora venire sostituite dalle macchine, lasciando il polo umano della produzione di valore all’otium, che va dunque riconosciuto nella sua dimensione lavorativa e di produzione di ricchezza.

Io sostengo che lavoro è tutto ciò che produce valore, e che il consumo è il lavoro dell’avvenire, rendendo possibile l’automazione della produzione. Nel momento in cui il lavoro classico come ripetizione e fatica viene svolto dalle macchine – piaccia o meno agli umani –, gli umani mantengono la loro centralità su un altro polo, che si rivela imprescindibile: quello del consumo. Quanto più l’individuo si sviluppa, tanto più consuma, quanto più evolve spiritualmente. A questa intuizione si è dato un seguito sbagliato, che consiste nel pretendere che a un certo punto gli umani divengano una intelligenza collettiva. No. Si manifestano nella loro essenza primaria, che è la dipendenza e il bisogno. La trasformazione metafisica su cui bisognerebbe riflettere molto più di quanto non si faccia è la capitalizzazione automatica degli atti. Ogni atto, quando è registrato, può venire capitalizzato, creando una potenziale abbondanza di conoscenza. Questa circostanza fa sì che attività che un tempo non lasciavano traccia, dunque non creavano valore, o che addirittura rientravano nella sfera del puro dispendio, rientrano nella creazione di valore, dunque nel lavoro. La massima produzione di valore, così, ha luogo in quello che, con un toccante anacronismo, si chiama ancora “tempo libero”[19], che si dilata ma è sempre occupato in attività mobilitanti. In un mondo automatizzato produrre non costa niente o quasi, il problema oggi è sapere cosa produrre e dove distribuire. Queste conoscenze, che costano meno di una analisi di mercato, sono molto più accurate, dunque hanno un valore inestimabile, che significa un prezzo stimabile, e vanno concettualizzate come lavoro da parte di chi ne trae vantaggio.

Che oggi molti servizi siano ancora offerti a pagamento dipende dal fatto che si fa ancora conto su un mercato su cui ci sono dei lavori classici retribuibili. Ma la crescita dell’automazione produrrà due risultati: l’abbassamento dei costi dei servizi e dei beni in seguito alla automazione, e, in parallelo, la scomparsa della maggior parte dei lavori produttivi. Diviene dunque necessario sin da ora concettualizzare il consumo come lavoro, giacché il lavoro umano come produzione sarà un fenomeno quantitativamente troppo raro per poter costituire un elemento economicamente significativo. I documenti non sono un bene in sé, ma sono utili a vendere merci o servizi. Nessun valore di scambio, a partire dal denaro, è un bene in sé, e di sicuro nemmeno i titoli di borsa, lo Chanel n. 5 e Guerra e pace sono un bene in sé. Ma questo valore, che è relazionale come qualunque altro valore nel mondo sociale, diviene enorme nel momento in cui i costi della produzione di merci crollano in seguito all’automazione, e dunque i veri vantaggi si ricavano, come ho detto, dalla conoscenza del mercato, per scopi di produzione e di distribuzione.

Ridistribuzione

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Occorre dissipare l’illusione secondo cui questa mobilitazione sia un movimento di idee che genera una conoscenza diffusa, condivisa e collettiva; e al tempo stesso mostrare l’asimmetria tra le conoscenze accessibili ai mobilitanti (le piattaforme) e quelle accessibili ai mobilitati (gli utenti generici). Proprio sulla base di questa comprensione del carattere produttivo ma asimmetrico della mobilitazione si può elaborare il plusvalore documediale, e impostare un progetto di web documediale

Spesso i problemi economici e politici nascondono dei problemi metafisici, e quello dell’arcano del lavoro è sicuramente un esempio di quello che intendo dire. La difficoltà non sta tanto nell’accertare che l’automazione poterà via i lavori tradizionali e ne creerà dei nuovi ma in misura insufficiente per rimpiazzare i lavori perduti. È ovvio che è così, e, anzitutto per il bene dell’umanità, è auspicabile che così sia, e che davvero l’automazione costituisca il destino manifesto del lavoro. Resta da compiere quello che, a giusto titolo, Hegel chiamava “lavoro del concetto”, e che consisterebbe nella fattispecie in una riformulazione del rapporto tra capitale e lavoro, che procedesse da una comprensione più profonda tanto dell’uno quanto dell’altro, nella consapevolezza che l’esito di un cambiamento concettuale deve essere una trasformazione istituzionale, politica ed economica. Per quanto riguarda l’immediato, vorrei limitarmi a quattro conclusioni concise, per trarre le fila di quanto detto sin qui.

Quattro conclusioni concise

  • Primo, come abbiamo visto, il problema, per ciò che concerne il lavoro, non è inseguire i lavori passati, e dei quali spesso è difficile provare un rimpianto sincero. Inutile d’altra parte affidarsi all’ottimismo preconcetto, come talora accade[20]. La rivoluzione tecnologica ha avuto luogo, ma non bisogna restare indietro con la rivoluzione concettuale, che nella fattispecie consisterebbe nel comprendere come lavoro ogni produzione di valore, a cominciare da quella proprietà esclusivamente umane a non automatizzabile che è il consumo.
  • Secondo, per poter valorizzare il consumo come lavoro è necessario comprendere la vera natura del capitale, che non è questa o quella formulazione storica, ma piuttosto una struttura fondamentale dell’ominizzazione, l’accumulo di lavoro e di risorse per il futuro. Non c’è niente di deplorevole nella resilienza dei giganti del web[21] in epoca pandemica, anzi è altamente auspicabile che mentre certe attività sono penalizzate altre fioriscono. Il punto è precisamente l’equa ridistribuzione delle ricchezze, non il fatto che ci siano delle ricchezze e delle capitalizzazioni. Ma per giungere a una distribuzione equa occorre, anche in questo caso, riconcettualizzare il capitale esattamente come è necessario riconcettualizzare il lavoro.
  • Terzo, le due concettualizzazioni vanno di pari passo e si sostengono a vicenda. Come sappiamo, l’accelerazionismo[22] ha proposto di non opporsi all’automazione, ma anzi nello spingerla al massimo della sua potenza e redditività, in modo da rendere possibile un salario di base che a sua volta incrementerebbe i consumi. Il punto è però che non è chiaro, in questa prospettiva, chi paga per l’accelerazione tecnologica e per cosa si pagano i consumatori. Senza aver chiarito questo punto, si tratta di parole al vento, e spesso di parole pericolose, se si pensa all’esito populista e di destra a cui è in gran parte approdato l’accelerazionismo. Non c’è nulla di desiderabile (e per fortuna nulla di attuabile) nell’accelerare l’automazione totale, l’implosione del capitale o il suo oltrepassamento[23]. Non ha senso in assoluto e ne ha ancor meno se il capitale di cui si vuole accelerare la fine dovrà lasciare il posto a una assenza di capitale, e magari a un governo di accelerazionisti. Il processo capitalistico va compreso e socializzato (e soprattutto non demonizzato) creando webfare e giustizia sociale.
  • Quarto: è sin troppo evidente che dopo la scomparsa dell’homo faber sarà necessario un altro principio guida per l’umanità, e che va trovato nello sviluppo del più nobile dei lavori, il lavoro dello spirito, l’educazione e la cultura, che guidi il difficile ma promettente e soprattutto indispensabile passaggio dalla produmanità, in cui eravamo i surrogati delle macchine, alla documanità, in cui le macchine ci surrogheranno interamente lasciandoci all’attività puramente umana del sapere.

Un capitale documediale, il cui valore più grande sono i documenti accumulati e investiti, è il polo ideale di un lavoro che non consista nella fatica e nella alienazione, ma nella produzione di documenti attraverso il consumo e più generalmente attraverso la forma di vita umana. Ecco perché occorre comprensione e non accelerazione, una fuga in avanti per fortuna talmente strampalata da non avere possibilità di successo, perché l’autodistruzione del capitale in generale significherebbe l’autodistruzione dell’umanità. È ovvio, a questo punto, che la domanda centrale diviene: che cos’è l’essere umano nel momento in cui non è più identificato dal lavoro? L’errore più grande, da questo punto di vista, sarebbe considerarlo un angelo caduto, un individuo perfetto capace ormai di esprimersi in tutta la sua ricchezza. Ciò che, ovviamente, non è. Finito lo sfruttamento, incomincia l’educazione, ecco la grande promessa offertaci dall’automazione e dal capitale.

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BIBLIOGRAFIA

  1. M. A. Osborne, The Future of Employment: How Susceptible are Jobs to Computerisation?, September 17, 2013, disponibile al link: http://www.oxfordmartin.ox.ac.uk/downloads/academic/The_Future_of_Employment.pdf
  2. MIT Work of the Future Task Force “The Work of the Future: Building Better Jobs in an Age of Intelligent Machines”, MIT Press 2020. OECD (2020), OECD Employment Outlook 2020: Worker Security and the COVID-19 Crisis, OECD Publishing, Paris, https://doi.org/10.1787/1686c758-en. Cfr. anche il più recente fascicolo di “Nature” sul futuro del lavoro, disponibile al link:https://www.nature.com/news/science-must-examine-the-future-of-work-1.22833.
  3. J. Crary, 24/7. Late Capitalism and the Ends of Sleep, Verso, New York 2013
  4. B. Stiegler, L’emploi est mort, vive le travail! Entretiens avec Ariel Kyrou, Fayard, Paris 2015; R. Ciccarelli, Forza lavoro. Il lato oscuro della rivoluzione digitale, DeriveApprodi, Roma 2018; A. Casilli, Schiavi del clic: perché lavoriamo tutti per il nuovo capitalismo? Cit.
  5. H. Arendt, Vita activa, cit.
  6. Cfr. G. Mari, Il lavoro 4.0 come atto linguistico performativo. Per una svolta linguistica nell’analisi delle trasformazioni del lavoro, in Il lavoro 4.0. La quarta rivoluzione industriale e le trasformazioni delle attività lavorative, a cura di A. Cipriani, A. Gramolati e G. Mari, Firenze, Firenze University Press, 2018, pp. 321-322, 335. Più che una svolta linguistica, nella mobilitazione abbiamo a che fare con una svolta testuale, ossia appunto con la registrazione di atti.
  7. Per un radicamento della infosfera nella biosfera cfr. S.A. Colgate, H. Ziock, A Definition of Information, the Arrow of Information, and Its Relationship to Life, in “Complexity”, 16, 5, 2010, pp. 54-62.
  8. Amplissima la letteratura sulla precarietà. P. Cingolani, La précarité, Que-sais-je?, PUF Paris 2017; Id., Révolutions précaires. Essai sur l’avenir de l’émancipation, La Découverte, Paris 2014; Id., Un travail sans limites? Subordination, tensions, résistances, ERES, Toulouse 2012; S. Contarini, M. Jansen, S. Ricciardi (a cura di), Le culture del precariato, Ombre corte, Verona 2015; S. Contarini, L. Marsi (a cura di), Precarietà. Per una critica della società della precarietà, Ombre corte, Verona 2015; M. Colonna, E. Pugliese (a cura di), Il futuro del lavoro in Europa. Occupazione, diritti civili, diritti sociali, cit. Tutto ciò che viene denunciato è sacrosanto, ma sarebbe sbagliato (eppure è quanto per lo più avviene) opporre alla precarietà la restaurazione del posto fisso. Tanto varrebbe riproporre il colonialismo e la guerra come soluzione delle controversie fra Stati. È necessaria invece una rivoluzione concettuale che riconosca il consumo come lavoro, e l’educazione permanente, e non l’impiego fisso, come obiettivo di una documanità a venire.
  9. Discorso di Goebbels del 18 febbraio 1943.
  10. S. Žižek, L’oggetto sublime dell’ideologia (1989), trad. it. Ponte alle grazie, Milano 2014.
  11. Questa trasformazione sta al centro delle ricerche di Richard Sennett. Cfr. in particolare R. Sennett, The Corrosion of Character. The Personal Consequences of Work in the New Capitalism, Norton, New York-London 1998. Sull’idea di “professione” come fatto intrinsecamente borghese e identitario: M. Weber, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, cit. Sulla decadenza di questa figura, R. Sennet, Il declino dell’uomo pubblico cit., e L’uomo flessibile. Le conseguenze del nuovo capitalismo sulla vita personale, cit. La composizione sociale oggi ricorda quella descritta da Volponi parlando della marcia dei Quarantamila. “Quarantamila capi silenziosi e disciplinati, ben pettinati e calzati, precisi e disinvolti sugli ombrelli e sui soprabiti ripiegati sul braccio o appoggiati come manti sulle spalle, sciolti oppure aderenti, mai svolazzanti. Quarantamila capi! Come può essere! Devono esserci anche i dirigenti di quarta fila e i più anziani fuori ruolo. Debbono esserci i corsisti interni, gli aspiranti, i parenti, i vicini di casa, i consoci, i padroni di case, di alberghi, di ristoranti, di caffè, gestori di pasticcerie, drogherie, farmacie, sarti, insegnanti, commercialisti, assicuratori, noleggiatori, agenti, funzionari di banca, e così anche ruffiani, biscazzieri, beccamorti, azionisti, risparmiatori, nastri azzurri, pensionati di guerra, giornalisti, cronisti, librai, tecnici del calcio e della boxe, antiquari, restauratori, mobilieri”. P. Volponi, Le mosche del capitale, Einaudi, Torino 1989.
  12. Sulle trasformazioni del lavoro nel Novecento: A. Appadurai, Globalization, Duke University Press, Durham-London 2001; H. Arendt, Vita activa. La condizione umana (1958), trad. it. Bompiani, Milano 2011; P. Askonas, A. Stewart, Social Inclusion: Possibilities and Tensions, St. Martin’s Press, New York 2000; Z. Bauman, Modernità liquida, cit.; U. Beck, The Brave New World of Work, cit.; P. Bourdieu, La précarité est aujourd’hui partout, in Id., Contre-feux: propos pour servir à la résistence contre l’invasion néo-liberale, Liber-Raisons d’Agir, Paris 1998, pp. 95-101; R. Castel, La metamorfosi della questione sociale: una cronaca del salariato (1995), trad. it., Mimesis, Milano 2019; L. Castelvetri, Il diritto del lavoro delle origini, Giuffrè, Milano 1994; S.R. Chakravarty, Inequality, Polarization and Poverty, Springer 2009; P. Chirumbolo, Letteratura e lavoro, Rubbettino, Soveria Mannelli 2013; M. Colonna, E. Pugliese (a cura di), Il futuro del lavoro in Europa. Occupazione, diritti civili, diritti sociali, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 2007; A. Gorz, Metamorfosi del lavoro: critica della ragione economica (1988), trad. it. Bollati Boringhieri, Torino 1992; Id., L’immateriale: conoscenza, valore, capitale, trad. it. Bollati Boringhieri, Torino 2003; E. Brynjolfsson, A. McFafee, La nuova rivoluzione delle macchine. Lavoro e prosperità nell’era della tecnologia trionfante (2014), trad. it. Feltrinelli, Milano 2015; A. Condello, T. Toracca, Lavoro, identità: riflessioni tra letteratura e diritto, in “Il Ponte”, 2, Marzo 2016, pp. 120-126; M. De Vos, From labour market crisis to labour market reform: lessons from and for a divided European Union, in Labour regulation in the 21st century: in search of flexibility and security, Cambridge Scholars Publishing, Newcastle 2012, pp. 117-131; L. Gallino, Il lavoro non è una merce, Laterza, Roma-Bari 2007; G. Lovink, L’abisso dei social media. Nuove reti oltre l’economia dei like (2016), trad. it. Università Bocconi Editore, Milano 2016; R. Munck, Globalization and Labour. The new ‘Great Transformation’, Zed Books, London & New York 2002; P.P. Pasolini, Scritti corsari, Garzanti, Milano 1975; J. Rifkin, The End of Work: The Decline of the Global Labor Force and the Dawn of the Post-Market Era, Putnam Publishing Group, New York 1995; R. Rowthorn, R. Ramaswarmy, Deindustrialization: Causes and Implications, in “Warking Paper”, 42, 1997; R. Sennet, Il declino dell’uomo pubblico (1976), trad. it. Mondadori, Milano 2006; Id. L’uomo flessibile: le conseguenze del nuovo capitalismo sulla vita personale (1998), trad. it. Feltrinelli, Milano 1999; B. Stiegler, L’emploi est mort, vive le travail! Entretiens avec Ariel Kyrou, Fayard, Paris 2015; A. Supiot, Au-delà de l’emploi. Sous la direction de Alain Supiot, Flammarion, Paris 2016; T. Toracca, Labour Between Law and Literature: Historical Similarities and Critical Propositions on the Present, in “Pólemos”, 11, 2, 2017, pp. 361-377; M.A. Toscano (a cura di), Homo instabilis. Sociologia della precarietà, Jaca Book, Milano 2007; V. Tranquilli, Il concetto di lavoro da Aristotele a Calvino, Ricciardi, Milano-Napoli 1979; V. Trevisan, Works, Einaudi, Torino 2016.
  13. A. Accornero, Era il secolo del lavoro, il Mulino, Bologna 1997.
  14. La velocità, che il Novecento ha salutato come pura emancipazione (“rapidità” è, insieme a “leggerezza”, una delle parole-chiave per il nuovo millennio secondo Calvino), nasconde un peso e un prezzo enormi. Cfr. I. Calvino, Lezioni americane. Sei proposte per il prossimo millennio, Garzanti, Milano 1988.
  15. H. De Soto, Il mistero del capitale: perché il capitalismo ha trionfato in Occidente e ha fallito nel resto del mondo (2000), trad. it. Garzanti, Milano 2001.
  16. K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica (1857-1858), trad. it. La Nuova Italia, Firenze 1970, vol. II, p. 401.
  17. Classici del lavoro: J.W. Goethe, Gli anni di apprendistato di Wilhelm Meisters (1795-1796), trad. it. Adelphi, Milano 1976-2006; K. Marx e F. Engels, L’ideologia tedesca: critica della più recente filosofia tedesca nei suoi rappresentanti Feuerbach, B. Bauer e Stirner, e del socialismo tedesco nei suoi vari profeti (1845), trad. it. Editori Riuniti, Roma 2000; K. Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844 (1844), trad. it. Einaudi, Torino 2004; F. Schiller, Lettere sull’educazione estetica dell’uomo (1794), trad. it. Armando Editore, Roma 2002; W. Von Humboldt, Idee per un tentativo di determinare i limiti dell’attività dello Stato (1792), trad. it. Mimesis, Milano-Udine 2019; M. Weber, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo (1904-1905), trad. it. Sansoni, Firenze 1972; A. Gramsci, Quaderni dal carcere (1948-1951), Einaudi, Torino 1975. Cfr. la raccolta antologica commentata da A. Negri, Filosofia del lavoro: storia antologica, Marzorati, Milano 1980-1981, 7 voll.
  18. Si scrive solo su ciò che non si sa, su ciò che ha smesso di essere ovvio. Un fatto specificamente italiano è l’abbondante messe di studi di letteratura sul lavoro. Il lancio è avvenuto con A. Pennacchi, Mammut, Donzelli, Roma 1994. Da lì l’editoria comincia a interessarsi al tema. Poi, il boom di opere avviene nel 2004-2005. Ma continua ancora oggi. G. Accardo, Un anno di corsa, Sironi, Milano 2006; E. Albinati e F. Timi, Tuttalpiù muoio, Fandango, Roma 2006; E. Aloia, Sacra fame dell’oro, minimum fax, Roma 2006; P. Amadio, Viva il call center, Amadio, Roma 2005; S. Avallone, Acciaio, Rizzoli, Milano 2010; T. Avoledo et al., Lavoro da morire. Racconti di un’Italia sfruttata, Einaudi, Torino 2009; A. Bajani, Mi spezzo ma non m’impiego, Einaudi, Torino 2006; S. Baldanzi, Figlia di una vestaglia blu, Fazi, Roma 2006; A. Carraro, Non c’è più tempo, Rizzoli, Milano 2002; Id., Il sorcio, Gaffi, Roma 2007; A. Cisi, Cronache dalla ditta, Mondadori, Milano 2008; M. Desiati, Vita precaria e amore eterno, Mondadori, Milano 2006; F. Dezio Nicola Rubino è entrato in fabbrica, Feltrinelli, Milano 2004; G. Falco, Ipotesi di una sconfitta, Einaudi, Torino 2017 (Falco è forse l’autore più importante fin da Pausa caffè, Sironi, Milano 2004 e poi con i racconti di L’ubicazione del bene, Einaudi, Torino 2009); G. Fazzi, Ferita di guerra, Gaffi, Roma 2005; C. Frascella, Il panico quotidiano, Einaudi, Torino 2013; A. Ferracuti, Addio. Il romanzo della fine del lavoro, Chiarelettere, Milano 2016; N. Lagioia e C. Raimo (a cura di), La qualità dell’aria. Storie di questo tempo, minimum fax, Roma 2004; M. Lolli, Il lunedì arriva sempre di domenica pomeriggio, Mondadori, Milano 2009; F. Maino, Cartongesso, Einaudi, Torino 2014; M. Murgia, Il mondo deve sapere. Romanzo tragicomico di una telefonista precaria, Isbn, Milano 2006; S. Nata, Il valore dei giorni, Feltrinelli, Milano, 2010; A. Nove, Mi chiamo Roberta, ho 40 anni, guadagno 250 euro al mese, Einaudi, Torino 2006; A. Prunetti, Amianto. Una storia operaia, Agenzia X, Milano 2012; L. Rastello, Piove all’insù, Bollati Boringhieri, Torino 2008; E. Rea, La dismissione, Rizzoli, Milano 2002 (ben più antico, ma dal romanzo di Rea, Gianni Amelio ha tratto il film La stella che non c’è, nel 2006); V. Santoni, Personaggi precari, Voland, Roma 2013; F. Targhetta, Le vite potenziali, Mondadori, Milano 2018; V. Trevisan, Works, Einaudi, Torino 2016; S. Ventroni, Nel Gasometro, Le Lettere, Firenze 2006.
  19. Si consideri il caso di Tik Tok, app di intrattenimento che genera tanto valore da essere ormai vietata da Trump negli USA (https://www.lastampa.it/esteri/2020/08/01/news/trump-annuncia-un-decreto-per-vietare-tiktok-negli-usa-1.39147338).
  20. A McAfee, E. Brynjolfsson La nuova rivoluzione delle macchine. Lavoro e prosperità nell’era della tecnologia trionfante (2014), trad. it. Feltrinelli, Milano 2017.
  21. Area Studi Mediobanca. Milano, 14 Ottobre 2020
    https://www.mbres.it/sites/default/files/resources/rs_WebSoft2020_presentazione.pdf
  22. N. Srnicek e A. Williams,  Manifesto Accelerazionista (2013), trad. it. Laterza, Roma-Bari 2018; N. Srnicek e A. Williams, Inventare il futuro. Per un mondo senza lavoro (2016), Nero Editions, Roma 2018.
  23. P. Mason, Postcapitalismo. Una guida al nostro futuro (2015), trad. it. Il Saggiatore, Milano 2016.

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